“Storia del popolo Albanese”, Ettore Marino parla della sua ultima opera letteraria

RENDE (CS) – “Storia del popolo albanese” è un libro che indaga i fatti e rievoca una cultura, un sentimento. Ettore Marino pubblica per Donzelli la sua ultima opera. Non svolge un semplice lavoro sulla lingua, ma indaga la realtà albanese, balcanica e d’Italia, da svariate prospettive. Marino pubblica nel 2014 Un giovane trifoglio tra le spine. Meditazione sull’albanesità”. Vanta collaborazioni con “Isolas”, con ”Il Serratore”, con alcune testate internazionali.

Uomo dottissimo e appassionato, colpisce la foga con cui si scaglia contro la pratica dell’editing.

Marino dice infatti: “Benedico le dita del revisore quando m’hanno corretto qualche svista, soppresso noticine inutili, resi chiari tre periodi che non lo erano. Le maledico quando m’hanno guastato lo stile o infiacchito il pensiero stuprando “vanire” in “svanire, “morrà” in “morirà”, “uggia” in “antipatia”, “panciuti” in “corposi”, “dopo lungo combattere” in “dopo un lungo scontro”; o quando m’hanno sbrodolato l’andamento giambico di “rispose ch’eran ciance” nell’esametrico “rispose che erano ciance”, e mi fermo”. L’autore prosegue dicendo che:”Lo stile, e il ritmo, che ne è parte, è come il timbro della voce. O non s’accorgono che costringere il prossimo a parlare, sia pure se qua e là, con una voce non sua, è mala, malissima, villanissima prassi, funesta all’atto letterario?”

 

Marino spiega perché il lettore dovrebbe interessarsi alla sua opera:

“Altro è l’Albania balcanica (Shqipëria), altro la nostra (Arbëria). Quella ha patito e patisce mestizie da greci, serbi, montenegrini. Questa è una vecchia, placida, svampita signora che, prossima a dare, e per cause naturali, l’ultimo suo respiro, finge di morire strozzata da chissà quali dita assassine. La lingua (più propriamente, sporade di dialetti) è un rio che sempre più s’interra poiché i parlanti la sentono inutile, estranea, o addirittura impaccio. I pochi che ne soffrono vanno fantasticando di pozioni buone a rifarla gagliarda e fertile fanciulla, pronta magari a scodellare una stirpe di albanissimi eroi… A chi mi chiede come salvare la lingua rispondo che occorre far di tutto senza scordare mai che non servirà a nulla. A chi, costringendomi al ruolo dell’oste, vuol sapere perché debba leggermi, vanto il mio vino col dire che, se storia e lingua d’Arbëria sono oggetto di chissà quanti studi severi, lo studio mio è severo e frizzante, né all’Arbëria si limita. Ma fermiamoci ad essa. La riflessione vi ha preso il posto del morente irriflesso. Anche il costume femminile è morto. Ne godiamo l’elegante squillanza d’ori e crome in un giusto museo, lo celebriamo col gioioso funerale pagano delle rassegne ad esso dedicate. Viva è però l’Arbëria nei suoi canti. Il Festival di San Demetrio è un luogo tutto d’oro. È simbolo e sorgente. Di canti nuovi, dico. Il popolo li ascolta. Li fa suoi. Li ricanta. Ve n’è di leggiadrissimi. E voci vi sono, specie voci di donna, che con possente grazia danno corpo ai canti, anima alle parole, eternità all’eterno fluire. Ecco la giovinezza d’Arbëria.”

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *