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L’immagine del calabrese errante nel romanzo di Peppe Voltarelli

LAMEZIA TERME (CZ)- Peppe Voltarelli, cantautore calabrese, ha presentato il suo libro intitolato “Il caciocavallo di bronzo. Romanzo cantato e suonato”. L’evento si è svolto il 16 giugno presso la libreria Gioacchino Tavella. A introdurre è stato il professore di latino e greco Antonio Milano, esperto di musica etnica.

Il romanzo si articola in diciannove racconti in cui musica e parole si alternano, disegnando un grande affresco della Calabria, luogo mitico in cui la realtà spesso si mescola all’immaginazione.

Il titolo intende sia rimarcare il legame con la tradizione rurale che mettere in luce come la nostra regione abbia sempre vinto il premio di bronzo, cioè si sia classificata sempre al terzo posto. I luoghi in cui le storie sono ambientate sono tutti reali: le stazioni ferroviarie, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria,  i paesi che l’artista ha visitato in tournée e naturalmente Crosia, città natia dell’artista.

Quella di Voltarelli non vuole essere una denuncia ma piuttosto un canto celebrativo rivolto alla propria terra che ha scelto di lasciare da giovanissimo per inseguire il sogno di fare della musica il proprio lavoro. La sua parabola artistica ha inizio a Bologna quando nel 1991 fonda insieme ad alcuni amici la band dal nome Il parto delle nuvole pesanti. «Arrivato a Bologna iniziai a scrivere in dialetto calabrese e mi resi conto che ciò suscitò enorme curiosità e interesse sia nel resto d’Italia che all’estero» racconta Voltarelli.

Ecco allora che il dialetto calabrese  acquista una potenza lirica unica e una musicalità inedita, in grado di coinvolgere la massa e di diventare anche uno strumento di denuncia.

L’intero romanzo è stato scritto senza l’ausilio della punteggiatura e  al centro del racconto, articolato mediante l’uso di metafore e allusioni, c’è  la figura del calabrese errante sempre alla ricerca di un “altrove” eppure saldamente legato alle proprie radici e a quell’insieme di valori tipici della “calabresità”.

                                                                                                                                                                 Marianna Leone

Pensiero volante non identificato. Mostra di Lino Strangis a Lamezia Terme

LAMEZIA TERME (CZ)- Scriveva Nietzsche: «bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante». Per il filosofo tedesco l’atto creativo rappresentava quella forza propulsiva in grado di varcare i limiti e di raggiungere la piena libertà. Ed è proprio l’immagine del “volo” alla ricerca di un “altrove” il leitmotiv del progetto intermediale di Lino Strangis, artista e teorico nato a Lamezia Terme ma formatosi a Roma. La mostra, inaugurata il 17 maggio presso Palazzo Nicotera a Lamezia Terme, s’intitola PENSIERO VOLANTE NON IDENTIFICATO. L’esposizione, curata dalla critica d’arte Veronica D’Auria e dalla gallerista Caterina Cuda, intende fornire una serie di spunti di riflessione sulla sperimentazione audio-visiva come mezzo d’elezione, proponendo una video installazione in grado di trasportare immediatamente l’osservatore in un mondo “altro”, nel quale le forme appaiono e scompaiono, si compongono e scompongono in un moto continuo e ripetitivo. A questa prima tappa nella città natale dell’artista, seguirà un tour itinerante che toccherà diverse città italiane. Lino Strangis oltre a dedicarsi alla video art è anche musicista polistrumentista, pertanto nel suo viaggio esplorativo ha saputo ben coniugare l’elemento visivo con quello sonoro, in un constante gioco di richiami, influenzato probabilmente dalle significative esperienze di artisti come Bill Viola, Nam June Paik, Wolf Vostell, Vito Acconci e tanti altri, ma anche dal cosiddetto cinema espanso sviluppatosi tra gli anni ‛60 e ‛80. L’artista con le sue video installazioni intende andare oltre la bellezza puramente estetica e si fa interprete acuto del proprio tempo, infatti, afferma che: «PENSIERO VOLANTE NON IDENTIFICATO è il mondo in cui cerco di audio-visualizzare interpretazioni di alcune tematiche che a mio avviso si pongono alla base della nostra cultura, lavorando costantemente alla ricerca di inedite figure retoriche per far emergere gli aspetti più sommersi delle questioni con cui mi confronto». La sua è dunque una ricerca sperimentale che intende coniugare diversi tipi di linguaggi al fine di oltrepassare i limiti del visibile per giungere a una comprensione di una realtà non per forza tangibile.

