Scarda, storia di un cantastorie

L’esercito dei talenti calabresi conta un nuovo nome tra le proprie fila: stiamo parlando di Domenico Scardamaglio, in arte Scarda. Partito alla volta della capitale a caccia di fortuna, il giovane Vibonese è riuscito in pochi anni ad ottenere una candidatura al David di Donatello per la miglior colonna sonora (per il film “smetto quando voglio”), e ad incidere un album, “I piedi sul cruscotto”, uscito di recente per MkRecords. Quello che ci siamo ritrovati davanti per quest’intervista è un artigiano di storie piccole ma universali, un ragazzo modesto e centrato la cui strada sarà di certo luminosa.

1. Come inizia Scarda?

Inizia con la scusa di saper cantare accompagnandosi con la chitarra. Saper cantare può significare molte cose, io non lo intendo in senso prettamente tecnico, diciamo che sono intonato se mi impegno. Comunque, nel 2012 iniziai a cercare dei locali per suonare, mi preparai una scaletta di cover ma l’unico locale che più o meno mi diede retta (i locali che fanno musica dal vivo, per chi non lo sapesse, sono bombardati di richieste ) mi chiese: “hai  qualcosa di tuo da farmi sentire?”  Li scattò la scintilla, io in effetti dei pezzi miei li avevo e ritenevo non fossero neanche male, ma li tenevo li, non  avevo intenzione di proporli in giro. Poi, siccome i locali non è che ti fanno le audizioni ma vogliono almeno un disco (che poi non ascoltano) , decisi di registrare una Demo. Un mio amico (Franco), mi aiutò a fare ciò, poi feci sentire le canzoni a qualche persona che non giudicò affatto male e che anzi,  reagì con stupore e spesso dicendo: “ma perchè non le metti su Youtube?”. Lo feci e così nacque Scarda..

2. Scarda a 15, 20 e 30 anni. L’evoluzione dei tuoi ascolti,dall’adolescenza fino ad oggi.

 A 15 Anni ascoltavo Rock Classico: Beatles, Led Zeppelin, Pink Floyd, Doors ecc. A ciò accostavo anche altra roba ormai classica tipo Nirvana e Radiohead. Sono passato per il momento Metallica/Dream Theater per poi ammorbidirmi a 20 Anni con l’ascolto di Battisti, De Andrè e Rino Gaetano, mi piacque da li in poi il sound acustico, come quello della Bandabardò e dei Modena City Ramblers, quella roba in cui si sente tanto “il legno e il ferro”. Fu una conseguenza spostarmi su Dente, Mannarino, Brunori, Nobraino ecc. dai 24 anni in poi, una volta che scoprii l’indie, e questo neo cantautorato che conservava quel sapore acustico con un filtro più fresco.

3.Le tue canzoni hanno come sfondo vite e storie “normali”. Prova a darci la tua definizione di normalità.

La normalità credo sia un concetto molto labile, non è normale per noi mangiare gli insetti ma se vai in altri posti del mondo si. La normalità la decide un contesto, ti può essere imposta o puoi aderirci liberamente, io nei miei pezzi cerco solo di esprimerla con  delle rime opportune e delle metafore originali , la maggior parte delle canzoni parlano di cose normali, noi indipendenti dobbiamo cercare di essere anche originali perché ce lo impone il mercato, ma la normalità è espressa benissimo anche in una canzone qualsiasi di Marco Mengoni credo. La normalità non è per forza la strada da seguire, io per dire, sto apprezzando molto Lucio Corsi che scrive e descrive cose tutt’altro che normali, l’importante è che fai capire che quando canti non ti ascolti troppo, il primo a far sembrare tutto normale devi essere tu che esprimi il concetto. 

4. Quanto della provincia calabrese c’è nei tuoi pezzi?

Tanto e poco:  le storie contenute in questo disco possono essere ambientate in qualsiasi provincia perchè le province si somigliano un po’ tutte, gli anziani giocano a carte da Siracusa a Bergamo  e i coatti palestrati con lo stereo della macchina a palla  sono un cliché altrettanto diffuso, sono due esempi di come sia tutto un paesone fuori dai centri urbani e forse anche dentro. La provincia calabrese è descritta in quanto “provincia”, non in quanto “calabrese” e questo è in linea con quella caratura nazionale – e non folkloristica – che vorrebbe avere la mia opera, anche i milanesi ascoltano le mie canzoni, perchè parlo anche di loro.

5. Parlaci della separazione della tua terra, e qual è il rapporto che hai oggi con la Calabria.

 

La separazione è sempre stata parziale, in Calabria ci torno sempre durante le vacanze. Ho questo tipo di rapporto quindi, ci vado a staccare la spina, a rivedere amici e conoscenti di una vita, che tornano anche loro durante le vacanze, in una sorta di diaspora al contrario. È un legame affettivo che si manifesta a contatto con i posti e con le persone, con i ricordi e con le parole. Tra i miei piani c’è quello di tornare, ma vorrei tornarci con la possibilità di cambiare alcune cose, iniziare per lo meno. C’è una cosa che non condivido dalle mie parti, una troppo diffusa “paura”di esternare arte perché ci si preoccupa troppo di ciò che può pensare la gente. Una cosa che non succede a Napoli per dire,  da noi invece si ha paura anche di battere le mani per primi perché ci si vergogna. Insomma, se ci torno vorrei farlo con la possibilità di creare un microcosmo diverso. Calabrese tra l’altro è l’etichetta alla quale appartengo (MKRecords) e altre entità che mi aiutano e mi assistono in questo percorso (Manita Lab).

6. L’eco della tradizione cantautorale italiana è evidente nel tuo lavoro, ma ci sono state anche influenze straniere nella formazione del tuo stile?

 

Credo che il cantautorato classico fosse di per se influenzato da molta musica straniera, quindi indirettamente potrei esserlo anch’io. Posso riportare una curiosità:  per arrangiare “Gina” mi sono vagamente  ispirato a “Wish you where here” dei Pink Floyd. Ovviamente prendete molto con le pinze questa affermazione perché ascoltando il pezzo potreste benissimo non riscontrarla, sappiate però che nella mia testa l’ispirazione era quella. Tornando alla domanda,che più in generale parlava dello “stile”, credo che ciò che può trasparire della mia formazione sia l’amore per le ballate acustiche, tipo “Angie” o “Wild Horses” dei Rolling stones e la già citata “Wish you where here”. Ci sono altre cose di matrice straniera  ma dovrei parlare di sottigliezze che sfiorano l’irrilevanza, quindi mi fermerei qui.

 

7. Parlaci del sodalizio col regista Sydney Sibilla e della genesi del brano scelto come title Song del suo film: è stato facile entrare in sintonia col suo lavoro?

 

Il sodalizio con Sydney è nato molto per caso, io ho fatto il mio per procurarmi quest’occasione ma poi la  fortuna ci ha messo decisamente lo zampino. Come ho raccontato in varie altre interviste nasce tutto da me che suono in un locale a Roma e da una ragazza che mi filma e che fa vedere il video a questo giovane regista alle prese con un film da girare. Detto ciò devo dire che è stato facile entrare in sintonia col suo lavoro perché mi ha dato da leggere il copione, quindi una “storia”… siccome io nelle mie canzoni in genere scrivo “storie” la sintonia è venuta fuori spontaneamente. La canzone è stata scritta in un mese.

8. La scrittura, invece, parte sempre da una base esperienziale o riesci anche ad immedesimarti in stati d’animo e contesti che non ti appartengono affatto?

 

L’uno e l’altro. C’è quasi sempre una base, sottolineo, “una base” di esperienza personale ma anche la capacità, o per lo meno il tentativo, di entrare in situazioni e stati d’animo che non mi appartengono. Spesso stravolgo il fattore personale per motivi estetici, magari ciò che ho vissuto io “fedelmente” non è interessante da raccontare quindi aggiungo particolari inventati. Comunque spesso parlo in terza persona proprio per togliermi di mezzo e raccontare una storia che sta li e chi vuole se la ascolta, quasi a dire “io qui non centro nulla”.

9. Sei ad un punto cruciale del tuo percorso nella giungla della scena indipendente italiana. Quanto è stata dura fin qui?

In verità poco… in primo luogo perché faccio una cosa che mi piace, in secondo luogo perché per un motivo o per un altro ho sempre ricevuto rispetto da tutti. Dal pubblico, dai gestori dei locali, dalla mia città (Vibo Valentia) che mi ha sempre spinto in maniera spontanea e gratuita, in barba al principio che non ti vorrebbe mai “profeta in patria”. Ho fatto una canzone per un film prima di fare un disco, ho avuto una candidatura al David, ho trovato un’etichetta…  diciamo che fin qui (e parliamo di meno di tre anni) è andato tutto liscio ed è stato tutto bellissimo, i flop ci sono stati, ma davvero pochi e relativi, la fase difficile in realtà inizia adesso, proprio perchè è una fase cruciale, se fai un errore perdi il doppio dei punti ma se azzecchi la giocata raddoppi. Si sgomita insieme agli altri alla ricerca di attenzione da parte di pubblico e critica. Speriamo bene.

Salvatore Perri

Miriam Caruso

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *