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Corrado Alvaro, il profondo osservatore di fatti e costumi.

Nasce il 15 aprile 1895 a San Luca (Reggio Calabria), un piccolo paese sul versante ionico dell’Aspromonte. Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfabeti; la madre proviene da una famiglia di piccoli proprietari. A San Luca trascorre un’infanzia felice, fortemente influenzato dal padre da cui riceve la prima istruzione e gli fa conoscere profondamente la natura, gli uomini e la tradizione della sua terra. Terminate le scuole elementari è mandato a proseguire gli studi nel prestigioso collegio di Mondragone, a Frascati. Tuttavia, nella sua memoria di scrittore, il paese natale, l’ambiente umano e sociale della sua regione, con i miti e le tradizioni di una gente ancora legata a strutture economiche quasi primitive, non si cancellarono; si fissarono anzi come un elemento fondamentale d’ispirazione e formarono il più ricco sedimento di valori poetici e morali nella coscienza di scrittore dell’Alvaro.Durante gli studi superiori si dedica con grande passione alla letteratura, approfondendo soprattutto le opere degli scrittori allora più noti e ammirati quali Carducci , Pascoli e D’Annunzio e compone lui stesso molti racconti e poesie. Nel 1914 pubblica le sue prime poesie su “Il nuovo birichino calabrese”. Nel gennaio del 1915 è chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Viene ferito alle braccia nella zona di San Michele del Carso e sarà anche decorato con la medaglia d’argento. Nel primo dopoguerra collabora al “Resto del Carlino” di Bologna, pubblicandovi i primi racconti, e successivamente è assunto al “Corriere della Sera” a Milano. Nel 1922 è chiamato come redattore al “Mondo” di Giovanni Amendola. Dopo il delitto Matteotti è tra i cinquanta firmatari dell’Unione nazionale delle forze democratiche guidata da Amendola. A partire dall’estate del ’24 sulla rivista umoristica “Il becco giallo”, che non risparmia critiche al regime, si occupa con lo pseudonimo V.E. Leno della rubrica “Sfottò”. Su “La Stampa” del 14 gennaio 1927 pubblica le pagine iniziali di “Gente in Aspromonte”. E’ oggetto di attacchi da parte dei giornalisti fascisti, ma declina l’invito fattogli da amici francesi ad andare a Parigi. Alla fine del ’28 parte per Berlino e segue attentamente la vita culturale tedesca. Rientrato definitivamente a Roma continua a collaborare con “la Stampa” e pubblica le raccolte di racconti “Gente in Aspromonte”, “La signora dell’isola” e il romanzo “Vent’anni”. Fino alla caduta del fascismo, Alvaro si mantiene comunque lontano dagli ambienti del potere e riesce a continuare con una relativa tranquillità la sua opera narrativa e saggistica. Nel gennaio del ’41 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più volte a Caraffa del Bianco (Reggio Calabria) a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Nel secondo dopoguerra esce “L’età breve”, primo romanzo del ciclo “Memorie del mondo sommerso”.

Vive e lavora tra Roma, nell’appartamento di Piazza di Spagna, e Vallerano, in provincia di Viterbo, dove ha una grande casa in mezzo alla campagna. Muore prematuramente a Roma il mattino dell’11 giugno 1956, lasciando alcuni romanzi incompiuti e altri inediti vari.

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Cassiodoro, la prima università del sapere cristiano e profano d’Occidente.

