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“La signora di Wildfell Hall”. Il grido di rivolta di una donna per tutte le donne

 

Brontë-sisters-520x245Quando nasciamo siamo ‘femmine’, lo gridano ai vicini, ai parenti, agli amici. È femmina. Cresciamo e diventiamo donne, quindi mogli e madri. E poi basta. Immagino che sia questa la riflessione alla quale dev’esser giunta Anne Brontë guardando la propria vita, le quattro sorelle più grandi e il fratello scapestrato. Un’esistenza difficile, con un destino già tracciato da altre prima di lei, dalla tradizione asfissiante per una mente creativa e viva come la sua. Una donna poco meno che trentenne che per scrivere usava uno pseudonimo maschile e che, in tutta franchezza, conosceva il femminismo più a fondo di quanto possiamo saperne noi, giovani e meno giovani donne di un’epoca in cui abbiamo fatto conquiste per le quali non abbiamo neanche combattuto e sulle quali ancora barattiamo. Lo conosceva più a fondo, questo femminismo, questo orgoglio di essere donna, di appartenere a una metà del genere umano per nulla inferiore, sebbene costantemente schiacciata e sopita dalla bramosia maschile di prevaricare, si avere per sé la fetta migliore del creato. E sapeva bene di avere un valore diverso dall’ancestrale maternità al punto da non accettare l’oscurità impostale dagli uomini, ma affidando proprio a un uomo, un essere fittizio, il proprio grido d’indipendenza. Fu così che nel 1848 mise nelle mani indexdi Acton Bell, il proprio io senza gonnella, la sua personale fiammella di rivolta e questi, senza esitare, diede alle stampe uno dei più profondi e avanguardistici romanzi sulla condizione femminile, ossia La signora di Wildfell Hall (The tenant of Wildfell Hall).
Con questo romanzo, da poco riproposto in Italia da Neri Pozza, Anne Brontë, la sorella meno conosciuta dell’irrequieto trio letterario, ha puntato il dito contro l’ingiusta sottomissione della donna, considerata oggetto o addirittura merce di scambio priva di sentimenti e passioni. La vicenda si apre con un mistero che avvolge questa nuova affittuaria, chiusa come uno scrigno e, allo stesso modo, protettrice estrema di un segreto amaro. Parola dopo parola, scoperta dopo scoperta, la Brontë ha allestito un romanzo crudele e tagliente, denso di risvolti che sconvolgono e, per certi versi, scandalizzano; in questo libro ci si conosce tutti, ma in fondo nessuno sa chi è la persona che ha al fianco perché “si può guardare nel cuore di una persona attraverso i suoi occhi e si può arrivare a conoscere l’altezza, la larghezza e la profondità dell’anima di un altro in una sola ora, mentre non ti basterebbe una vita per scoprirle se la persona non fosse disposta a rivelarle o se tu non avessi la sensibilità necessaria a comprenderle”.
2015-01-03 17.00.00-1Quest’autrice relegata in secondo piano, surclassata da uno pseudonimo che la dice lunga sulle proprie prigioni sociali, non usa mezzi termini, ma al contrario pizzica con estrema precisione le corde del lettore costringendolo a non perdere di vista la strada maestra che lo condurrà alla soluzione del mistero. Nessuna pietà viene mostrata per la cattiveria, per le menzogne e per i tradimenti. I peccatori, che sono tali non nei confronti di Dio bensì nei confronti dei loro simili, pagano per il dolore che hanno inflitto. La malvagità è smascherata e fatta a brandelli, ma il processo non è immediato, in quanto necessita della metabolizzazione, della consapevolezza dell’errore. E nel mezzo si fa largo il solco tracciato dalle gioie e dalle sofferenze della vita, ci sono le donne che combattono per non farsi seppellire vive in un mondo costruito dagli uomini per gli uomini. “A chi è dato meno, meno è richiesto; ma a tutti è richiesto di sforzarsi al massimo”.
Le donne che Anne Brontë tratteggia in questo romanzo non sono coraggiose e neppure intelligenti; esse si limitano ad alimentare quella naturale inclinazione a resistere alle intemperie affrontando il dolore armate sono di fiducia in sé stesse. Chissà se, a questo punto, La signora di Wildfell Hall potrà essere considerato alla stregua di un antesignano manifesto del femminismo. Magari sì, ma prima di tutto è un grido di rivolta che ci sospinge verso il futuro ricordando che “la possibilità di morire c’è sempre; ed è sempre bene vivere tenendola presente”.
Buona Giornata internazionale delle Donne!
Daniela Lucia

Arriva il quarto volume di Millennium

Il 27 agosto esce ‘Ciò che non ci uccide’: Stieg Larsson rivive con la sua storia.

È ufficiale ormai: gli accaniti lettori della trilogia poliziesca Millennium potranno soddisfare la propria bramosia lasciata a secco dieci anni fa dalla brusca e improvvisa morte del padre della saga, Stieg Larsson.

L’autore, come si è saputo in seguito, aveva intenzione di dar vita ad altri sette volumi incentrati sulle figure dell’hacker Lisbeth Salander e del giornalista Michael Blomkvist. Dieci volumi in tutto, partoriti da una mente viva e geniale. Un progetto che però è stato stroncato sul nascere.

Ma non tutto è perduto! Anzi, la casa editrice Norstedts, che ha seguito le pubblicazioni di Larsson custodendone gelosamente anche gli appunti, ha annunciato nei giorni scorsi l’uscita, in contemporanea mondiale, del quarto volume. ‘Ciò che non ci uccide’ sarà il titolo dell’opera che si comporrà di 500 pagine basate sul fascicolo manoscritto affidato dallo stesso da Larsson alla casa editrice. La venuta al mondo di questo figlio postumo è prevista per il prossimo 27 agosto contemporaneamente in ben 35 nazioni. Nel nostro Paese il quarto volume della saga uscirà per i tipi della Marsilio nella fortunata collana ‘GialloSvezia’.

La Norstedts ha affidato al stesura del romanzo allo scrittore svedese David Lagercrantz. Quest’ultimo ha mosso i suoi passi nella rete di Millennium seguendo le impronte della storia abbandonata nel 2004 dall’autore. Non sono ancora emerse indiscrezioni circa la trama o eventuali significati del titolo, tuttavia lo stesso Lagercrantz, interpellato dal quotidiano di Stoccolma ‘Dagens Nyheter’, ha assicurato che anche in questo quarto volume i lettori ritroveranno gli amati Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist.

La scelta di uscire nel 2015 ha il sapore della commemorazione, in quanto decorre proprio quest’anno il decimo anniversario della pubblicazione del primo libro di Larsson, il fortunato ‘Uomini che odiano le donne’.

Sebbene l’annuncio abbia fin da subito incontrato il plauso del pubblico che non aspettava altro, v’è da dire che la scelta della casa editrice Norstedts è stata fortemente criticata dalla compagna di Larsson, Eva Gabrielsson, alla quale non è andata giù la decisione di affidare le sorti di Millennium a un altro scrittore.

Per concludere, quali che siano i retroscena di questi scontri che, a dire il vero, sono iniziati già all’indomani della morte di Stieg Larsson, l’unica cosa certa è che il 27 agosto ad attendere il quarto volume della saga ci saranno migliaia di lettori pronti, oggi come in passato, a schierarsi accanto alla Salander e a Blomkvist per vivere ancora una volta un’avventura densa di misteri dai cupi contorni e dalla fittissima rete di intrighi.

Daniela Lucia

Diario di un seduttore, Kierkegaard

Kierkegaard era il filosofo delle possibilità. In questo romanzo, ci prospetta una delle tre che ha individuato, la vita estetica, esemplificata dal seduttore Johannes, il cui nome ci rimanda al celebre Don Giovanni. La figura di Johannes è affascinante, ambigua, e cinica, il suo intento quello di sedurre le donne che <<gli piacciono più che mai>> ed è proprio in questo personaggio e nel suo proposito che risiede la forza del romanzo. Ciò che incuriosisce, inoltre è che Kierkegaard abbia concepito l’idea di vita estetica come parte di un sistema filosofico, ma abbia creato un vero e proprio romanzo e non un saggio o un trattato filosofico. Un romanzo dallo stile fluido e scorrevole, dal linguaggio non troppo semplice né troppo artefatto, chiaro ma evocativo. Già il sottotitolo “Il volto inquieto del piacere” ci rimanda alle due inquietudini che troveremo nel libro: quella di Johannes, poiché il piacere della seduzione si esaurisce quando la donna gli cede, e quindi egli anela a rinnovare il gioco della seduzione con un’altra donna; e quella di Cordelia, la protagonista femminile, che si troverà sedotta e abbandonata. Questo romanzo ha la capacità di affascinarci e coinvolgerci, tanto nelle raffinate congetture mentali e negli escamotage che Johannes pianifica per conquistare la ragazza che desidera, quanto nelle dinamiche del rapporto, poiché Cordelia all’inizio prova addirittura dell’antipatia nei confronti del seduttore, ma poi si ritroverà irrimediabilmente innamorata, ma abbandonata alla propria disperazione. Potrebbe venirci spontaneo fare il paragone con un nostro grande scrittore italiano, Gabriele D’Annunzio: il tema della seduzione era uno dei temi cardine della sua produzione. Dunque, un libro da leggere tutto d’un fiato, che vi affascinerà come solo un vero seduttore sa fare.

Angela Francesca Mandarino

Se chiudo gli occhi : Il capolavoro di Simona Sparaco

 

 

Se chiudo gli occhi” ,  conferma ancora una volta Simona Sparaco una delle voci più intense e importanti  della narrativa italiana. Il romanzo narra la vita di Viola, una  ragazza comune, e al col tempo speciale  che si ritrova a vivere un intreccio di situazioni del tutto inaspettate.

Una protagonista che cambia , lontana da  quella donna che amava nascondersi in abiti abbondanti  ed inventare storie su pezzi di carta volanti. Una bambina  diventata donna, e che sposo Paolo ,  un uomo  che  forse non ha mai amato. Poi un giorno, inaspettatamente, sviluppando alcune fotografie nel negozio in cui lavora,  tra la folla di un comune  centro commerciale un uomo alto ed affascinante cattura la sua attenzione : è suo padre,  l uomo misterioso,  artista istrionico e  popolare  rimasto sempre uguale e trasognato.  Lui è tornato, per cercarla per proporle un viaggio,  e rivivere insieme un amarcord nei luoghi d’origine .  Ma come potersi fidare ancora, di un uomo che non è stato presente nella sua vita ? Come ritrovare la perduta speranza di un amore che solo un padre può dare?  Ma  Viola  finirà per accettare. Mentre la nostra protagonista rimane affascinata da un incantevole  paesaggio innevato, portandola nei ricordi del passato , quella  sincerità che credeva smarrita per sempre, abbatte quel muro di  diffidenza che  Viola  aveva innalzato con suo padre , quando insieme arrivano alle pendici dei Sibillini, dove è racchiuso  un antico segreto, una nuova forza  che li porterà molto più distanti :  L’amore, quello, che Viola non aveva mai incontrato. La forza del perdono, che libera dall’odio, e dai rancori , che per anni avevano imprigionato il cuore di Viola.  Un viaggio in Molise che diventa anche un viaggio nell’anima della protagonista …che osa “guardare”  e fermarsi dove prima non aveva mai avuto il coraggio di andare. Un storia avvolgente  capace di incuriosire il lettore  innamorato della verità e della vita.

Storia di un uomo. “Il posto” di Annie Ernaux

Ѐ appena uscito in libreria un romanzo che in Francia ha venduto cinquecentomila copie e che gli editori italiani per trent’anni hanno snobbato. L’Orma ha scelto di tradurlo. Graditissima notizia, perché “Il posto” di Annie Ernaux, centiventi pagine in cui una figlia (l’autrice) racconta la vita anonima del padre, è un libro che emoziona senza essere ruffiano.

L’Orma, casa editrice romana nata nel 2012 da Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari, ha coraggio (sta pubblicando l’opera omnia di Hoffmann) e punta decisamente sulla qualità.

Non solo: si pensi alla originalità grafica dei Pacchetti, librini regalo da spedire per posta.

Segno che una politica editoriale è ancora possibile.

Annie Ernaux è una scrittrice francese nata nel 1940. Quante pagine occorrono per costruire un libro nel quale si racconta la vita di un uomo senza che rimanga qualcosa di inespresso, il languore di un’occasione sprecata?

Ernaux riesce a contenere in poco più di cento pagine una storia molto semplice: il ritratto di suo padre, della sua famiglia, di un’intera epoca, il passaggio dalla civiltà contadina, operaia e dei piccoli bottegai di paese a un altro mondo, di cui non si riescono a cogliere le precise coordinate di spazio e tempo.

Il libro ben tradotto da Lorenzo Flabbi è uscito in Francia nel 1982 ed è oggi proposto per la prima volta da L’Orma. Questa stagionatura trentennale pare abbia giovato al testo, caratterizzato da una pacatezza di stile, una scrittura controllata ma non sciatta, trattenuta e pudica come l’assenza di rimpianto per una carezza non data, eppure mai fredda, che emoziona senza cadere nella scorciatoia sentimentale.

“Abbiamo sparecchiato senza parlare”, a proposito del pranzo seguito alla sepoltura del padre, all’inizio del libro. Sembra di sentire il rumore tombale delle stoviglie, dei bicchieri di ogni fine pranzo e cena.

Il libro ripercorre a ritroso l’esistenza della famiglia e dell’intero corpo sociale di una cittadina del nord della Francia.

Il rapporto tra padre e figlia oscilla tra accettazione e conflitto, a cominciare dalle cose più semplici: “I miei yogurt lo ripugnavano alla sola vista”.

Ernaux ripercorre gli studi del padre presto interrotti, il lavoro da contadino prima, da operaio poi, l’attitudine al risparmio settimanale, per cambiare vita.

“Mio marito non ha mai avuto l’aria di un operaio”, asserisce la moglie, che spinge l’uomo a diventare commerciante, ora attonito di fronte al facile guadagno in un bar-drogheria frequentato da operai, con l’ipotesi incombente dell’apertura di un supermercato, che avrebbe distrutto i profitti della famiglia.

Nonostante il desiderio di elevarsi socialmente da parte dei genitori, per tutto il libro vi è l’impossibilità di appartenere alla borghesia; il padre, di domenica, “per non fossilizzarsi”, faceva un giro in macchina lungo la Senna nei luoghi in cui un tempo aveva lavorato”: ecco l’incapacità di vivere fino in fondo i dettami del nuovo mondo, basato, oltre che sulla produzione, sul consumo del tempo libero.

L’uomo comprende che, in fondo, “si è più stanchi la domenica che gli altri giorni”.

Sappiamo quanto sia difficile calibrare un romanzo breve. Quando accade è un piccolo miracolo.

A un libro dalla mole enorme, anche ai romanzi celebri, concediamo l’esistenza di pagine imperfette, a volte persino noiose. I romanzi brevi devono essere invece un equilibrio di natura.

Seppure con le dovute differenze stilistiche e di temi, la misura de “Il posto” lo affratella a “Sembra proprio di stare in paradiso” di Cheever o a “Una questione privata” di Fenoglio.

“Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci”.

Ѐ una fortuna che Annie Ernaux, molti anni or sono, abbia scelto dolorosamente un’altra strada rispetto agli iniziali voleri paterni, che tuttavia nemmeno hanno ostacolato la scrittrice nella sua formazione.

Si è resa così responsabile del tradimento più bello: accettare la grandezza dell’esistenza eppure non accontentarsi, sentire un formicolio, il motivo per cui, ogni volta, ricominciamo a scrivere e a leggere la storia di un uomo.

                                                                                            Rossella De Rose

Quando la ragione anche senza saperlo era ottimista

Un altro anno si conclude. Spesso fare dei bilanci non ci rincuora e neppure ascoltare predicozzi basati su una filosofia spicciola della serie “andrà meglio, speriamo che il prossimo anno ci porti fortuna e cambiamenti positivi”.

A prescindere dalla branca di realismo, possibilismo ma anche di nichilismo ahimè, di certo stare a piangersi addosso non è la soluzione migliore. Certamente tutti abbiamo le nostre buone motivazioni per sentirci creditori nei confronti della vita che passa e della società che quasi mai riesce ad alleviare le nostre perplessità, gli sconforti e le delusioni.

Questa è una rubrica di consigli, di ghiribizzi ed interpretazioni a volte anche troppo contorte sul e dell’umano pensiero, non vi dispiacerà quindi se all’interno di questo pezzo vi sarà consigliata una morale di vita contenuta all’interno di una lettera, resa pubblica dopo la scomparsa del mittente.

Inizio a scrivere in prima persona perchè ho molto a cuore ciò che sto per consigliarvi. Ho scovato questo messaggio un giorno qualunque, mentre mi trovavo presso la biblioteca di area umanistica dell’Unical. Stavo rovistando nel reparto riviste, alla ricerca di qualche saggio che mi fosse utile per la stesura della mia tesi di laurea magistrale in filologia della letteratura italiana. Mi avvicino allo scaffale che custodiva tutte le uscite di Interpres, Rivista di studi Quattrocenteschi un tempo diretta da Mario Martelli, dopo la sua morte da Francesco Bausi, ed inizio a sfogliare qualche copia. Arrivata all’annualità 2007 dedicata  in  memoriam dello stesso Martelli, mi soffermo a leggere una sua lettera privata che anni addietro aveva scritto ad una sua giovane collega. Queste parole rappresentano una sorta di eredità morale e spirituale da lui lasciata e oggi, voglio condividerle con chi vorrà farne tesoro, come all’epoca feci io. Quel giorno in biblioteca non riuscii a scovare informazioni bibliografiche utili al mio percorso di tesi, ma in compenso, avevo  fatto tesoro di un messaggio che ancora oggi porto sempre con me e che rileggo nei momenti di sconforto e di degrado morale personale o collettivo.

Voglio condividerla con voi, o meglio, con chi vorrà leggerla e condividerne il contenuto. Questo è il mio regalo di Natale per 8@30:

