Archivi categoria: L’avvocato risponde

Edifici deteriorati e responsabilità per mancata esecuzione dei lavori condominiali

Il presente articolo riprende alcuni temi dalla relazione dal titolo “Responsabilità dell’amministratore nell’omissione della manutenzione” svolta dall’autore in occasione della giornata di studio “Dal fascicolo del fabbricato alla manutenzione programmata” tenutasi il 31.01.2018 presso l’Università della Calabria.

Da qualche tempo si sente parlare sempre più spesso del “fascicolo del fabbricato”.

Si tratta di una sorta di carta d’identità degli edifici, la cui introduzione è allo studio del legislatore, tanto che già diversi disegni di legge, per vari motivi non approvati, ne hanno delineato le caratteristiche, a partire dal contenuto, fino all’obbligatorietà o meno della relativa adozione.

Una delle funzioni del cosiddetto fascicolo del fabbricato è proprio quella di individuare, assieme alle caratteristiche costruttive, le criticità degli edifici, anche nell’ottica di prevenire i danni – se non i veri e propri disastri – dovuti all’incuria in cui versano le strutture che hanno già qualche anno sulle spalle.

In attesa di una norma che imponga ai proprietari di eseguire un’analisi degli immobili, in ambito condominiale purtroppo capita spesso di trovarsi di fronte a questioni di un certo rilievo concernenti lo stato del fabbricato. Non è infrequente, infatti, imbattersi in edifici, pur fondamentalmente integri dal punto di vista della statica complessiva, che presentano però degli elementi, ornamentali, accessori o di rifinitura, pericolanti. Si va dal classico intonaco in fase di distacco, ai cornicioni o alle solette dei balconi ammalorati.

Chi deve prendersi cura di affrontare e risolvere il problema? In che modo? Quali sono le responsabilità dell’amministratore e quali quelle del condominio e dei singoli proprietari?

Non è possibile rispondere esaustivamente in questo spazio a tutti gli interrogativi, ma possiamo tentare di tracciare alcune linee basilari.

Intanto, come è ovvio, il condominio è responsabile, sia penalmente che dal punto di vista del risarcimento civile, per i danni che possono derivare dalla rovina di strutture di natura condominiale (tipico il caso dei cornicioni), mentre la responsabilità rimane dei singoli quando il bene, pur inserito nell’edificio, è di proprietà individuale. V’è poi la responsabilità dell’amministratore, che sui beni comuni deve vigilare.

Il discorso si complica quando i necessari lavori di manutenzione delle parti comuni non vengano approvati ovvero, una volta approvati, non vengano eseguiti (magari a causa della carenza di copertura finanziaria). Il rischio di questa impasse è piuttosto elevato. Si consideri, ad esempio e limitandosi al profilo penalistico, che nel caso tipico della caduta di calcinacci che provochi lesioni personali, in applicazione dell’art. 590 del codice penale, si può anche incorrere nella condanna della reclusione fino a due anni.

Spesso in condominio si tende a minimizzare il problema, ritenendo che tocchi all’amministratore attivarsi per risolvere la questione. Quest’ultimo, però, se è vero che ha l’obbligo di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 c.c.) e che può ordinare lavori di manutenzione straordinaria a condizione che rivestano carattere urgente (e in tal caso deve riferirne nella prima assemblea: art. 1135 c.c.), non è invece tenuto ad anticipare le somme all’uopo necessarie e quindi nulla può essergli imputato dal condominio ove manchino i fondi nelle casse condominiali.

In capo ai singoli condomini, d’altro canto, permane l’obbligo, ribadito più volte dalla Corte di Cassazione Penale, di rimuovere la situazione pericolosa anche nel caso di mancata formazione della volontà assembleare che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo.

E’ evidente, insomma, che anche in ambito condominiale la problematica non deve essere sottovalutata.

