“Lucido” e la sua sporadica lucidità

Foto di Angelo Maggio

Cosenza – Venerdì sera, nuovo appuntamento con il Teatro Morelli, solita fila al botteghino per ritirare freneticamente i biglietti, stesso desiderio di sempre di accomodarsi tra le poltroncine rosse e godere a pieni polmoni l’odore pungente, sovversivo, acre della cultura che tutti, oggi come oggi, cercano continuamente di negarci.

“Lucido”, è questo il titolo dello spettacolo portato in scena ieri sera dalla compagnia Costanzo/Rusconi, ha appassionato la sala gremita con il suo ritmo di narrazione incalzante, provocatorio, ironico e a tratti sarcastico, battute brillanti “sganciate” con una tempistica perfetta tanto da provocare una risata di gusto ma amara, un’ilarità superficiale che nasconde una tragedia profonda capace di logorare i personaggi fino a condurli allo scontro inevitabile.

Sul palco una famiglia qualunque, nelle retrovie un sentore di detto-non detto che non giova ma annienta, nel gioco comico ed irriverente dei personaggi un sapore di humor nero che parla di rapporti familiari mandati a morte, decapitati ancor prima della sentenza definitiva, lasciati imputridire perché troppo presi dalle proprie ragioni, dai propri pensieri, dalle proprie convinzioni per essere capaci di instaurare un dialogo e capire le posizioni dell’altro.

È la storia di Luca e di sua sorella che gli ha donato un rene, la storia di una mamma che sente ma non ascolta, di un padre che li ha abbandonati all’incuria e all’indifferenza e di un nuovo uomo che entra di soppiatto nella vita dei personaggi e di colpo si ritrova in mezzo al fuoco incrociato ricoprendo un ruolo che non gli spetta. È la storia di Luca che ha consegnato la sua vita in mano ad un terapeuta, è la storia di sua sorella che, dopo 15 anni di assordante silenzio, ritorna con un bagaglio colmo di rabbia e rancore e chiede di riavere indietro ciò che è suo; non ritorna per reclamare la macchina da scrivere dell’Olivetti, i libri, il piumone o qualsiasi altro effimero oggetto ricordo della sua infanzia, ciò che reclama è il suo rene, la parte di sé che un tempo ha salvato il fratello ma che ora è richiesta dal suo agonizzante marito.

La trattativa diventa feroce, uno slalom tra colpe addossate e rancori mai confessati, tra paure latenti e dolori evidenti, è una lotta che si dipana tra mura domestiche che a stento contengono l’astio di una famiglia che ha fatto del silenzio la propria religione, uno scontro frontale in cui la lucidità vacilla fino a diventare sempre più sporadica.

Il testo di Rafael Spregelburd, tradotto da Valentina Cattaneo e Roberto Rustioni, narra così una storia che ne nasconde un’altra più segreta è per questo che sul palco s’incontrano realtà e fantasia, vita vissuta ed onirica, esistenza e spettri prodotti dalla mente e dalle sue capacità illusorie.

Tutto su quel palco si confonde fino a non scindersi più e il senso rimane sempre sullo sfondo, sotto terra, impalpabile, impercettibile, misterioso come la vita stessa.

Annabella Muraca

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