“Carissima,

auguri anche a lei, per il prossimo Natale, ma, soprattutto, per un 2007 pieno di ottimo lavoro. E, con questo secondo augurio, penso di aver risposto alla sua disperazione. Non credo che in altri tempi le cose siano andate diversamente; o, per dir con maggiore esattezza, diversamente sì, meglio, forse, no. Lo spettacolo della vita non è certo tale, oggi, da rallegrare; ma, ieri, era forse più allegro? Se Genova piange, Firenze non ride: sudicia, volgare, presuntuosissima. La verità è che la presunzione, la volgarità, il sudiciume sono caratteristiche inalienabili dalla società; e l’umanità suole mescolare sudicia e volgare presunzione con la capacità di scrivere poesie, a volte bellissime, e, spesso, musica stupenda. Quanto a me, ho cercato sempre di vivere per quanto mi è stato possibile lontano dal marcio, fra libri e CD. Così fo ora. Sta per uscire un mio enorme (quasi settecento pagine) libro, intitolato Zapping di varia letteratura, mentre il sottotitolo suona Verifica filologica. Definizione critica. Teoria estetica. Si tratta degli appunti che, nel corso delle mie letture e dei miei studi, ho registrato in questi ultimi quindici-vent’anni. Sono andato sistemandoli in un file che avevo chiamato, per mio uso e consumo, Zapping, proprio perché era come se cambiassi canale continuamente, dalla letteratura greca passando all’italiana, dalla latina alla francese e anche, di quando in quando, all’inglese e alla tedesca (poco poco per quest’ultime due, ché male conosco le due lingue imparate da adulto e da me solo). Il libro, a me, piace, e non poco. Servirà a qualcosa? Non saprei dirlo. Certa è una cosa: esso è il “bene”; e il “bene”, in questa lotta senza quartiere contro il male, segna con questo libro un punticino, -ino -ino quanto vuole, ma lo segna, a suo vantaggio. L’ho dedicato «Alle donne di casa mia – Graziella, Caterina, Teresa, Costanza –, che mi hanno fatto, e mi fanno, pulita e bella la vita». I quattro nomi sono, nell’ordine, quelli di mia moglie, con cui ho vissuto cinquantuno anni, delle mie due figliole, che mi assomigliano molto, di mia nipote (figlia di Caterina), che ho aggregato alla compagnia solo perché le voglio bene. Nient’altro da fare, oggi come oggi, se non resistere al male nell’unico modo che ci è concesso di resistergli, contribuendo cioè al bene che solo si trova nella vita dello spirito. Noi abbiamo una grande arma a disposizione, quella di poter contribuire con i nostri studi al bene. Non deponiamola senza averla usata iuxta potentiam nostram. Certo, questo che le ho detto è per me – ormai ottantunenne, residente in campagna, libero di frequentare poco i miei simili – abbastanza facile da mettere in pratica; ma così mi sono comportato sempre, forse con minore consapevolezza, ma con uguale, istintiva determinazione. Credo che Francesco abbia assimilato la lezione; e la Rossella Bessi so che assimilata l’aveva; così altri fra i miei allievi. Non si preoccupi delle condizioni esterne in cui lavora; curi quelle interne. Lei, come me, come Francesco, come la Rossella, ha una grande missione da compiere; né le è consentito tradirla. Vede?, un medico può salvare una, due, mille vite, può restituire la salute e, con la salute, la serenità a uno, a due, a mille ammalati; così per tutte le altre professioni; solo a noi è consentito di combattere perché l’umanità intera non si arrenda e soccomba. Auguri, dunque, non tanto di felicità, quanto di buon lavoro, ché quella dipende in definitiva e in gran parte da questo. Glielo dice una persona in cui il pessimismo della ragione non è mai riuscito a stroncare l’ottimismo della volontà e che ora sa da che cosa dipende il suo ottimismo della volontà, dal fatto cioè che anche la ragione, senza saperlo, era ottimista”.

Alessandra Pappaterra 

 

Consigliati da Otto@Tales: DAVANTI ALLA LEGGE di Kafka

Continuiamo ad occuparci di Kafka, con un altro suo notissimo pezzo, Davanti alla legge. Già presente ne Il processo, la parabola (è così unanimemente definita questa piccola perla della letteratura europea) era già stata pubblicata nel 1915 su un settimanale, e inclusa successivamente nel 1919 nella raccolta Un medico di campagna. Il breve racconto è passibile di diverse interpretazioni, ma quella che pare più fertile si individua accostando il testo alla considerazione kafkiana del rapporto tra l’umanità e gli strumenti che essa stessa si crea per la comprensione del senso universale. La legge è un mezzo umano, che imita – o forse finisce con l’essere – i limiti naturali, arrivando a sfuggire forse ad una reale comprensione. Di Kafka riparleremo prossimamente, su Otto@Tales.

Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no.» Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno.
Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.»
L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta.
Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, pero gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.»
Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sé. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea.
Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere.
Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.»
«Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?»
Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.»

 

 

Consigliati da Otto@Tales: IL MESSAGGIO IMPERIALE di Kafka

Oggi proponiamo un breve – e famoso – testo di Kafka, contenuto nella raccolta di racconti Un medico di campagna ( del 1919). Il passo era stato inserito successivamente in un racconto, Durante la costruzione della muraglia cinese, pubblicato postumo ad opera di Max Brod – amico dell’autore, che si occupò dell’edizione degli scritti dopo la morte di Kafka. 
Di per sé,
Il messaggio imperiale esprime quel senso di smarrimento misto a speranza che è possibile individuare in tante delle opere maggiori, quali Il Castello e America, inserito nella classica cornice surreale e onirica. Ma di  Kafka – e delle sue abitudini letterarie – riparleremo nei prossimi giorni, per ora godetevi il racconto.

 

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto. 

Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.