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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Equitalia, pignoramenti annullati dalla Cassazione

La Cassazione, con la sentenza n. 26519, depositata il 9 novembre 2017, ha affermato un importantissimo principio di diritto, stabilendo che è nullo il pignoramento esattoriale di crediti ex art. 72 – bis se attivato da Equitalia senza indicare il dettaglio dei crediti. Infatti, l’atto di pignoramento di crediti presso terzi notificato dall’Agenzia delle Entrate si limita spesso ad intimare in maniera generica il pagamento di una somma dovuta a titolo di tributi o entrate, senza specificare se si tratti di imposte, multe, contributi previdenziali o altre sanzioni amministrative. La mancata indicazione del dettaglio dei crediti, della loro natura, degli importi, delle relative cartelle e delle date di notifica costituisce grave motivo di illegittimità del pignoramento, da contestare con opposizione agli atti esecutivi. Invero, nell’esecuzione forzata esattoriale gli unici atti che rendono edotto il debitore del contenuto del titolo esecutivo sono la cartella di pagamento ed eventualmente l’avviso di mora. Con tale statuizione, la Cassazione, dunque, ha stabilito la necessità del riferimento a tali atti, i quali a loro volta indicano, specificandone la fonte e la natura, il credito per il quale si procede a riscossione. Di fatto, sono stati dichiarati illegittimi tutti i pignoramenti di crediti verso terzi effettuati dall’Agenzia delle Entrate, con la conseguenza di poter proporre opposizione facendo valere i propri diritti. In particolare, la nullità del pignoramento di crediti ex art. 72 – bis D.P.R. n. 602 del 1973 è dovuta alla mancata indicazione dei crediti ed è attribuita alla circostanza che Equitalia non può attestare con fede privilegiata di aver allegato al pignoramento l’elenco delle cartelle. La Cassazione ha, sul punto, evidenziato che “l’atto di pignoramento presso terzi, anche quando è predisposto nelle forme previste dall’art. 72 – bis D.P.R. n. 602 del 1973, in tema di esecuzione esattoriale, ha la natura di atto esecutivo e, quindi, di atto processuale di parte. La fidefacienza di cui all’art. 2700 c.c. riservata ai soli atti pubblici”. Risulta, quindi, infondata l’affermazione secondo la quale l’atto di pignoramento di Equitalia goda di fede privilegiata, per quanto concerne l’attività compiuta per la sua redazione, inclusa l’allegazione dei documenti ivi menzionati, fino a querela di falso. Si tratta, infatti, di un atto avente natura esecutiva, un atto processuale di parte e non di un atto pubblico, al quale è riservata la fidefacienza di cui all’art. 2700 c.c.. Infatti, la Suprema Corte distingue fra l’attività volta alla notificazione dell’atto, relativamente alla quale l’agente riscossore assume in effetti le vesti di pubblico ufficiale, da quella relativa alla stesura dello stesso, con riferimento alla quale egli agisce nella qualità di soggetto privato, come si desume dall’art. 49, comma 3, del D.P.R. 602/1973. In conclusione, non potendo attribuirsi fede pubblica all’attestazione relativa alle attività svolte dal funzionario preposto alla redazione dell’atto di pignoramento, si deve ritenere corretta l’affermazione secondo la quale debba essere rigorosamente provata l’effettiva allegazione delle cartelle esattoriali richiesta dall’art. 543 c.p.c..

Avv. Lucia Boellis

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Visite fiscali, cosa cambia?

E’ entrato in vigore il decreto Madia che ha stabilito le ore di reperibilità per i dipendenti pubblici, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18 (anche nei giorni non lavorativi e festivi).
Nel settore privato, invece, le vecchie fasce orarie per i controlli rimangono invariate: le visite fiscali avranno luogo dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, per un totale di 4 ore. I controlli nel privato non vengono quindi equiparati al pubblico, come invece suggerito dal Consiglio di Stato.
Secondo quanto prevede l’articolo 2, le visite fiscali possono essere effettuate “con cadenza sistematica e ripetitiva, anche in prossimità delle giornate festive e di riposo settimanale”. E può essere richiesta dal datore di lavoro pubblico, “fin dal primo giorno di assenza dal servizio per malattia” attraverso un canale telematico messo a disposizione dall’Inps.
Sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti con “patologie gravi che richiedono terapie salvavita; causa di servizio riconosciuta” con riferimento alle prime tre categorie della Tabella A allegata al decreto del presidente della Repubblica 30 dicembre 1981 n. 834 o a patologie della Tabella E dello stesso decreto; “stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta, pari o superiore al 67%”.

Avv. Antonio Nappi

Lavoratrice madre: il licenziamento è consentito?

Non di rado la gravidanza di una lavoratrice rappresenta un problema nei rapporti con il datore di lavoro, il quale a causa dell’assenza “tutelata” della dipendente decide di licenziarla o induce la stessa alle “dimissioni volontarie”.

Proprio per scongiurare e combattere tale pericolo è intervenuto il nostro legislatore, prevedendo un espresso divieto del licenziamento durante il periodo che va dalla gravidanza al primo anno di vita del bambino.

Tale divieto di licenziamento, tuttavia, non opera in casi eccezionali previsti e disciplinati dall’art. 54, comma 3, del D.Lgs. n. 151 del 2001: 1) colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto; 2) cessazione dell’attività aziendale; 3) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato; 4) esito negativo della prova.

Partendo dalla prima ipotesi, una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 2004 del 26 gennaio 2017 – intervenuta sui contenuti dell’art. 54 – ha stabilito che, per il recesso, non è sufficiente la giusta causa ma occorre un qualcosa di più, rappresentato dalla “colpa grave”, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria. Da ciò discende che la giusta causa e le conseguenti declaratorie del CCNL non sono sufficienti per procedere al recesso nel “periodo tutelato” ma che occorre una colpa soggettivamente più qualificata. Allo stesso modo, con l’ordinanza n. 28770 del 30 novembre 2017, la Cassazione ha ribadito che, il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo ricompreso tra l’inizio della gravidanza ed il compimento di un anno di età del bambino, in violazione del divieto di cui all’art. 54 del D.Lgs. n. 151 del 2001, è nullo ed improduttivo di effetti, sicché il rapporto di lavoro va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino all’effettiva riammissione in servizio.

La seconda ipotesi richiamata dal Legislatore, in deroga al divieto di licenziamento, riguarda la cessazione dell’attività aziendale. In passato, sia la dottrina che la giurisprudenza, avevano fornito una lettura estensiva della norma prevedendo la possibilità del licenziamento anche in caso di cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa, a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento in un’altra struttura o reparto dell’azienda. Tale indirizzo è stato, poi, abbandonato e la Corte, con le sentenze nn. 18810/2013 e 18363/2013, ha ribadito che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale, non soggetto ad interpretazione estensiva o analogica.

La terza esimente concerne l’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice era stata assunta o la scadenza del termine in un contratto a tempo determinato. Nel caso di appalti di servizi, ad esempio, con la scadenza dell’appalto in capo ad un appaltatore e riassorbimento del personale impiegato da parte di un secondo appaltatore vincitore del successivo appalto, non è consentito escludere dalla forza lavoro, quindi licenziare, la lavoratrice in stato di gravidanza o madre di un bambino con meno di un anno di età, solo perché assente per maternità, facendo riferimento alla norma che consente la deroga al divieto di licenziamento per ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta. La Cassazione sul punto ha ritenuto, infatti, illegittimo il licenziamento intimato in un appalto di pulizie, ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti ad eccezione di una lavoratrice assente per maternità che aveva un contratto di assunzione a tempo indeterminato.

La quarta ipotesi riguarda l’esito negativo della prova. Il recesso risulta legittimo soltanto se il datore di lavoro non è a conoscenza dello stato di gravidanza. Osserva la Corte Costituzionale con la sentenza n. 172 del 31 maggio 1996, che in caso contrario, per difendere la lavoratrice da prevaricazioni, il datore deve motivare il giudizio negativo concernente l’esito della prova. In questo modo si consente da un lato, all’interessata di fornire l’eventuale prova contraria e, dall’altro, al giudice di valutare i motivi reali del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza.

Avv. Luca Gencarelli

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Condominio: non sempre il condomino ha diritto al rimborso per spese condominiali

Può capitare a volte che uno o alcuni condomini prendano l’iniziativa, magari per ovviare a qualche inerzia dell’assemblea, affrontando personalmente delle spese nell’interesse di tutto il condominio.

La casistica è la più varia. Si va dalle piccole riparazioni di apparecchi o impianti comuni (tipico il caso del meccanismo di apertura a distanza del portone di ingresso o quello della sostituzione di lampadine malfunzionanti), fino alla messa in sicurezza o al vero e proprio restauro di elementi architettonici dell’edificio (come nell’ipotesi di spicconatura o rifacimento di cornicioni pericolanti e simili).

In tutti questi casi il problema, molto dibattuto nelle riunioni di condominio, è se chi ha effettuato la spesa senza preventiva autorizzazione dell’assemblea abbia o meno il diritto di ottenerne il rimborso.

Ebbene, la risposta in teoria è semplice ed è contenuta nell’art. 1134 del codice civile che, nella nuova formulazione scaturita dalla riforma del 2012, stabilisce testualmente che “il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente”. Dunque, la regola è che non vi sia alcun diritto al rimborso; mentre la sussistenza di un motivo di urgenza vale quale eccezione e perciò consente la rifusione delle spese anticipate.

