Crotone: Consegnati i Lavori di Manutenzione Idraulica del Canale Griffo e dei Suoi Affluenti

CROTONE – Sono stati consegnati i lavori di manutenzione idraulica del Canale Griffo e dei sui affluenti in agro del Comune di Rocca di Neto. E’ quanto comunica l’assessore provinciale alla Protezione Civile Salvatore Claudio Cosimo. L’intervento prevede, lungo il canale Griffo, la pulizia dalla vegetazione infestante e dagli accumuli limosi/sabbiosi del tratto a monte, denominato “ponte a Canale”, per una lunghezza complessiva di circa 2500 metri. Verrà effettuata la riprofilatura del tratto a monte del ponte della strada provinciale 16 del Torrente Vitravo per una lunghezza di circa 500 mt con la centralizzazione dell’alveo a corda molle.  I materiali movimentati saranno ricollocati all’interno dell’alveo senza nessun asporto di terreno. “Solo un’attenta programmazione dell’uso del territorio -dichiara l’assessore Cosimo- può prevenire o lenire i rischi. Uscire dalla logica dell’emergenza, recuperando una capacità di previsione per mitigare un dissesto idrogeologico ormai considerato all’ordine del giorno in Italia, è la missione che si è data l’Amministrazione provinciale guidata da Stano Zurlo. Il nostro obiettivo-prosegue l’assessore Cosimo- è fare in modo che gli abitanti della  provincia di Crotone vivano in un territorio il più sicuro possibile. In questa direzione -conclude l’assessore Cosimo- stiamo lavorando sin dal nostro insediamento con azioni e fatti concreti”.

Baby Prostituzione: Marziale “Si Sospedano Festeggiamenti per Dichiarazione Onu su Diritti Infanzia”

“L’Osservatorio sui Diritti dei Minori non partecipa quest’anno a nessuna manifestazione celebrativa della Dichiarazione Universale sui Diritti dell’Infanzia, di cui il 20 novembre si commemora il varo, per protestare contro l’inconsistenza delle leggi che dovrebbero preservare i bambini da ogni forma di violenza e garantire i loro aguzzini alle patrie galere senza attenuanti di sorta”: è quanto dichiara il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’organismo, che si dichiara: “Stupito per lo stupore suscitato dallo scandalo delle baby prostitute, quando da anni inchieste e denunce hanno scoperchiato una realtà che non gode di alcun primato nell’agenda politica dei governi, ivi compreso il nostro”.

Per Marziale: “Fanno semplicemente ridere gli indignados dell’ultima ora e coloro i quali pensano di sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi che attanagliano i piccolini a suon di marce e palloncini colorati per finire sui giornali e guadagnare onore e gloria. É ora di finirla con queste principesche stronzate. É tempo di risposte”.

Il presidente dell’Osservatorio incalza: “Si festeggi quando i pedofili saranno in galera senza godere di alcun beneficio e costretti a curarsi. Si festeggi quando davanti alla certezza del reato la magistratura applicherà severamente le sanzioni senza elasticità alcuna e senza patteggiamenti. Si festeggi quando ad ogni bambino sarà riconosciuta la dignità di soggetto di diritto e non di oggetto. Per il momento non c’è proprio nulla da festeggiare”.

“E rivolgo alle istituzioni italiane un appello – conclude il sociologo – affinché l’Italia innalzi la soglia del limite anagrafico del consenso sessuale, perché al momento è vergognosamente prima in classifica a livello europeo con la soglia più bassa insieme alla Spagna”.

Sequestrati Beni per 150 Milioni di Euro Alla ‘Ndrangheta

REGGIO CALABRIA – La Dia di Roma e Reggio Calabria e la Polizia di Stato hanno posto sotto sequestro beni per 150 milioni d’euro.

I beni appartenevano a Giuseppe Mattiani e al figlio Pasquale, ritenuti vicini alla cosca della ‘Ndrangheta dei Gallico.

Durante l’operazione sono stati posti sotto sequestro, tra i tanti beni, un hotel a 4 stelle a Palmi ed un lussuoso hotel a Roma, locato in uno dei  quartieri più esclusivi della capitale.

Consigliati da Otto@Tales: IL MALOCCHIO di Svevo

Proseguono le proposte di lettura dalla nostra rubrica. Oggi, come già avevamo promesso, suggeriamo un racconto di Italo Svevo, l’incompiuto Il malocchio.