Criticando: tracce di Bovarismo ne Il ritratto di Dorian Gray

Al termine del cap.XI Oscar Wilde scrive: “Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. V’eran momenti in cui considerava il male solo come un mezzo con cui attuare la sua concezione della bellezza”. Il suo edonismo e l’importanza data all’eterna giovinezza sono il risultato dell’ influenza  di Lord Henry, tanto che il giovane annulla se stesso per rincorrere in toto ciò che questa figura voleva che fosse e rappresentasse. Dorian era il risultato della cultura di Lord Henry.
E’ possibile scorgere in queste pagine una sorta di analogia con Madame Bovary: Emma, idealizzando l’amore letto nei romanzi, edifica  la sua intera esistenza su dei valori puramente fantastici, restando ammaliata dalla buona società e sperando di trovare in essa la completezza morale che la realtà le celava.
Durante l’inizio della  descrizione dell’agonia della protagonista Flaubert  scrive: “ perdurava quell’orribile sapore di inchiostro”, ( De Biase afferma che vomitando Emma espelleva tutto l’inchiostro dei libri digeriti male nel periodo della sua giovinezza), per cui l’epilogo della vita di questa donna consiste nell’avvelenarsi di illusioni dettate dalla letteratura, così come Dorian Gray, condizionato dal ritratto che invidiava per la sua immortalità,  distrugge se stesso credendo di annientare colui che per troppo tempo lo aveva
condotto a vivere in maniera meschina. Entrambi sono vittime di una sbagliata interpretazione della vita reale, condizionati dalle apparenze, incapaci di riuscire ad  amare realmente, ma pretendendo di vivere il sentimento come solo nei romanzi, nelle opere teatrali era possibile riscontrare. Dorian crede di amare Sybil Vane, ma in realtà concretizza i personaggi che l’attrice di teatro
interpretava in scena, al punto tale di rinnegare il sentimento soltanto perché lei una sera durante un debutto non riuscì a mettere in atto una buona performance, facendo crollare così il mito che la  mente fiabesca del giovane aveva  innalzato a mera realtà.

In maniera analoga Emma si abbandona a relazioni adultere che si concludono sempre con la sconfitta delle sue agognate ricerche e proprio nel momento in cui la donna inizia ad avere la percezione della realtà, si imbarca in una nuova avventura illusoria, ma sempre temporanea. La donna infatti  mette in scena una farsa sentimentale e sociale che non la rappresenta, in cui la sua falsa interiorità ed esteriorità si mescolano annullandole totalmente la percezione del reale. Questo “spettacolo” di insaziabilità è il principio di rottura di ogni equilibrio, pace e riposo, a cui segue automaticamente la ricerca di una nuova circostanza di irrealtà. Non è un caso infatti che dopo essere stata abbandonata da Rodolphe, Emma si getti tra le braccia di Leon. Questa vita romanzata, come è noto, termina in maniera tragica, nel momento in cui la donna, ormai pressata dai suoi creditori a causa dei numerosi pagamenti rimandati ad oltranza, piuttosto che confessare al marito il baratro in cui è precipitata, rifiuta di confessare le sue colpe, preferendo il suicidio. La fine della farsa genera la rottura di ogni equilibrio interno, ed Emma preferisce la morte al posto della realtà.

Alessandra Pappaterra 

Consigliati da Otto@Tales: ALL’IDROGENO di Buzzati

Questa volta proponiamo un famoso racconto di Buzzati. All’idrogeno concentra in sé lecaratteristiche di tutta la raccolta di cui fa parte, Sessanta racconti: l’ansia del presagio, il contesto borghese, l’inevitabilità del fato. Senza anticipare nulla, raccomandiamo di leggere questo testo tutto d’un fiato,magari di sera.  E, se abitate in un condominio, tenete vicino il telefono.

 
Fui svegliato dal telefono. Fosse per l’interruzione brusca del sonno, o per il silenzio plumbeo che regnava intorno, mi sembrò che il campanello avesse un suono più lungo del solito, malaugurante, astioso.
Accesi la luce, in pigiama andai a rispondere, faceva freddo, vidi che i mobili erano immersi profondamente nella notte (quel senso misterioso pieno di presagi!), svegliandomi li avevo colti di sorpresa. Insomma capii subito che era una delle grandi notti, le quali vengono di raro, profondissime, e in queste notti all’insaputa del mondo il destino fa un passo.
“Pronto, pronto ” c’era una voce nota, dall’altra parte, ma cosi insonnolito io non la riconoscevo. ” Sei tu?… E allora… dimmi… Vorrei sapere… ”
Era un amico, certo, però ancora non l’avevo identificato (quella odiosa mania di non dire subito il proprio nome). Lo interruppi, senza aver neppure pesato le sue parole: ” Ma non potevi telefonarmi domani? Lo sai che ora è? ” ” Sono le 57 e un quarto ” rispose. E tacque lungamente come se avesse già detto troppo. In realtà mai io mi ero addentrato, da sveglio, in profondità cosi remote della notte; e provavo un certo orgasmo.
“Ma cosa c’è? Cos’è successo?” ” Niente, niente ” rispose lui, sembrava imbarazzato ” … si era sentito dire che… Ma non importa, non importa… Scusa… ”
E mise giù la cornetta. Perché aveva telefonato a quell’ora? E poi, chi era? Un amico, un conoscente, certo, ma chi precisamente? Non riuscivo a localizzarlo.
Stavo per rientrare in letto, il telefono suonò per la seconda volta. Era un trillo ancora più aspro e perentorio. Un altro, non quello di prima, lo intuii subito.
” Pronto. ” ” Sei tu?… Ah, meno male. ” Era una donna. E stavolta la riconobbi: Luisa, una brava ragazza, segretaria di un avvocato, che non vedevo più da anni. L’aver udito la mia voce era stato per lei, si capiva, un sollievo immenso. Ma perché? E, soprattutto, come mai si faceva viva dopo tanto tempo al colmo della notte, con una chiamata cosi nevrastenica? ” Ma cosa c’è ” feci, impazientito ” si può sapere? ”
” Oh ” rispose Luisa fievole. ” sia ringraziato Dio!… Avevo fatto un sogno, sai?, un sogno orrendo… Mi ero svegliata col batticuore… Non ho potuto fare a meno di… ”
” Ma cosa? Sei la seconda, questa notte. Cosa c’è perdio? ”
” Perdonami, perdonami… Lo sai come io sono apprensiva… Va a dormire, va., non voglio farti prendere altro freddo… ciao. ” La comunicazione fu interrotta.
Restai là, col microfono in mano, nel silenzio, e i mobili, benché la luce elettrica li illuminasse nel modo più normale, avevano un aspetto strano, come chi sta per dire una cosa ma si interrompe, e dentro a lui la cosa rimane chiusa, senza che noi si possa sapere. Probabilmente era questa una semplice conseguenza della notte: noi ne conosciamo in realtà una parte minima, il rimanente e immenso, inesplorato, e le rarissime volte che vi entriamo, tutto ci impaurisce.
Pace e silenzio, tuttavia, questo sì: era il sonno quasi sepolcrale delle case il quale e molto più profondo, e muto, che il silenzio della campagna. Ma quei due perché mi avevano telefonato? Qualche notizia che riguardava me era giunta fino a loro? Una notizia di disgrazia? Presentimenti, forse, sogni premonitori?
Sciocchezze. Mi infilai nel letto, ritrovando con gioia il posto caldo. Spensi la luce. Mi distesi a pancia in giù, nella mia solita maniera.
A questo punto suonò il campanello della porta. Lungo. Due volte. Il rumore mi entrò proprio nella schiena, su per la colonna vertebrale. Qualcosa era dunque successo, o stava per succedermi, e doveva essere un fatto infausto per compiersi a un’ora così estrema, un fatto doloroso o turpe, senza dubbio.
Il cuore mi rimbombava dentro. Riaccesi la luce della stanza, ma per prudenza non accesi in corridoio: chissà, da qualche minima fessura della porta d’ingresso potevano vedermi: ” Chi è? ” domandai cercando una intonazione energica; la voce invece tremò, afona, ridicola.
” Chi è? ” chiamai una seconda volta. Nessuno rispondeva.
Con precauzione infinita, sempre al buio, mi avvicinai alla porta e, chinandomi, misi un occhio a un buchino quasi impercettibile da cui però si poteva guardar fuori. Il pianerottolo era vuoto, né si intravedevano ombre in movimento. C’era, sulle scale, la fioca, avara, disperata luce di sempre, per cui gli uomini, rincasando alla sera, sentono il peso della vita.
” Chi è? ” domandai per la terza volta. Niente.
Allora si udì un rumore. Non veniva di là dalla porta, dal pianerottolo delle scale o dalle prossime rampe, bensì dal basso, probabilmente dalla cantina, e l’intero edificio ne vibrava. Era come se una cosa pesantissima fosse strascinata, per un passaggio angusto, con stento e travaglio grandi. Il rumore significava appunto un attrito, e c’era dentro pure – misericordia di Dio! un lungo atrocissimo scricchiolio come quando una trave sta per crepare o la tenaglia procede a scardinare un dente.
Non potevo capire che fosse, seppi però immediatamente che quella era la cosa per cui poco prima mi avevano telefonato ed era suonato il campanello della porta: in una tale oscura e misteriosa cavità della notte!