Molto più difficile, però, è orientarsi nella prassi, poiché si tratta di capire se davvero la spesa sia urgente o piuttosto, come a volta accade, abbia carattere impellente solo per il condomino che decide di affrontarla autonomamente.

In particolare, la giurisprudenza, nell’interpretare la norma sopra citata, ha sottolineato che per integrare il requisito dell’urgenza non è sufficiente la semplice trascuratezza degli altri condomini. Di recente la Cassazione Civile, con sentenza del 30 ottobre scorso (n. 25729), ha precisato che per chiedere il rimborso della spesa sostenuta non basta la “difficoltà di procurarsi tempestivamente il consenso e la necessaria cooperazione degli altri condomini”. In questo caso, infatti, il codice prevede che ci si possa rivolgere all’autorità giudiziaria, che può anche nominare un amministratore.

Perché una spesa possa definirsi urgente – e quindi rimborsabile – occorre, insomma, che vi sia un’esigenza che richiede un intervento non dilazionabile nel tempo, tale che il tempo necessario per investire dell’attività l’amministratore possa comportare una situazione di danno o almeno di concreto pericolo.

In definitiva, il diritto al rimborso sorge solo alla duplice condizione che la spesa sia affrontata “per impedire un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune” e che “le opere debbano essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini” (Cassazione Civile sentenza  n. 9177 del 2017).

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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DSA, eccesso di diagnostica in Italia? Cassazione: psicologo a scuola senza consenso è violenza privata.

Negli ultimi anni, i continui cambiamenti legislativi riguardanti la scuola hanno portato ad un proliferare di sigle fra le quali può essere difficile districarsi come ad esempio PDP, BES, DSA. In particolare i DSA, ossia i disturbi specifici dell’apprendimento, sono una categoria di disturbi in cui rientrano dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia e vengono diagnosticati da psicologi e/o neuropsichiatri o eventualmente da altre figure come, ad esempio, il logopedista. La loro diagnosi è di competenza del personale sanitario. In tale contesto clinico si cercherà di comprendere le caratteristiche della persona, punti di forza e di debolezza, eventuali altre difficoltà associate, in base alle quali la scuola dovrà adottare le strategie didattiche opportune e dovrà elaborare un piano didattico personalizzato (PDP). Al giorno d’oggi molti bambini vengono etichettati come DSA. Una volta sarebbero stati definiti semplicemente “birichini” o “monelli”? Esiste un’ossessione da neuropsichiatria? Stiamo vivendo un’epoca di eccesso di diagnostica neuropsichiatrica? Le nuove generazioni sono classificate con sigle indicative di malesseri neuropsichiatrici, con tutte le conseguenze e i danni che ne possono derivare, negli anni a seguire. Il loro percorso scolastico, ed anche lo sviluppo personale e sociale, potrebbe essere compromesso dall’etichetta di bambini “problematici” che si appone loro con tanta facilità, in un’età così critica. La Cassazione, che recentemente è stata chiamata ad intervenire sull’argomento, con la sentenza n. 40291/17 ha rafforzato i dubbi di legittimità su alcuni aspetti della Legge 8 ottobre 2010, n. 170, recante “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico.”, già criticati da più parti in relazione al rischio di medicalizzazione della scuola. Secondo la Cassazione, Sez. V Penale, infatti, la mancanza dell’esplicito consenso da parte di chi è legittimato a prestarlo “integra certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”. Con l’assunto “Il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione la parte offesa (fra le tante pronunce, si veda Sez. V n. 11522 del 03/03/2009 …). Tale principio trova rispondenza in altre pronunce di questa Corte, secondo cui l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Sez. V n. 4284 del 29/09/2015, …)” la Cassazione ha riconosciuto nella presenza dello psicologo a scuola senza il consenso del genitore la configurabilità della violenza privata, riaffermando il rispetto della responsabilità genitoriale. In particolare, nel caso specifico sarebbe stato disposto un trattamento sanitario su minori, un’osservazione medico-clinica, senza il consenso dei genitori, in assenza sia di ragioni di urgenza sia di finalità terapeutiche, con lesione dell’integrità psichica dei minori e con ingiusta compressione al libero esercizio della potestà genitoriale. Potendo pacificamente affermare, inoltre, in tema di violenza privata, che la violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione. Inoltre, la relazione redatta dalla psicologa costituisce atto pubblico, in quanto documenta l’attività di osservazione degli alunni compiuta dalla psicologa dell’istituto, che, in tale veste, ha funzioni di pubblico ufficiale. Pertanto, il reato di occultamento nonché di omessa denuncia di cui agli artt. 490 e 361 c.p. possono dirsi sussistenti, al contrario di quanto sostenuto dal Giudice di primo grado. Alla luce di quanto motivato, la Cassazione ha annullato il proscioglimento del Gip di Arezzo nei confronti di due dirigenti scolastici, due insegnanti e della stessa psicologa, portati in causa dai genitori di un bimbo con presunti problemi comportamentali. Gli insegnanti avevano chiesto, senza aver preventivamente informato i genitori e/o aver chiesto loro alcun tipo di consenso, la consulenza del medico durante le ore di lezione per osservare l’atteggiamento relazionale dell’alunno. Al termine dell’analisi durata due mesi, il medico aveva stilato una relazione della quale i genitori erano venuti a conoscenza solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con l’insegnante. In seguito, è stata negata loro la richiesta di accesso agli atti, come anche l’esistenza stessa della relazione, da entrambi i dirigenti scolastici succeduti negli anni interessati. La sentenza ha riscosso l’approvazione di cittadini, docenti e dirigenti, associazioni a tutela dei minori e genitori ed anche dello stesso Ordine degli Psicologi, che in una nota si è espresso affermando che “la Corte di Cassazione, con la sentenza 40291/17, ha ribadito quanto è già previsto nelle procedure professionali degli psicologi, i quali operano sempre nei contesti minorili col consenso dei genitori e nell’esclusivo interesse del minore. Non è ammissibile infatti in alcun modo che altre figure, dirigenti e/o insegnanti, possano avvalersi dell’osservazione in via precauzionale da parte dello psicologo per la valutazione clinica di un minore. I genitori (e, nel caso, il tutore) sono gli unici responsabili del percorso di crescita del minore all’interno di regole ben condivise. E poi, ogni osservazione clinica di un minore poggia, e si completa, sulla necessaria contestualizzazione familiare che solo il colloquio con i genitori può fornire”. E’ evidente, dunque, sia sorta la necessità di un intervento di condanna all’approccio medicalizzato che ha investito la scuola a seguito della legge n. 170/2010 sui DSA. La sentenza della Cassazione rappresenta la rivendicazione di un principio secondo il quale il rispetto della genitorialità è fondamentale, in una scuola deputata a istruire e formare le future generazioni e non a distruggerle, minandone l’autostima. La scuola dovrebbe essere in continua evoluzione per potersi adattare, compensare e far fronte al bisogno del singolo alunno e, attraverso l’inclusione dell’individuo, dovrebbe adoperarsi per garantire agli alunni con specifiche difficoltà il raggiungimento degli standard minimi di autonomia personale, con validi strumenti di lavoro, come programmi personalizzati, nel pieno rispetto delle situazioni individuali e dei diversi stili di apprendimento che caratterizzano i diversi individui.

                                                                       Avv. Lucia Boellis

Locazione: niente canone senza registrazione del contratto  

 

L’art. 1, comma 346, della I. 30.12.2004 n. 311, stabilisce che “i contratti di locazione (…) sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati“. La chiara e inequivocabile lettera della legge non consente alcun dubbio sul precetto che esprime e cioè che un contratto di locazione non registrato è giuridicamente nullo. 

Sulla base di tale premessa la Corte di Cassazione, Sezione Terza, con la sentenza pubblicata il 13 dicembre 2016 ha annullato la sentenza emessa dalla Corte di appello che da un lato aveva ritenuto valido, ma inefficace un contratto non registrato e dall’altro, che tale inefficacia del contratto non esimeva l’occupante dall’obbligo di pagamento del canone pattuito “come corrispettivo della detenzione intrinsecamente irripetibile”.

Ciò perché non risulta applicabile l’art. 1458 c.c., in quanto questa disciplina la risoluzione per inadempimento dei contratti di durata, e non gli effetti della nullità, i quali sono invece disciplinati dalle norme sull’indebito oggettivo, da quelle sul risarcimento del danno, ovvero da quelle sull’ingiustificato arricchimento, come misura residuale;

Inoltre, non risulta possibile equiparare l’obbligo di pagare il canone, scaturente dal contratto e determinato dalle parti, con l’obbligo di indennizzare il proprietario per la perduta disponibilità dell’immobile, scaturente dalla legge e pari all’impoverimento subito.

Con la sentenza richiamata, pertanto, sono stati sanciti due principi fondamentali:

  1. il contratto di locazione non registrato è nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, della I. 30.12.2004 n. 311;
  2. la prestazione compiuta in esecuzione di un contratto nullo costituisce un indebito oggettivo, regolato dall’art. 2033 c.c., e non dall’art. 1458 c.c.; l’eventuale irripetibilità di quella prestazione potrà attribuire al solvens, ricorrendone i presupposti, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., od al pagamento dell’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.

Avv. Antonio Nappi

Può un dipendente rifiutare di lavorare nei giorni festivi? L’avvocato risponde

In vista delle prossime festività natalizie si ripropone il tema, sempre “caldo”, del contrasto tra l’eventuale interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa anche nei giorni di festività infrasettimanali ed il diritto del lavoratore a godere di tempo libero, in tali giorni, da dedicare a sé e alla famiglia.

Secondo l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità, ormai consolidato in materia, il datore di lavoro non può obbligare i suoi dipendenti a lavorare durante le festività, celebrative di ricorrenze religiose o civili, se queste sono infrasettimanali.

Sono numerosi i casi in cui i giudici, sia di merito che di legittimità, hanno riconosciuto in favore dei lavoratori un diritto soggettivo che consente loro di scegliere se recarsi a lavoro o meno, senza subire alcuna sanzione disciplinare.

Una delle prime pronunce della Corte di Cassazione risalente al 1997 – vertente sull’astensione al lavoro nella giornata dell’8 dicembre da parte di alcuni lavoratori di un’acciaieria e sul loro diritto a percepire, in ogni caso, la retribuzione per il giorno festivo non lavorato – evidenziava che in occasione delle festività infrasettimanali (celebrative di ricorrenze civili o religiose) a tutti i lavoratori indistintamente è riconosciuto il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in base all’articolo 2 della L. 260/1949: con la conseguenza che, nel caso in cui in una delle festività individuate dalla legge il lavoratore non svolga alcuna attività lavorativa, anche se ciò dipenda dal suo rifiuto, il dipendente ha pur sempre diritto alla normale retribuzione.

Anche recentemente la Suprema Corte con la sentenza n. 22482/2016 è tornata sull’argomento evidenziando come l’articolo 2 attribuisca un diritto soggettivo del lavoratore di astenersi dal lavoro in dette festività, nell’escludere che la decisione datoriale unilaterale possa imporre la prestazione di lavoro, nel richiedere che la rinuncia a detto diritto possa intervenire solo in forza di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore.

Nel panorama giurisprudenziale di legittimità si rivengono alcune, minoritarie, pronunce che considerano tale diritto derogabile ad opera dei contratti collettivi, consentendo alla contrattazione collettiva di imporre al lavoratore lo svolgimento della propria attività nei giorni festivi. Si può citare al riguardo la sentenza n. 4435/2004 in cui i giudici della Corte di Cassazione hanno stabilito che “Premesso che, di regola, al lavoratore è riconosciuto il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose, e che la giornata del 15 agosto, celebrativa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, è considerata festiva ai sensi dell’art. 1 del d.P.R. 28 dicembre 1985, n. 792, allorquando la contrattazione collettiva applicabile preveda, come eccezione alla regola legale, che l’attività lavorativa possa essere svolta anche nei giorni festivi, subordinando la fruizione della festività alle esigenze aziendali, la sussistenza di tali esigenze costituisce il presupposto per l’applicazione del regime di eccezione (contrattuale) in luogo della regola (legale), sicché il datore di lavoro, che invochi l’applicazione della norma contrattuale, deve provare la sussistenza del presupposto di fatto, e cioè delle esigenze aziendali”.

Tuttavia, la giurisprudenza prevalente, e anche la più recente, è conforme nel considerare tale diritto come un diritto di cui le organizzazioni sindacali in sede di accordi collettivi non possono disporre, in assenza di uno specifico mandato ad esse conferito dal lavoratore, essendo il riposo nelle festività infrasettimanali rinunciabile solo mediante il mutuo consenso fra il lavoratore ed il datore di lavoro.

Posti tali principi, recentemente una sentenza di merito (Tribunale di Firenze, Sez. lav., 24 maggio 2017, n. 511) nell’affrontare l’annoso problema dei confini del diritto del lavoratore di astenersi dal prestare attività lavorativa nelle festività infrasettimanali a fronte di interessi pubblici o privati di particolare rilevanza spesso sottesi all’attività esercitata dal datore di lavoro, nel costante tentativo di ricerca di un giusto contemperamento tra le due opposte posizioni, ha risolto il problema conformandosi sostanzialmente all’ormai consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui spetta al lavoratore un vero e proprio diritto soggettivo di astensione dal lavoro nella giornata festiva, implicante la facoltà di rifiutare insindacabilmente l’effettuazione della prestazione, mantenendo il diritto alla normale retribuzione globale fissa; tale diritto è indisponibile per le organizzazioni sindacali, ma ha carattere disponibile per il lavoratore, unico titolare.

Alla luce di quanto sinora espresso si può certamente rispondere in maniera affermativa al quesito iniziale, in quanto il rifiuto dei dipendenti di prestare servizio in una giornata festiva non può esimere il datore di lavoro dal versamento della normale retribuzione, in quanto il diritto del dipendente di astenersi dall’attività lavorativa in presenza di determinate festività discende direttamente dalla legge ed ha carattere generale.                                                                                 

Avv. Luca Gencarelli

Proprietari dei negozi partecipano alle spese condominiali

CONDOMINIO: ANCHE I PROPRIETARI DEI NEGOZI CHE AFFACCIANO DIRETTAMENTE SULLA STRADA DEVONO PARTECIPARE ALLE SPESE PER LA MANUTENZIONE DELL’ANDRONE E DELLE SCALE CONDOMINIALI.

E’ frequente, nella vita di condominio, che sorgano questioni sulle spese relative all’androne e alle scale condominiali. Spesso chi è proprietario di locali (magari adibiti a negozi) che affacciano direttamente sulla strada o sul marciapiede rifiuta di sostenere le spese per la manutenzione di scale e ingresso dello stabile condominiale. L’argomento di solito adoperato a conforto di questa tesi è che il proprietario di un locale a livello della strada non utilizza l’ingresso e le scale condominiali, al contrario di quanto fanno i proprietari degli appartamenti che sono posti all’interno del fabbricato; dunque non sarebbe tenuto a contribuire alle relative spese.

Vediamo di approfondire brevemente il problema.

Il codice civile stabilisce che sono oggetto di proprietà comune tutti quegli elementi necessari per la configurabilità stessa del fabbricato (art. 1117 c.c.) e la giurisprudenza ha da sempre ritenuto che siano tali anche gli elementi costituenti un tramite indispensabile per il godimento e la conservazione delle strutture di copertura, a tetto od a terrazza, del fabbricato stesso. L’androne e le scale, per altro espressamente menzionate dalla norma, rientrano in questa nozione di parti comuni a tutti i condòmini, essendo elementi strutturali necessari alla edificazione dello stabile e mezzo indispensabile per accedere al tetto o al terrazzo di copertura.

L’art. 1123 del codice civile, tuttavia, prevede che qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità.

E allora, i proprietari dei locali con accesso diretto alla strada (o meglio: senza accesso all’ingresso e alle scale condominiali) devono o no partecipare alle spese?

La risposta è affermativa, come ha chiarito una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 9986 del 20-04-2017), pronunciata in un caso concernente spese per lavori di manutenzione straordinaria dell’androne e delle scale, che ha rilevato come in realtà anche tali condomini possono usare l’androne e le scale per raggiungere, come è loro diritto, i locali della portineria e il tetto o il lastrico solare; anzi, a volte hanno addirittura un preciso obbligo, come quando capita che sia necessario accedervi per prevenire e rimuovere situazioni di pericolo che possano derivare dalla insufficiente manutenzione dei beni comuni. Dunque, a meno che non sussista un titolo contrario, i giudici hanno sancito che “ove nell’edificio condominiale siano compresi locali forniti di un accesso diverso dall’androne e dal vano scale, anche i proprietari di detti locali sono tenuti a concorrere, sia pure in misura minore, alle spese di manutenzione (ed eventualmente di ricostruzione) dell’androne e delle scale, in rapporto e in proporzione all’utilità che anche essi possono in ipotesi trarne quali condomini”.