Cassiodoro nasce a Squillace, tra il 485 e il 490. Egli apparteneva ad una potente e illustre famiglia di funzionari di origine siriana che vantava parentela con i Simmachi e con la famiglia degli Anicii. Il nome proprio che lo distinse dai suoi antenati e famigliari illustri era quello di Senatore. Cassiodoro fu avviato giovanissimo dal padre alla carriera politica. Percorse rapidamente, sotto Teodorico e i suoi successori, il cursus honorum, conseguendo in veloce successione, dal 507 al 514, le cariche di questore, corrector Lucaniae et Bruttiorum, come suo padre e di magister officiorum. Allontanato per un breve periodo dalla corte di Teodorico, fu richiamato nel 533 come prefectus praetorio Italiae, carica che tenne fino al 536. Quattro re dei Goti nel 526 – Teodorico, Atalarico, Teodato e Vitige e la reggente Amalasunta – lo ebbero come proprio ministro. Nell’ideologia e nella prassi politica era intuizione e progetto sapiente e lungimirante di Cassiodoro l’integrazione e la fusione fra l’elemento goto e quello romano cementato dalla civiltà cristiana, anticipando con ciò di quindici secoli il cammino di unificazione delle cultura e dei popoli europei. Caduto il regno dei Goti, Cassiodoro, immerso in una radicale conversione, attraverso un itinerario eccezionale e ammirevole santità, si dedico interamente all’attività intellettuale e religiosa nel tentativo di attuare un grandioso programma di educazione culturale e formativa. Fallito un primo tentativo di fondare a Roma, nel 536, con l’aiuto di Papa Agapito, un’università del sapere cristiano e profano sul modello di quelle fiorite in Oriente ad Alessandria e a Neocesarea-Nisibi, Cassiodoro riuscì nel suo intento nella natia Squillace, dove fondò tra il 554-560, a lato del fiume Pellene (attuale Alessi), il monastero di Vivarium, ove trasportò la sua ricchissima biblioteca e che si può a ragione considerare il primo esempio di università cristiana d’Occidente. Nel Vivarium, Cassiodoro realizzava in maniera altamente originale una fusione tra l’ideale contemplativo classico e quello cristiano dell’operosa preghiera per i fratelli. Lo studio imposto ai monaci, insieme alla trascrizione degli antichi codici, dava un originale ed autonomo indirizzo alla Regola Benedettina privilegiando in senso intellettuale l’obbligo del lavoro prescritto da S. Benedetto secondo uno schema che ha i suoi prodromi nella Regula Magistri, da molti attribuita allo stesso Cassiodoro. Nella piena maturità egli affidò il meglio di sé alle Istitutiones divinarum et saecularum, sorta di enciclopedia propedeutica allo studio delle lettere sacre e profane. Purtroppo, l’istituzione non sopravvisse a lungo al suo fondatore e già nel sec. VII la sua celebre biblioteca del Vivarium, vero prototipo dei centri culturali monastici dei Medioevo dove i monaci erano l’espressione più alta della lotta per l’ordine sociale e la difesa della civiltà del tempo, che aveva raccolto pressoché tutto quello che in quel tempo esisteva della cultura sacra e profana, andò smembrata e dispersa. Nonostante, Cassiodoro può essere considerato come il grande erudito che riassume in sé la cultura teologica, storica e grammaticale, soprattutto nel passaggio dalla cultura classica alla civiltà medievale. Merito di Cassiodoro è quello di avere promosso la conservazione dei manoscritti nei monasteri, contribuendo a tramandare un grosso patrimonio culturale, destinato a rivivere nell’età umanistica. Morì intorno al 580 e il 583 a.C.

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Gioacchino da Fiore, il profeta di Dio.

La più grande personalità del Medioevo che troviamo nella cittadina di San Giovanni in Fiore è senza ombra di dubbio l’abate Gioacchino da fiore. Egli nacque a Celico dal notaio Mauro e da sua moglie Gemma intorno al 1135 c.a. La sua formazione fu prettamente latina ed egli non ebbe nulla a che fare con i monaci greci, che al suo tempo avevano una posizione predominante nella Calabria meridionale, ma del tutto trascurabile in Val di Crati e nella Cosenza normanna. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza, dove spinto dal padre lavorò presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino ed infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta. Nel viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture e rientrato in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero italo-greco posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re, Dio. Visse circa un anno presso l’Abbazia di Santa Maria della Sambucina, a Luzzi, che negli anni 1152-53 passava dai Benedettini ai Cistercensi, da cui si allontanò poi per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove fu ordinato sacerdote. Secondo le fonti, nel 1177 Gioacchino venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri poiché la vera ambizione di Gioacchino non era raggiungere un titolo, ma a studiare la Sacre Scritture e predicarle alla gente. Tuttavia riuscì a convincersi. In qualità di abate compì un viaggio nell’Abbazia di Casamari, nel Lazio tra il 1182 e il 1184. Durante la sua permanenza nell’Abbazia incontrò il papa Lucio III che gli accordò la “licentia scribendi“. Le sue dottrine ed il suo ideale di vita monastica austera e rigorosa, lo misero in urto con il suo Ordine dal quale intorno nel 1188 si staccò poiché non condividevano il suo continuo girovagare così distante. Il Papa Urbano III lo prosciolse così dai doveri abbaziali autorizzandolo a continuare a scrivere. Nel 1194 Gioacchino ebbe in concessione da Enrico IV un vasto tenimento in Sila e ottene privilegi sovrani su tutta la Calabria. Profondamente convinto del suo messaggio e ritenendosi “chiamato” ad una vera e propria funzione profetica, fondò una sua Congregazione Florense alla confluenza dei fiumi Arvo e Neto, in località Fiore, dove edificò un piccolo ospizio. In seguito all’aumentare del numero dei suoi seguaci, iniziò la costruzione di quella che doveva diventare l’Abbazia Madre dell’Ordine Florense. L’Abbazia venne dedicata a S. Giovanni Evangelista, alla Vergine ed allo Spirito Santo. Intorno all’edificio iniziarono a sorgere le abitazioni di allevatori, pastori, cacciatori, raccoglitori di pece e di tutti coloro che si insediavano in Sila per sfruttarne le grandi risorse naturali. Velocemente si formò un borgo che prese il nome del santo a cui era dedicata la chiesa e del posto sul quale la chiesa fu edificata: San Giovanni in Fiore. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’abate Matteo, successore di Gioacchino, continuò l’opera ampliando le fondazioni florensi, nel periodo del suo abbaziato (1202-1234), l’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparse in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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Tommaso Campanella, sulle orme di Bernardino Telesio.

Nato a Stilo nel settembre del 1568, in provincia di Reggio Calabria, Campanella fu un ragazzo prodigio. Figlio di un calzolaio povero ed illetterato, prese gli Ordini Domenicani non ancora quindicenne sotto il nome di frate Tommaso in onore di San Tommaso d’Aquino. Studiò teologia e filosofia con diversi maestri. Venne in contatto con le idee sull’ortodossia aristotelica da cui si allontanò subito, attratto invece dall’empirismo di Bernardino Telesio il quale gli insegnò che la conoscenza è sensazione e che tutte le cose naturali ne possedevano. Campanella scrisse la sua prima opera, Philosophia sensibus demonstrata (Filosofia dimostrata dai sensi), pubblicata nel 1592, nella quale difese Telesio. Nello stesso anno subì un processo da parte del suo stesso ordine e tra il 1594 e il 1595. Venne inquisito e torturato a Padova e a Roma. Il processo inquisitoriale si concluse con l’abiura e la condanna per sospetto veemente di eresia da parte della Congregazione del Sant’Uffizio. A Napoli venne in contatto con l’astrologia e i riferimenti astrologici che sarebbero diventati una caratteristica costante nei suoi scritti. Le concezioni non ortodosse di Campanella, fortemente in contrasto con l’autorità di Aristotele, lo portarono in conflitto con la Chiesa. Denunciato all’Inquisizione e citato presso il Sant’Uffizio a Roma, fu confinato in un convento fino al 1597. Dopo la sua liberazione, Campanella tornò in Calabria e si fece portatore di una cospirazione contro il potere spagnolo a causa della quale fu ordinata la chiusura, per decreto del vicario Pedro di Toledo, dell’Accademia Cosentina. Lo scopo di Campanella era quello di formare una società basata sulla comunità dei beni e delle mogli, somiglianza con lo stato ideale di Platone. Tradito da due compagni cospiratori fu preso ed incarcerato a Napoli. Riuscì a sfuggire alla pena di morte fingendosi pazzo, “Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?” disse Campanella stesso ad un aguzzino riferendosi agli inquisitori, ma fu condannato all’ergastolo. Campanella trascorse 27 anni in prigione a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia di Spagna“(1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus“(1605-1607), Quod reminiscetur (1606 ca), Metaphysica (1609-1623), Theologia (1613-1624), e la sua opera più famosa, La città del sole (1623) in cui vagheggiava l’instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne nel primo processo contro Galileo Galilei con la sua coraggiosa “Apologia di Galileo” (1616). Fu infine scarcerato nel 1626 grazie a Papa Urbano VIII che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant’Uffizio e fu liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche. Nel 1634 una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l’aiuto del Cardinale Barberini e dell’ambasciatore francese de Noailles fuggì in Francia dove fu benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal Cardinale Richelieu e finanziato dal Re passò il resto dei suoi giorni al convento parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la nascita del futuro Luigi XIV, l’ Ecloga in portentosam Delphini nativitate. Morì a Parigi il 21 maggio del 1639.

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Mintom, a dieci anni dalla morte.

Tommaso Minniti, in arte Mintom, nasce nel 1926 a Reggio Calabria. Figura complessa di pittore, grafico e poeta, Mintom docente di Educazione Artistica e Materie Pittoriche, da giovane ha frequentato il Liceo Scientifico non potendo tuttavia completare gli studi a causa della guerra che lo spinse, come avvenne per molti dei suoi concittadini, ad emigrare al Nord. Finita la guerra lavorò nei cantieri navali di Pietra Ligure come disegnatore e dopo una serie di viaggi in Svizzera, Milano e Roma fece finalmente rientro a Reggio dove riprese e completò gli studi presso l’Istituto d’Arte Frangipane. Diplomatosi, frequentò poi l’Accademia di Belle Arti conseguendo il diploma con lode in Pittura. All’osservatore attento che si accosti alla sua opera egli si presenta, sia che si tratti dell’arte figurativa che dell’arte della parola, nella ricchezza della sua tavolozza variata per temi e tecniche a dimostrare la sua inesauribile voglia di ricerca, il suo desiderio di battere sempre nuove strade e di non essere mai eguale a se stesso. Autore di ritratti, nature morte, paesaggi, nudi femminili, artista del sacro, pittore di esotismi, maestro di variazioni sul tema della maschera e volto di ascendenza letteraria, pittore capace di cogliere nella serie dell’attesa momenti di vita quotidiana, affronta i temi più diversi con una tecnica sempre diversificata così da sembrare ora impressionista, ora espressionista, ora simbolista, ora naif. L’ecletticismo insito nelle sue opere rende la sua arte e il suo mondo interiore non immediatamente percettibile all’occhio dell’osservatore esterno ma al contempo schiude i significati più profondi della ricchezza di un artista che cerca continuamente se stesso e il modo di esprimere compiutamente la propria anima. Artista, poeta e letterato nella sua luminosa e apprezzata carriera ha ottenuto numerosi riconoscimenti non solo a livello nazionale come il Premio Centauro d’oro nel giugno del 1982 presso Salsomaggiore Terme ed il Premio Colonna d’oro 1982 presso Modena, ma anche internazionali come il riconoscimento ottenuto dall’AIAM (Accademia Internazionale d’Arte Moderna) nel 1989, il Primo Premio Nazionale “Artisti famosi nel mondo” i grandi maestri del XX secolo ed il premio Salvador Dalì, in Spagna nel 1991.

Bernardino Telesio, il primo sistema naturalistico.

Bernadino Telesio è stato un filosofo e naturalista italiano, originario di Cosenza, dove nasce nel 1500. A seguito dello zio umanista e letterato Antonio, all’età di diciotto anni, si trasferisce dapprima a Milano e poi a Roma fino al 1527, passando per Venezia che lo vede come insegnante. Successivamente Bernardino si trasferisce a Padova nella cui università studia filosofia, matematica, astronomia e ottica fino al 1535, anno in cui consegue il dottorato. Nell’università di Padova, Telesio viene in contatto con quelle che erano le teorie averroiste ed alessandrine sull’interpretazione di Aristotele e proprio in questo ambiente di contrasti Bernardino svilupperà la sua critica alla fisica aristotelica elaborando quello che sarà il più grande interesse della sua vita: lo studio della natura. Godendo del favore di papi come Clemente VII e Gregorio XIII e grazie all’amicizia ed alla protezione del Duca di Nocera, Alfonso Carafa, Bernardino, suo ospite per lunghi periodi, riesce a comporre la sua maggiore opera tra il 1544-1552, il “De rerum natura iuxta propria principia” (Intorno alla natura delle cose secondo i propri principi). Tra i numerosi viaggi compiuti, Telesio nel 1553 torna a Cosenza dove prende in moglie un vedova, Diana Sersale il quale, oltre ai due che già possedeva, morì lasciando a Bernardino altri quattro figli. Negli anni successivi, a cavallo tra il ’55 e il ’59, nonostante la precarietà della sua situazione, Bernardino rifiuta la nomina, offertagli da papa Paolo IV, di arcivescovo di Cosenza in favore del fratello Tommaso. Nel 1565 vengono pubblicati i primi due libri della sua opera. Nonostante il conforto di una fama sempre crescente, l’ultimo decennio della sua vita venne sconvolto dalla morte, o assassinio, del suo primogenito Prospero nel 1576. Telesio non lascerà mai più Cosenza, dedicandosi ai suoi studi filosofico-scientifici fino alla sua morte, avvenuta nel 1588, due anni dopo la pubblicazione ultima dei nove libri del “De rerum natura”.