 Marianna Leone

La galleria muta di Paolo Scarfone

L’artista Paolo Scarfone, in mostra dal 17 aprile al 17 maggio presso la galleria d’arte Be Cause Artspace di Lamezia Terme, attraverso la materia nitida ed essenziale della carta, propone un’indagine sperimentale che abbraccia il campo della semiotica e dell’estetica.  Tale progetto, che prende il nome di “Galleria muta”, si configura come un tentativo di riappropriazione di senso in un mondo che tende sempre di più a escludere la comunicazione e la relazione interpersonale. Con la serie di opere realizzate utilizzando i linguaggi Braille (ipovedenti), LIS (sordomuti) e LORM, l’artista ci spinge a riflettere su quanto sia difficile comunicare tra chi ha tutte le facoltà per farlo e ci pone di fronte a delle domande che riguardano il nostro modo di percepire le informazioni prodotte da qualcun altro. Una moltitudine di segni si staglia delicatamente su una serie di carte realizzate a mano, a voler rimarcare il legame intimo quasi atavico con la materia. Come se l’artista volesse mettere in risalto quella magia che sta alla base del processo creativo e che porta alla realizzazione di un prodotto finito. Inoltre l’uso di codici linguistici non facilmente decifrabili per chi possiede la vista e l’udito, ma al tempo stesso leggibili perché oggettivi, costringe chi osserva a compiere uno sforzo interpretativo e a dare un significato personale alle opere. Il percorso espositivo inizia con un’installazione esplicativa del concept che è alla base del progetto, prosegue poi con opere dotate di un’aura misteriosa come VeDio, Percorsi, Matrioska, Lib(e)ero libro d’artista, Appartenenza. Tutte presentano come comune denominatore la ricerca della spersonalizzazione, ovvero l’assenza dell’elemento emozionale. Paradossalmente il tentativo di ottenere la massima oggettività produce l’effetto contrario, cioè fa sì che lo spettatore s’interroghi su ciò che sta vedendo e gli attribuisca un suo personale significato non univoco. Chi osserva si trova così di fronte a una domanda: “È possibile oggi, nell’era multimediale, trovare un modo di comunicare universalmente valido, cioè in grado di colmare le distanze tra gli individui, sia nel caso in cui essi appartengano allo stesso gruppo sociale, sia quando siano messe in relazione culture diverse?”. A questa domanda Paolo Scarfone non dà una risposta, non offre alcuna ricetta, piuttosto smuove le coscienze verso l’assunzione della consapevolezza di un dato effettivo: la mancanza di una reale comunicazione tra gli individui, sia nel caso in cui si adoperi un linguaggio verbale che non verbale. Eppure un barlume di speranza resta, perché la “Galleria muta” diventa parlante quando il messaggio che l’artista vuole comunicare è interiorizzato dallo spettatore in modo differente ma pur sempre valido, quando la visione estetica si traduce istantaneamente in pensiero. A quel punto  la distanza tra mittente e destinatario si accorcia inevitabilmente. Ecco perché il linguaggio dell’arte, nelle sue diverse forme,  è in grado di superare le barriere tra le persone, di farsi comprendere  da chiunque indifferentemente.

                                                                                                                                                                           Marianna Leone