 

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

Diffamazione a mezzo “social” Cassazione: l’offesa su Facebook è reato

Con l’avvento della “net generation”, è cambiato il modo di relazionarsi. La rappresentazione sociale dell’individuo spesso dipende dalle informazioni che circolano sul web. La crescita esponenziale di condivisione di dati sensibili, immagini ed informazioni personali, attraverso i comuni social network, ha comportato la necessità di assicurare il pieno rispetto della propria e dell’altrui identità, anche su internet. E’ nata, dunque, una nuova figura giuridica meritevole di tutela, l’identità digitale o informatica, un’identità virtuale costituita dai dati personali, che acquistano rilevanza con la diffusione attraverso i comuni “social”. L’evoluzione tecnologica, infatti, ha reso semplice ed accessibile il meccanismo di invasione della sfera privata di un individuo. Diviene, dunque, essenziale evitare che altri violino i diritti tutelati dal nostro ordinamento, e fondamentale consentire ad ogni individuo di disporre del diritto di controllo sulle informazioni di carattere personale che altri possano assumere. Infatti, i dati personali di un individuo possono essere fatti confluire in banche dati, con diverse finalità e può, in tal modo, essere facilmente ricostruita la c.d. “personalità virtuale” di un individuo, attraverso le informazioni raccolte sul suo conto, una sorta di identità digitale che si sostituisce all’identità fisica nel web. Infatti, i contenuti creati dagli utenti e resi pubblici attraverso il mezzo telematico, costituiscono un potenziale veicolo di violazioni degli interessi di terzi ed una minaccia per diritti quali l’immagine, l’onore e la reputazione, la riservatezza, l’oblio. Come evidenziato da alcuni interpreti, infatti, l’utilizzo della rete, che per sua natura tende a connettere individui, formazioni sociali e istituzioni di ogni genere, pone questioni di non facile risoluzione, risolvibili solo con nuovi approcci al diritto, soluzioni mai adottate prima e in taluni casi non ancora individuate. Finanche la Cassazione è stata interpellata per la risoluzione delle nuove problematiche derivanti dall’utilizzo improprio dei “social”. Con la recente sentenza n. 50/2017, la Corte di Cassazione ha riconosciuto come l’offesa realizzata telematicamente, servendosi della bacheca pubblica di un soggetto, integri un vero e proprio reato. In particolare, la Suprema Corte con la sentenza n. 50/17 della sez. I Penale, nel confermare la competenza, nel caso di specie, del tribunale di Pescara, ribadisce che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante (Cass. n. 24431 del 28/04/2015). La circostanza che l’accesso al social network richieda all’utente una procedura di registrazione – peraltro gratuita, assai agevole e alla portata sostanzialmente di chiunque – non esclude la natura di “altro mezzo di pubblicità” richiesta dalla norma penale per l’integrazione dell’aggravante, che discende dalla potenzialità diffusiva dello strumento di comunicazione telematica utilizzato per veicolare il messaggio diffamatorio, e non dall’indiscriminata libertà di accesso al contenitore della notizia (come si verifica nel caso della stampa, che integra un’autonoma ipotesi di diffamazione aggravata), in puntuale conformità all’elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte che ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 595 terzo comma cod. pen. nella diffusione della comunicazione diffamatoria col mezzo del fax (Cass. Sez. V n. 6081 del 9/12/2015) e della posta elettronica indirizzata a una pluralità di destinatari (Cass. Sez. V n. 29221 del 6/04/2011)”. Sarebbe riduttivo, dunque, declinare a meri strumenti ludici quelli comunicativi di massa: tutti i social network si fondano sull’elaborazione dell’identità virtuale di un individuo, tuttavia corrispondente a quella di un individuo reale. Di conseguenza, alla rappresentazione della reputazione di un soggetto, concorre direttamente anche quella sociale che di questi si ha in rete. Da un punto di vista giuridico, si può profilare una duplice problematica. La prima, sul versante del diritto alla privacy o alla riservatezza, in termini di protezione dei dati personali e dei dati sensibili, a seguito della violazione dell’art. 2 Cost., dell’art. 8 Cedu, dell’art. 8 Carta di Nizza, del Codice in materia di protezione dei dati personali d.lgs. 196/2003. La seconda, relativamente al bilanciamento tra diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. e il diritto all’onore. Col fine di tutelare i minori in rete, è recentemente entrata in vigore la Legge n. 71/2017 recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, diventata lo strumento normativo capo fila a livello Europeo dedicato al contrasto del fenomeno del bullismo on line. Non è, però, sufficiente, l’intervento normativo al riguardo: è possibile porre rimedio alla potenziale lesività degli strumenti comunicativi di massa solo attraverso l’uso consapevole dei “social”, da parte di adulti e di minori, e soprattutto attraverso l’informazione finalizzata alla conoscenza degli strumenti di tutela giuridica dei diritti dell’individuo, forniti dal nostro ordinamento, nell’ambito della rete e, soprattutto, della vita reale.

Avv. Lucia Boellis