La ballata “A cruci di povari” di scena all’Unical il 20 giugno, per rivivere problemi presenti e passati dell’Italia

Un Cristo che invita non alla preghiera, non alla richiesta fiduciosa e remissiva di un miracolo, ma alla presa di coscienza, alla ribellione solidale e condivisa per risolvere gli affanni, grandi e piccoli, che gravano sulla vita quotidiana del contadino, del povero, dell’umile. È questo, in sintesi, il messaggio de ‘A cruci di povari, la ballata composta da Danilo Montenegro nel 1974, che ritorna, pregna e densa di attualità e di denunce, nello spettacolo musicale e teatrale cui dà il titolo.‘A cruci di povari, A ricchizza ppe’ figghijoli (il sottotitolo è una polisemica nota di speranza) si preannuncia come una summa dei temi trattati da Montenegro fino a questo punto della sua carriera artistica, ed è appena il caso di ricordare le molteplici espressioni – musica, poesia, pittura – a cui l’artista ricorre nel suo ruolo di neocantastorie.

Decisiva, per la stesura del prologo, la conoscenza della controstoria che tanta nuova luce sta gettando sugli eventi coevi e successivi all’unità italiana (il riferimento è Pino Aprile, con il suo Terroni) e che dà spunto a Montenegro per esprimere con maggiore amarezza, con più veemente forza, se ciò è possibile, tutto lo sdegno per le condizioni in cui hanno versato storicamente le classi subalterne e di cui le vicende pre e post unitarie sembrano segnare la genesi. Le violenze, i soprusi, il genocidio, la miseria che hanno distinto la conquista sabauda, danno il via alla piaga per eccellenza che ha caratterizzato e continua a caratterizzare la storia del Meridione: l’emigrazione.

In realtà ‘a cruci di povari si materializza proprio come crudele necessità di lasciare la propria terra, per lavorare e assicurare la sopravvivenza per sé e la famiglia. Una “croce” che ha segnato il destino di milioni di meridionali, che si è ripercossa sul presente e il futuro di uomini, donne, bambini, famiglie e generazioni intere estraniate dalla lontananza, smembrate nella vita, e spesso dalla morte. Ma l’emigrazione, come risvolto storico si risolve nella sicurezza economica, nel “pezzo di pane”,‘a ricchizza che la miseria, nella propria terra, ha negato; nel presente, prossimo e futuro, si trasforma in ricchezza culturale, appannaggio dello spirito e della memoria, che fa riscoprire alle giovani generazioni tracce del proprio passato, fierezza per le proprie radici. La narrazione scenica ripercorre le fasi salienti della storia meridionale post unitaria: i processi migratori, l’occupazione delle terre, le tragedie minerarie. Descrive con duro e poetico realismo la sfiancante fatica della terra e la miseria quotidiana del lavoro “sotto padrone”, per proseguire, con altrettanta crudezza e poesia a tratteggiare la nuova emigrazione, quella che oggi vede protagonisti intere famiglie e soprattutto i giovani, laureati e specializzati, sfruttati e offesi da un sistema che disconosce il merito. Paradossale riflesso di questa circostanza è il fenomeno uguale e contrario dell’immigrazione, di cui il Meridione è approdo eletto; la storia vissuta dai nostri avi, si ribalta e si riflette nelle condizioni che subiscono i “disperati” dei barconi, prigionieri politici, vittime di guerra e di miseria del continente africano, dell’Est europeo, del Medioriente. Una sorta di emigrazione a rovescio, che riporta di drammatica attualità, seppure con ruoli diversi, la nostra storia, passata e recente.

La chiusa dello spettacolo è affidata a una “denuncia planetaria” che lascia trasparire i pastellati colori della speranza, con l’invito a “voler giocare a fare la pace e non la guerra”. Ad una condizione. Che l’umanità possa affrontare consapevolmente, criticamente e risolvere il connaturato e pernicioso dualismo tra bene e male, tra istanze egoistiche e tensioni altruistiche. Ecco perchè il brano finale Sciogghji lu gruppu, testo dal forte impatto emotivo – al di là del significato letterale che, all’epoca della sua uscita (1974) lo sottopose ai rigori della censura che ne proibì la diffusione – in realtà è un abissale, massacrante esame di coscienza del singolo individuo che riconosce il nodo, lu gruppu del proprio egoismo, “padrone malvagio” letteralmente da sopprimere, per contrastare la tendenza al male ed alla negatività, pena l’interminabile sofferenza dell’individuo e della collettività.

Lo spettacolo – che affida i suoi molteplici messaggi ad un’alchimia di musica, teatro, danza, canto, poesia, pittura, immagini – porta la firma registica di Antonio Conti, con le coreografie di Paolo Gagliardi e le musiche originali di Gregorio Lagadari. I testi e le musiche dei brani, oltre alle opere pittoriche, sono di Danilo Montenegro, che affida messaggi densi e coinvolgenti attraverso il “Canto dei nuovi emigranti” di Franco Costabile e la “Calabria che lo scirocco” di Dante Maffia. Il lavoro teatrale e musicale è sostenuto dal GALKroton che è lo sponsor principale, ed è realizzato in coproduzione con l’Unical, Cams. Il debutto è fissato al 20 giugno, presso l’Auditorium dell’Unical, con inizio alle ore 20,30.

Nei giorni 16 e 17 giugno è previsto il backstage per i giornalisti. Il costo del biglietto è di 10 Euro, 7 per gli studenti.

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