PENSIERO

Telesio, ha un concetto materialistico dell’uomo e della natura. Egli avanza l’idea che la conoscenza della natura debba basarsi sullo studio di principi naturali, iuxta propria principia quindi, abbandonando ogni considerazione metafisica. La filosofia di Telesio si sviluppa dalla critica dei fondamenti della fisica aristotelica basata su un metodo dove principi universali astratti come sostanza, forma e materia pretendono di spiegare fatti concreti che rimandano piuttosto ad un intervento dei sensi che li percepiscono. In più, osserva Telesio, Aristotele introduce spiegazioni metafisiche come il “motore immobile” per spiegare fenomeni fisici. La natura spiega Telesio, invece va studiata adoperando principi che abbiano la stessa consistenza materiale della natura e che siano da noi appresi tramite i sensi.

I principi sono tre:

 Due forze agenti il caldo, dilatante, e il freddo, condensante, che emanano dai corpi ma che non hanno di per sé una consistenza corporea anche se possono inserirsi nei corpi più compatti.

 Un sostrato corporeo, la materia, che permette a quelle forze di esplicarsi realmente dando così ragione del mutamento delle cose.

Contrariamente ad Aristotele che sosteneva che «quidquid movetur ab alio movetur», cioè che ogni cosa in movimento è mossa da un altro corpo in movimento, Telesio ritiene che il movimento sia un principio inerente al calore per cui in natura si muove tutto ciò che è caldo. Non esiste dunque un motore immobile poiché ogni corpo naturale è in grado di muovere se stesso. Un’altra caratteristica del calore e del freddo è la sensibilità che appartiene ad entrambi in quanto questi due principi avvertono la presenza l’uno dell’altro e quindi si contrastano tra loro e cercano di reciprocamente di evitarsi. Il calore è sensibilità e quindi vita; ogni corpo che possegga una minima quantità di calore è animato. A differenza dei corpi inorganici, in quelli organici è presente un’anima, chiamata da Telesio spiritus, concepita come una materia sottilissima che riempie di sé ogni parte dei corpi viventi e che è destinata a morire assieme al corpo.

«[..]è la stessa sostanza che nell’uomo sente e ragiona; la sostanza che ragiona non è affatto diversa da quella che sente.»

Altrettanto materiale è l’intelligenza che appartiene nella sua corporeità non solo all’uomo ma a tutti gli esseri viventi. Essa non è altro che il deposito nella memoria delle percezioni immediate avute in passato. È in base a questi ricordi sbiaditi delle percezioni passate che siamo in grado di riconoscere un corpo anche in assenza di sensazioni attuali.

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Alarico I, la leggenda calabrese.