Il rumore si ripeteva, a lunghi strappi dilaceranti, sempre più forte, come se salisse. Nello stesso tempo avvertii un fitto ma estremamente basso brusio umano, che veniva dalle scale. Non potevo resistere. Piano piano feci scorrere il chiavistello e socchiusi il battente. Guardai fuori.
La scala (ne vedevo due rampe) era gremita. In vestaglie e pigiama, qualcuno anche a piedi nudi, gli inquilini erano usciti e appoggiati alla ringhiera guardavano giù con ansia. Notai il pallore mortale delle facce, l’immobilita delle membra, che sembravano paralizzate dal terrore.
” Pss, pss ” feci, dallo spiraglio, non osando uscire in pigiama, com’ero. La signora Arunda, quella del quinto piano (aveva in testa ancora i diavoletti) volse il capo con espressione di rimprovero. ” Cosa c’è?” sussurrai (ma perché non parlavo a voce alta se tutti erano svegli?).
” Sss ” fece lei, sottovoce, e aveva un tono di totale desolazione, immaginate un malato a cui il medico abbia fatto diagnosi di cancro. ” L’atomica! ” e fece un segno con l’indice verso il pianterreno.
” Come, l’atomica? ”
“È arrivata… stanno portandola dentro… Per noi, per noi… Venga qui a vedere. ” Benché mi vergognassi, uscii sul pianerottolo e facendomi largo fra due tipi che non avevo mai visto, guardai in giù. Mi parve di scorgere una cosa nera, come un cassone immenso intorno al quale con leve e corde armeggiavano alcuni uomini in tuta blu.
“È quella? ” domandai. ” Già, dove vuole che sia? ” rispose un tanghero vicino a me e poi, quasi per rimediare alla scortesia: ” È la drogena, sa? “.
Si udì un risolino secco, privo di allegria. ” Che drogena d’Egitto! All’idrogeno, all’idrogeno. Porci maledetti, l’ultimo tipo! Tra miliardi di uomini che esistono, proprio a noi ce l’hanno mandata, proprio a noi, via San Guliano 8! “
Passato il primo gelido sbalordimento, il brusio della gente si faceva intanto più mosso e nutrito, Distinguevo voci, repressi singhiozzi di donne, bestemmie, sospiri. Un uomo sui trent’anni piangeva senza ritegno battendo con forza il piede destro su un gradino. ” È ingiusto ” gemeva. ” Io mi trovo qui per caso!… Io sono di passaggio!… Io non c’entro!… Domani io dovevo partire!… ”
Quella sua lagna era insopportabile. ” E io domani ” gli disse, rude, un signore sui cinquanta, credo fosse l’avvocato dell’ottavo piano ” e io domani dovevo mangiare gli agnolotti, ha capito? Gli agnolotti! E ne farò senza, ne farò! ”
Una donna aveva perso la testa. Mi afferrò per un polso e lo scuoteva. ” Li guardi, li guardi ” disse a voce bassa accennando ai due bambini che la seguivano ” li guardi questi due angioletti! Le sembra possibile? Non grida vendetta a Dio, tutta questa storia? ” Io non sapevo cosa dire. Avevo freddo.
Dal basso venne un fragore lugubre. Dovevano essere riusciti a smuovere il cassone di un buon tratto. Guardai ancora in giù. L’odioso oggetto era entrato nell’alone di una lampadina. Era verniciato di azzurro scuro e c’era una quantità di scritte e di etichette. Per vedere meglio, gli uomini si spenzolavano dalla ringhiera, col rischio di precipitare, Voci confuse: ” E scoppierà quando? Questa notte?… Mariooo! Mariooo!! L’hai svegliato Mario?… Gisa, hai tu la boule con l’acqua calda?… Figli, figli miei!… Ma tu gli hai telefonato? Sì, ti dico, telefona! Vedrai che lui può far qualcosa… e assurdo, caro signore, solo noi… E chi le dice solo noi? Come fa a sapere?… Beppe, Beppe, stringimi, ti supplico, stringimi!… “. Poi preghiere, ave, litanie. Una donnetta teneva in mano un cero spento.
Ma a un tratto dal basso una notizia serpeggio lungo la scala. Lo si capi dal concitato scambio di voci che via via salivano. Una notizia buona, si doveva dedurre dal più vivace tono che assunse subito l’aspetto della gente. ” Che cosa c’è? Che cosa c’è? ” chiedevano, impazienti dall’alto.
Finalmente, a frammenti, qualche eco giunse fino a noi del sesto piano. ” C’è un indirizzo con il nome ” dicevano. ” Come, il nome? Sì, il nome di chi deve ricevere l’atomica… è personale, capisci? Non è per tutta la casa, non è per tutta la casa, solo per uno… non è per tutta la casa! ” Sembravano impazziti, ridevano, si abbracciavano e baciavano.
Poi un dubbio, a gelare l’entusiasmo. Ciascuno penso a sé, dialoghi affannosi, le scale erano tutte un frenetico vocio. ” Che nome è? Non sono riusciti a leggerlo… Sì, che si legge… e un nome straniero (tutti pensammo al dottor Stratz, il dentista del piano rialzato). No, no… è italiano… Come? come? Comincia per T… No no… per B come Bergamo… E poi? e poi? La seconda lettera? U, hai detto? U come Udine? ”
La gente mi fissava. Mai vidi volti umani stravolti da una felicità così selvaggia. Uno non seppe resistere e scoppiò in una risata che finì in una tosse cavernosa: era il vecchio Mercalli, quello dei tappeti all’asta. Capii. Il cassone con l’inferno dentro era per me, un esclusivo dono; per me solo. E gli altri erano salvi.
Che c’era più da fare? Mi ritrassi verso l’uscio. I coinquilini mi guardavano. Con che gioia mi guardavano. Giù in basso, i rantoli tetri del cassone, che adagio adagio stavano issando su per la scala, si mescolarono a una improvvisa fisarmonica. Era il motivo de La vie en rose.