Alaricus in latino, compare per la prima volta nelle cronache nel 390 quando, giovane principe della dinastia dei Balti, guidò i Visigoti, gli Unni ed altre tribù provenienti dalla sponda sinistra del Danubio nell’invasione della Tracia, culminata con il saccheggio di quella provincia. “Il re di tutti”, significato del suo nome, nacque nel 370 d.C. c.a. Acclamato nel 395 duce dei visigoti allora stanziati nella Pannonia e nella Mesia come foederati di Roma, invase la Macedonia, la Tessaglia, il Peloponneso e l’Epiro inserendosi abilmente nella discordia esistente tra i successori di Teodosio, Onorio e Arcadio e i rispettivi ministri, Stilicone e Rufino. Ricevette la nomina di magister militum dall’imperatore romano d’oriente Arcadio garantendo autonomia per il suo popolo a patto che cessasse le ostilità e le scorrerie. Nel 400 Alarico invase l’Italia dove, dopo aver varcato le Alpi Giulie, devastò le province di Venezia, Liguria ed Etruria, espugnando diverse città toccando perfino Mediolanum, l’allora capitale dell’impero, dove fu fermato dal generale Stilicone nel 402, comandate in capo dell’esercito romano d’occidente e protettore del nuovo imperatore Onorio. Fu stipulato un trattato con il quale Alarico, obbligato a ritirarsi di buon ordine dall’Italia, si impegnava ad asservire l’impero d’occidente. Tuttavia a tre anni dalla sconfitta, Alarico invase Verona e venne fermato ancora una volta dal generale Stilicone e si trovò nuovamente costretto a rinnovare il trattato di alleanza con il vincitore il quale grazie ad esso poteva assicurarsi un forte alleato contro l’impero d’oriente. Rientrato in Epiro, Alarico ricevette tributi da Stilicone il quale non voleva avere problemi sui confini orientali dell’impero, in particolare nel maggio del 408, quando deciso il generale si recava verso Costantinopoli rimasta senza un reggente a causa della morte di Arcadio, fratello dell’imperatore Onorio, nell’intenzione di conquistare finalmente l’illirico orientale. Seguirono numerose battaglie sanguinose e molto difficoltose per il generale Stilicone che si trovò a fronteggiare una nuova personalità scesa dall’antica Britannia ormai ribellatasi l’anno precedente, un certo Flavio Claudio Costantino, noto alla storia come futuro imperatore Costantino III. Nell’agosto di quell’anno Stilicone a causa di trame e intrighi venne messo a morte, causa tradimento, e per Alarico questo significava l’aprirsi nuovamente la strada per un ritorno nei territori italiani. Senza l’aiuto del cognato e futuro re, Atatulfo, impegnato in Pannonia, Alarico invase nuovamente l’Italia giungendo a Ravenna ed esigendo dall’imperatore un tributo annuo e un’insediamento nel Nordico ma senza successo. Arrivò allora fino a Roma accerchiandola non con l’intenzione di attaccarla ma come dimostrazione delle sue capacità. La città, difesa dalle sue fortificate mura, non cedette ma il prezzo fu altissimo: una pesante carestia e una forte epidemia di colera. Tolto l’assedio, Alarico rientrò in Toscana ottenendo dal senato romano l’elezione di Attalo Prisco come correggente di Onorio e la carica di magister militum dell’occidente. Ma quando Onorio nominò Saro generale, la nomina ambita dal re goto, e dopo l’attacco del nuovo generale ad Atatulfo e l’inadeguatezza di Attalo Prisco nella pianificazione della conquista africana, Alarico perdendo la pazienza mise in atto le sue minacce e nella notte del 24 agosto del 410 d.C. Alarico dei Balti entrò con il suo esercito a Roma passando per Porta Salaria. Seguirono tre giorni di saccheggi e violenze. Successivamente i barbari abbandonarono l’Urbe e si diressero verso il Sud della penisola con la probabile intenzione di raggiungere le coste africane per nuove invasioni e conquiste. Ma ecco l’imprevisto: Alarico, allora quarantenne, colto da improvvisa malattia, morì pare nei pressi di Reggio. Ed ecco che qui entra in gioco la leggenda: si narra che i Visigoti per evitare che mani romani potessero violare la tomba del loro re, deviarono il fiume Busento, nei pressi di Cosenza, e seppellirono nel suo letto Alarico in armi, insieme al suo cavallo ed al suo immenso tesoro, pare 25 tonnellate d’oro e 150 di argento, ripristinando successivamente il normale corso delle acque. Infine, gli schiavi utilizzati per deviare temporaneamente il corso del fiume vennero uccisi perché non rivelassero il segreto.

 

 

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