Il racconto affronta un tema simile a
Soffio di Pirandello, ma attraverso un approccio diverso, e concentrandosi su un protagonista che ricorda in molti tratti l’inetto “classico”, di cui tanto si parla riguardo i romanzi di Svevo. Siamo in un campo simile e allo stesso tempo diverso rispetto al testo di Pirandello. Ma del confronto tra i due testi parleremo più diffusamente in futuro.
Svevo non è estraneo alla tematica fantastica. Oltre a questo testo, si possono citare quantomeno
Lo specifico del dottor Menghi e l’interessantissimo Argo e il suo padrone, una sorta di diario “canino” che ricorda tanto le Indagini di un cane di un certo Kafka.
Ad ogni modo, ora concedetevi questo pezzo di letteratura fantastica, che nonostante l’incompiutezza rappresenta un ottimo saggio della scrittura di Svevo, e della sua capacità di destreggiarsi in contesti diversi e “strani”. Buona lettura.

 

Molti quando si trovano fra’ dieci e i quindici anni sognano una carriera grande, persino quella di Napoleone. Non era quindi strano che a 12 anni Vincenzo Albagi pensò che se Napoleone a 30 anni era stato proclamato imperatore egli avrebbe potuto esserlo qualche anno prima. Strano era invece che quell’istante di sogno fu ricordato da lui per tutta la vita. Nessuno lo sospettò perché egli non era altro che un buon ragazzo non stupido che faceva molto attentamente il proprio dovere di scolaro del Liceo e del Ginnasio. Era l’orgoglio dei suoi insegnanti per la sua bravura e anche (oh! quale occhio di lince non hanno gl’insegnanti) per la sua modestia. A casa sua egli accettava la piccola vita modesta di provincia che gli era imposta e sopportava sorridendo e commiserando l’orgoglio del padre che riteneva se stesso il Napoleone dei commercianti di vino d’Italia. Il vecchio Gerardo che in gioventù aveva lavorato con le proprie mani i campi era un uomo soddisfatto e benevolo. Egli aveva capito a un dato punto che era meglio comperare e vendere il prodotto altrui che aspettare il proprio. Era stato un grande sforzo della sua piccola mente e una buona volta riuscito Gerardo ne visse bene fisicamente e benissimo moralmente. La moglie che si vedeva concessa la domestica, due o tre vestiti all’anno ed una tavola ricca lo adorava e lo ammirava. Gerardo faceva del bene a molti e non domandava neppure riconoscenza. Camminava la via un po’ troppo pettoruto ma molti lo amavano, pochi dal suo orgoglio mite di negoziante di vino fortunato si sentivano lesi. C’era a questo mondo del posto per tanti altri orgogli altrettanto legittimi! Spesso Gerardo con un sincero accento d’ammirazione riconosceva i meriti altrui. Diceva al lustrino che stazionava davanti alla sua casa: «Tu sei il migliore lustrascarpe di questo mondo!». Alla cuoca: «Nessuno sa preparare il baccalà pannato come te!». Alla moglie: «Io so far denari e tu sai risparmiarli!». Ecco che molti erano soddisfatti di quella felicità di Gerardo.
Vincenzo invece era assorto nella contemplazione della propria grandezza futura. Il padre aveva avuta una sola buona idea ma egli doveva a quel padre e a quell’idea la felicità della propria vita. Se quel padre non avesse avuto quell’idea ecco che Vincenzo sarebbe stato attaccato da lungo tempo all’aratro accanto a qualche altro asino. Ma egli era tediato da quel piccolo orgoglio che gli sembrava strano, spropositato. Il padre troppo spesso parlava della fiducia che in lui riponevano altri negozianti o consumatori di vino. «Quando il vino passa per le mie mani aumenta di sapore e di valore». Per le mani pulite di Vincenzo invece non passava niente e per la sua testa la propria immagine convertita in quella di un grande ammirevole condottiero. Ora mentre Vincenzo per l’orgoglio del padre non aveva che un sorriso distratto e stanco, il vecchio invece si compiaceva dell’orgoglio del figliuolo altrettanto legittimo quanto quello di un buon lustrascarpe: Vincenzo era un buon scolaro. Passava trionfante traverso tutte le classi. «Io faccio denari » diceva il buon vecchio «e tu farai sicuramente qualche cosa d’altro».
I fastidi cominciarono quando Vincenzo abbandonò la scuola. Intanto volle entrare in un’accademia militare. Era la via più breve per sbalzare il re dal trono e mettersi al suo posto. Curioso come il re era lontano anche dall’Accademia Militare. Vincenzo aveva da fare con tenenti e sottotenenti i quali in complesso per molto tempo lo amarono e stimarono come avevano fatto i professori del Liceo. Poi un bel giorno Vincenzo perdette la pazienza. La lotta per la vita incombeva. Non si trattava più di apprendere, ma bisognava presto divenire. Un bel giorno perdette di rispetto nel modo più grossolano ad un tenente. Fu rinchiuso, minacciato delle più gravi punizioni e fu felice quando con l’aiuto del padre che da furbo vinaio quale era lo dichiarò mentecatto dalla gioventù in su, poté ritrovarsi a casa propria sano e salvo e spoglio della montura militare.
Vincenzo fece anche per qualche mese il mentecatto. I due provinciali temevano che l’autorità militare li sorvegliasse per riassumere il processo contro di Vincenzo se questi fosse risultato meno mentecatto. E come Vin- cenzo ricordava il suo primo sogno per cui s’era sentito chiamato a divenire un Napoleone così ricordò la impressione quasi gioconda con la quale accettava di apparire più stupido che fosse possibile. Si diceva: “Guarda che caso! Essere destinato a quello e dover fingere di essere questo!”.
A chi conosce la natura umana comune non sembrerà affatto strano che passati quel paio d’anni all’Accademia Militare chiusi con quel calcio che lo rimandò a casa sua Vincenzo non fece alcun serio tentativo per conquistare l’ambita posizione di un Napoleone. Restò a casa sua dopo un breve soggiorno in una università per il quale si convinse che gli studii non erano fatti per lui. Era vecchio oramai in confronto ai suoi compagni. Il disdegno ch’egli sentiva per tutti gli uomini diveniva grandissimo per quelli che erano più giovini di lui e gli ripugnava di vivere da eguale accanto a delle persone che realmente avrebbero dovuto essergli sottomesse. Ritornò a casa sua e il vecchio padre che non desiderava di meglio che di tenerselo accanto lo ricevette a braccia aperte. «Io t’insegnerò il mio commercio di vini che, avviato com’è, ti darà poca fatica». Per fortuna Vincenzo quella volta non tenne dentro di sé il rancore che andava accumulandoglisi nel petto ma lo sfogò. Non voleva scansare le fatiche anzi le ricercava. Voleva anzi le grandi, le eroiche fatiche ma per un uomo che aveva studiato come lui e ch’era
lui il commercio in vini era disdicevole.
Poi ebbe una grande, lunga pace perché Gerardo era un uomo che facilmente si lasciava imporre eppoi da uomo pratico non accettava altre seccature fuori di quelle che gli risultavano dal suo vino.
Lesse molto in quel tempo Vincenzo. Volumi e volumi. Molti dedicandosi alla lettura acquistano scienza, altri vi acquista buon sangue; Vincenzo invece vi trovava motivi a rancore. Lesse varie lunghe storie del Consolato e dell’Impero e restava meravigliato come un tale grande uomo avesse potuto commettere tanti errori. Leggeva anche i giornali e ogni numero confermava nel suo animo la convinzione che tutte le persone di cui vi si parlava erano indegne o deboli.
Vincenzo aveva cura del proprio aspetto; portava dei grandi mustacchi bruni cui dedicava molta cura ed in complesso nulla lo distingueva dal comune, dal comunissimo degli uomini fuorché una certa sua aria fatale che gli si appioppò sulla faccia come una maschera. Certo è che quando gli altri si entusiasmavano egli subito si ritirava leso nel proprio orgoglio. Aveva un gesto curioso allora. Metteva la mano sulla bocca come per celare uno sbadiglio ed il suo occhio diventava torvo, torvo. Le palpebre si contraevano come per coprire quell’occhio che però restava aperto tanto da lasciarvi entrare le immagini e uscirne una piccola fiamma gialla in direzione dei corpi che quell’immagine avevano prodotta. Era arrivato ad un’epoca in cui aveva spesso moti- vo di sbadigliare. Guardò con uno sbadiglio da sgangherarsi le mascelle dietro ai primi velivoli a cui rimproverava la poca stabilità. Osservazione giustissima cui seguiva subito nel suo grande animo la speranza di scoprire lui il mezzo per renderli più sicuri. I dirigibili lo affievolirono fino a dormire in piedi ma contrassero il suo occhio tanto che traverso la fessura che le palpebre lasciavano non si vedeva che il bianco coperto dalla solita luce gialla. Poi venne il premio Nobel che a lui non capitò giammai. E in fondo gli pareva un’epoca ipocrita la nostra col suo aspetto di non domandare altro che dei grandi condottieri ed in realtà evitandoli e soffocandoli.
Con tutto ciò Vincenzo nel piccolo àmbito della sua città natale era un uomo fortunato e perciò invidiato. Tutti gli dicevano ch’era nato con la camicia ed egli non lo credeva e si sentiva pieno di rancore perché gli pareva che gli parlassero così per indurlo a credere di avere più di quanto meritasse. Egli aveva tutti i denari che potesse desiderare; i genitori non domandavano altro che di dargliene. A lui non importava. Una bella e ricca giovinetta restò ammaliata dal suo occhio bruno nel quale brillavano dei riflessi gialli ed egli consentì di farla sua. Non gl’importava tanto dell’amore ma pure si sentiva bene di tenersi accanto una persona tanto ragionevole da adorarlo. Aveva tutto il tempo vuoto tanto di doveri che poteva rimpinzarlo dei suoi sogni di imperatore. Ma gli pareva che ciò gli spettasse.
La madre che anch’essa aspettava pazientemente che da tanta larva uscisse l’utile animale atteso lo spinse a prender parte alla vita politica locale. L’ambiente era piccolo, ma si poteva sperare di riuscire ad un ambiente un po’ più grande, cioè Roma… e di là… E i sogni s’animavano da quell’intenzione di fare il primo passo. E lo fece il primo passo con manifestazioni altezzose e sdegnose contro l’amministrazione locale. Fu interrotto da uno scappellotto. Ma quale scappellotto! Una mano grossa e potente aveva addirittura abbracciato una parte della sua testa tanto compassata e vi era piombata con tale veemenza che il collo cedette e non bastò per attutire il colpo. Anche le gambe cedettero e non bastò neppure, tanto che Vincenzo finì proprio col naso per terra. Lo rialzò subito e guardò il suo avversario. Egli non capiva nulla fuori che gli era stato fatto un torto enorme. Quel barbaro, in confronto suo nient’altro che un verme, aveva osato tanto! Egli lo guardò solo apparentemente inerme perché il suo odio andò ad alimentare la fiamma gialla che gli guizzava nell’occhio. Così nacque il suo malocchio. Vi contribuì il suo volere di bestia abbattuta, il suo desiderio di vendetta proporzionato al danno enorme che gli era stato fatto: Un ulteriore ritardo nella sua ascensione. Si rialzò e fu l’altro che gli rilasciò per primo il suo biglietto. A Vincenzo parve una irrisione e guardò, guardò! La guancia gli si era enfiata e un occhio divenuto piccolo s’ostinava a non chiudersi.
Prima che s’arrivasse al duello il suo avversario ammalò per una puntura d’insetto e pochi giorni appresso morì.
Vincenzo veramente non aveva la più lontana idea di averlo ucciso lui. Sapeva darsi l’aria di rimpiangerlo e senza grande fatica. Vincenzo non era un cattivo uomo e per creare quel suo malocchio cui il suo destino d’inerte ambizioso aveva create le premesse era bensì occorso il suo volere il suo malanimo. Ma questo malanimo c’è in tutti coloro che ricevono un ceffone, solo che negli altri esso si manifesta con altrettanti ceffoni e pugni. Al povero Vincenzo invece esso creò l’unica arme ch’egli sapesse maneggiare. Un’arme che doveva ferire tanti e anche lui stesso.
Poco dopo sposò la fanciulla che lo amava. A lui parve di sacrificarsi da quel buon figliuolo che era per far piacere a suo padre, a sua madre e alla stessa fanciulla che lo voleva. Già, non volendo bene, il matrimonio non è poi quell’impedimento ad alte imprese come generalmente si crede.
E fu nei primi mesi del suo matrimonio ch’egli sospettò quale potenza infernale fosse insita nel suo occhio. Camminava solo per i campi poco fuori della piccola cittadina in cui si riteneva esiliato. Voleva essere solo per ritrovarsi. L’affetto della giovine sposa lo tediava. Aveva bisogno di essere solo. In tasca teneva l’ultimo volume del Thiers nel quale Vincenzo si compiace- va di leggere come il Titano aveva accumulato errori su errori che ora lo schiacciavano. Titano cieco! Aveva visto funzionare un modello di ferrovia e non aveva capito il partito che avrebbe potuto trarne per signoreggiare il mondo!
In quella vide una grande folla uscire dalla cittadina facendo uno schiamazzo di gente entusiasmata. Gli uomini avevano levato il cappello e lo agitavano salutando verso l’alto; le donne agitavano dei fazzoletti. Anche Vincenzo guardò in alto. A qualche centinaio di metri d’altezza e contro vento camminava un dirigibile. Nel sole meridiano brillava come un enorme fuso di metallo. Gli scoppi regolari del suo motore riempivano l’aria. Era l’evidenza stessa di una grande vittoria e Vincenzo guardava, guardava e pensava ai difetti di quell’ordigno, in primo luogo vedeva il pericolo di quell’enorme quantità di gas accensibile che lo sosteneva. La folla applaudiva e in alto si videro alcune piccole figure minuscole sporgersi dalla navicella e rispondere ai saluti che venivano loro dai campi e anche dalle colline più lontane. “Credono di trionfare!” pensò Vincenzo torcendo la bocca dal disgusto. E fu allora ch’egli s’accorse che dal suo occhio era partito qualche cosa che poteva somigliare a un dardo che abbandona l’arco teso. Questa partenza egli la sentì chiaramente. Si passò le mani sugli occhi per proteggerli, gli era parso che il suo organo fosse stato ferito da oggetti pervenuti dall’esterno. Presto non poté più aver dubbi. Lassù ed in immediata corrispondenza alla sensazione da lui provata si produsse un fenomeno ben altrimenti importante. Una fiammata enorme avvolse il sigaro volante e la navicella di sotto. Poi più tardi si sentì lo scoppio immane e le urla della folla terrorizzata. In aria non restò che una forma di nebulosa che continuava a salire, in giù venne a precipizio la navicella che subito si vide ingrandire carica del motore e degli aeronauti. E quando questa raggiunse il suolo si sentì lo schianto. Il primo istinto di Vincenzo lo avrebbe portato sul luogo del disastro ch’egli non aveva voluto; poi si fermò perché sapeva di averlo provocato e temeva che altri avrebbe indovinato la realtà della sua coscienza. Corse a sua moglie che, prossima al parto, era rimasta in casa. Le raccontò dello spettacolo terrificante cui aveva assistito ma raccontandolo spesso s’interruppe confuso, mutando di colore. La sua agitazione che gli chiudeva la gola non era prodotta dal compianto per le povere vittime come la moglie credeva; egli vedeva se stesso, perverso e malvagio. Aveva dapprima cercato di dare un’idea alla moglie della sua ammirazione alla vista del portento. Ma subito la sua lingua più sincera del suo proposito parlò delle imperfezioni di quella macchina. Ad onta del disastro già avvenuto e del compianto sincero ch’egli sentiva per le povere vittime, al descrivere la magnifica vittoria umana sentiva rinascere tutto il suo rancore e capiva che se il disastro non fosse già avvenuto il suo occhio avreb- be scattato di nuovo. Finì che non sopportando la visione così esatta della propria malvagità, interruppe il racconto e si gettò singhiozzando sul letto premendo i suoi terribili occhi con le mani. La moglie piena di compassione per tanto nobile dolore lo assistette amorevolmente. Poi, tutto fu da lui negato a se stesso e poi facilmente dimenticato. Era stata una sua immaginazione. Se avesse voluto farlo credere ad altri non ci sarebbe riuscito. Perché avrebbe avuto da crederci lui? Lui che sapeva di essere stato sempre tanto buono da quella persona superiore ch’egli realmente era? Scacciò da sé il brutto sogno e ritornò ad immaginarsi portato al trono che lo attendeva. E quando parlava del disastro cui aveva assistito trovava le più nobili parole di rimpianto. Evitava però di dire ch’egli aveva prevista la sventura data l’imperfezione della macchina. E una volta che se ne parlò in presenza della moglie e che costei per ammirarlo meglio volle far sapere a tutti ch’egli aveva capito che una macchina fatta così non poteva reggersi egli negò e si schermì. Tutti oramai sapevano che al mondo c’erano tanti dirigibili che volavano sicuri. Il problema per macchine tanto delicate era di star lontane da influenze malevoli.
Ma poche settimane dopo l’occhio di Vincenzo scattò di nuovo e andò a colpire la persona ch’egli aveva creduto di amare più di tutti a questo mondo. Sua madre era una donna ambiziosa e avrebbe voluto spingerlo di nuovo nelle competizioni locali. Il paese era sossopra per le vicine elezioni politiche ed essa avrebbe voluto ch’egli cedesse al desiderio di varii amici e candidasse. Vincenzo non ne voleva sapere e per la fiducia che aveva nell’affetto della madre le lasciò capire ch’egli si considerava troppo alto per degnarsi di lottare in un simile misero ambiente. Essa naturalmente prima aveva creduto che le cose stessero proprio così e per lunghi anni aveva atteso di vedere il suo lioncello lanciarsi alla conquista del mondo. Poi aveva capito che il mondo era troppo vasto per lui e quando aveva visto come al primo scontro Vincenzo s’era ritirato nel suo guscio da vigliacco a continuare i suoi beati ozii, il suo giudizio su Vincenzo fu fatto. E cominciò col parlarne col marito che, occupato com’era, non aveva tempo di occuparsi di quello che avveniva intorno a lui: «Sa tanto e non ha voglia di far nulla; come finirà?». Poi ne parlò alla nuora: «Perché permetti che tuo marito passi le giornate senza far nulla? Non vedi che cominci a metter dei figliuoli al mondo e lui non se ne dà per inteso?». Gerardo alle parole della moglie aveva dato piccolo peso e presto s’era ribaltato in letto dall’altra parte per mettersi a russare. La moglie amante invece si ribellò: Vincenzo era un uomo che pensava e studiava e non aveva bisogno che nessuno lo sferzasse per farlo lavorare. Ai denari ci aveva pensato a sufficienza il padre e sarebbe stata una vigliaccheria di voler accumularne degli altri. Ora Vincenzo pensava e studiava.
La madre che aveva dedicata tutta la vita a quel figliuolo si sentì ferita al trovare qualcuno che voleva difenderlo contro di lei e divenne violenta. Fu sventura che capitasse allora Vincenzo, ciò che eccitò vieppiù la vecchia donna che si trovava davanti all’odiosa coalizione del figlio e della nuora. E allora essa disse i peggiori giudizii sul figlio. Voleva ferire e lo poteva facilmente perché era la sola cui fino dall’infanzia Vincenzo avesse rivelato l’intimo desiderio: «Continua, continua a studiare la vita di Napoleone. Così quando t’imbatterai in qualcuno che lo somigli, potrai ottenere da lui il permesso d’allacciargli le scarpe». Nell’ira essa manifestava l’intimo disprezzo per il vanesio ch’essa tanto intimamente conosceva e che in altri istanti, pur sempre vedendolo fatto così, avrebbe saputo compatire e consolare.
Vincenzo si sentiva soffocare dalla sorpresa e dall’ira. Nessuno aveva mai osato parlare in tale modo con lui. E in presenza di sua moglie! Cercò parole e non le trovò! Come trovarle? Egli non poteva mica dichiarare di sentirsi capace di somigliare a Napoleone! La sua stessa inerzia gli aveva sempre impedita la vanteria! La sua morbida ambizione trapelava da qualche pertugio, dai piccoli occhi ma non dalla grande bocca! Negare la sua ambizione a colei cui l’aveva rivelata lui stesso tante volte a bassa voce in una stanzuccia della casa paterna ove prima di coricarsi avevano sognato insieme, era cosa impossibile. Perciò e solo perciò nell’organismo tutto inerte s’accese l’occhio.
La madre se ne andò e i due coniugi restati soli piansero insieme, lei incantata di aver finalmente saputo il suo secreto: «Ah! Lo avevo indovinato da tempo! Tu mediti qualche cosa di grande!». Lui incantato che non appena aveva perduto la fede della madre aveva trovata quella di chi voleva rimpiazzarla si quietò subito.
Egli aveva sentito scattare il suo occhio ma non ci credeva più. Eppoi la madre se ne era andata erta e irata, tutta salute, non come il dirigibile che subito in seguito alla sua occhiata era rimasto infranto. Egli non pensava che il corpo umano è fatto altrimenti e che non contiene un gas accensibile. Il dardo vi produce una lieve fenditura e attraverso a quella viene attaccato il grande complesso organismo. Ci vuole qualche tempo per raggiungere la sua distruzione. “Domanderò scusa a mia madre” pensò Vincenzo che le carezze della moglie avevano rifatto buono.
Non poté mai più parlare con lei. Poche ore dopo la vecchia era stata trovata priva di sensi al suolo. Quando Vincenzo la rivide, la trovò che l’avevano già coricata; supina, immobile pareva presa da un sonno pesante dal respiro regolare ma rumoroso. Il padre gli raccontò che l’aveva vista al ritorno dalla visita alla nuora. A lui era sembrato che stesse bene. Quand’era ritornato l’aveva trovata giacente sul tappeto, proprio così come ora gia- ceva in letto e con lo stesso respiro forte e regolare. Solo la testa giaceva peggio, un po’ tendente verso la spalla. «Che abbia preso qualche sonnifero?» domandava il vecchio inquieto. Vincenzo subito – più colto – intravvide la verità e subito anche ricordò il proprio sguardo micidiale. Non volle ammetterlo! La madre doveva essere ubriaca. Non lo rivelava quel sonno calmo e plumbeo? Fu ipocrita con se stesso e con gli altri. E domandò al padre se a lui constasse che la vecchia signora fosse usa al vino. E quando il padre gli rispose ch’essa era stata sempre la sobrietà in persona, non ancora Vincenzo si rassegnò ad abbandonare la sua idea: «Tanto più effetto le avrà fatto il liquore che probabilmente avrà preso».
Ma il dottore venuto poco dopo gli tolse ogni dubbio: Trattavasi di una paralisi. Ancora Vincenzo non volle credere: Una paralisi? Con quel sonno dal respiro regolare, con quella cera… ch’era quasi la solita di sua madre. E rise, rise di un riso stridulo, voluto. Il dottore ch’era giovine non s’offese. Capiva di trovarsi di fronte ad un grande dolore e fu mite. Confermò il proprio giudizio ma aggiunse subito ch’era una malattia di cui spesso si guariva per un riassorbimento lento lentissimo. Il tempo guariva tante cose; soltanto bisognava avere il tempo. E se ne andò con questa frase sibillina che doveva scaricarlo della responsabilità che assumeva con quella promessa di guarigione.
Nella mente di Vincenzo questa frase lentamente maturò. Dapprima corse al letto della madre a sorvegliare che fossero eseguite le prescrizioni invero blandissime del dottore. Ma quando tutti meno lui sentirono il bisogno di riposo ed egli si trovò solo dinanzi al letto della madre, egli seppe ch’essa era moribonda per la ferita ch’egli le aveva fatta. Guardava con occhio supplichevole il povero corpo abbattuto. Gli pareva che il suo occhio ridivenuto buono avrebbe potuto guarire il male ch’esso stesso aveva prodotto. Poi s’inginocchiò davanti al letto e pregò come dinanzi ad una divinità e pianse.
Verso il mattino il respiro della madre si fece un po’ più rumoroso. Qualche respirazione era omessa e una pausa era al suo posto; poi riprendeva ma la ripresa era un po’ faticosa. Il mutamento era bene o male? Non poteva essere prossimo il risveglio?
Il dottore ritornò e trovò – com’egli disse – un lieve peggioramento. Gli pareva d’aver usato abbastanza riguardia quel grande figliuolo e fosse venuta l’ora di parlare chiaro. La malattia in sé era tanto grave che diventava mortale per essersi aggravata di poco dalla sera innanzi. Ma il grande figliuolo divenne addirittura pazzo dalla disperazione e il dottore disse che non aveva mai visto qualche cosa di simile. Si strappava i capelli, si gettava per terra con un urlo ininterrotto: «Oh! povero me! povero me!». Parlandone poi con altri clienti il dottore diceva: «Curioso! La madre gli moriva e tutta la compassione di cui egli si sentiva capace, la riversava su di sé!». Nella disperazione egli accusava se stesso di una grave colpa. Ma per fortuna nessuno gli credeva.
La madre morì e fu portata via. Vincenzo parve più tranquillo. Aveva passato la giornata a guardare il cadavere della madre. Sentiva tale desiderio di rivederla viva che sperava che il suo occhio, quello stesso che le aveva dato la morte, la facesse rinascere. Cessò dallo sforzo quando la vide chiusa nella bara. Sarebbe stato terribile se ora fosse ritornata in sé.
Presto cessò anche d’accusarsi del grande delitto. Gerardo che oramai cominciava ad accorgersi della gravità della sventura che lo aveva colpito dava segno di cominciare a crederci. Aveva saputo del litigio violento avvenuto fra madre e figlio e riteneva che la congestione cerebrale di cui la vecchia era morta fosse derivata dall’eccitazione risultatale dalla disputa col figlio il quale perciò – credeva Gerardo – se ne accusasse colpevole. Vincenzo che non sapeva sopportare l’avvilimento di un’accusa simile cominciò a scolparsi. E così coperse di nuovo la sua coscienza di un denso strato sotto il quale essa si quietò ingannando tutti. Eppoi il suo occhio aveva commesso già il peggiore delitto; tutto il resto del mondo poteva oramai essere ferito da lui senza rimorso. Continuava a studiare la storia di Napoleone e sapeva che non era l’amore che a quello studio lo legava; era l’invidia e l’odio. Egli sapeva bene come fosse fatta quella speciale vita del suo occhio. Napoleone la attivava in modo straordinario. Per fortuna l’Imperatore giaceva tranquillo agli Invalidi al sicuro dai dardi di Vincenzo.
E l’unico dolore che oramai gli risultasse dalla sua strana malattia era un certo disprezzo per se stesso. Egli sapeva che tutte le cose alte di questo mondo venivano da lui abbattute; per pacificare la sua anima egli si diceva ch’egli avrebbe voluto compiere lui stesso delle cose eccelse e che essendogli stato impedito questo dal suo destino la sua grandezza s’era mutata in una potenza infernale. E il fatto che tale potenza veramente non dipendeva dal suo arbitrio non diminuiva quel disprezzo. Infatti non dipendeva da tale arbitrio. Egli guardò con occhio che volle malevolo un cane che lo assaltò; il cane poté morderlo e andarsene a vivere poi benissimo e in ottima salute. Occorreva ch’egli fosse toccato su certi punti del suo organismo morale perché l’occhio scattasse. I velivoli e i dirigibili che passavano per la sua città natale cadevano tutti. Vincenzo provava di frenare l’attività del suo occhio e guardava in alto forzandosi di pensare alle mogli e alle madri di quegli eroi per costringersi a benevolenza. Ma poi vedeva tali mogli e tali madri come aspettavano per portare in trionfo al loro ritorno i loro cari. E allora il proprio destino oscuro risorgeva nel suo ricordo e l’occhio subito diventava micidiale. Dunque non dipendeva dal suo arbitrio l’attività di quell’occhio ma era certo che la dirigeva il suo animo intimo un suo “io” che a lui pareva distante da sé. Perciò nelle notti insonni cui talvolta era condannato egli si diceva: “Io sono innocente!”. E guardava intensamente nell’oscurità per vedere meglio e più esattamente l’immagine della propria innocenza. Non la trovava in natura tale immagine! Era lui come il serpe cui il veleno cresceva nel dente senza che l’animale ne sapesse? No! Il serpe poi mordeva mentre lui guardava; la cosa era ben differente! La sua miseria intima non fu sospettata neppure dalla donna che gli dormiva accanto.
La quale fu anch’essa vittima di quell’occhio. Come aveva lui potuto ferire quella povera donna di cui tutta la vita non era altro che amore per lui? Essa aveva dato alla luce dopo sofferenze intense durate lunghe ore un bambino! Esausta guardò il marito aspettandosi le sue espressioni di riconoscenza. Egli non ebbe per lei che il solito aspetto di compatimento. Trovava vana e inutile tutta quella sofferenza. Ed essa per spiegare meglio quello ch’essa voleva, tradì l’animo suo: «Vedi! Così tu diventi importante come desideri! Io popolerò la tua casa di figliuoli che, forse, in avvenire, diverranno qualche cosa!». Il giorno appresso le si manifestò la febbre che in pochi giorni la trasse alla tomba.
La povera coscienza di Vincenzo era ancora agitata da tale delitto che l’altro suo “io” aveva commesso quando per la piccola cittadina corse voce che vi si era stabilito un vecchio celebre oculista. In poco tempo aveva fatto miracoli nella piccola città. Aveva ridata la vista ad un vecchio che aveva perduta la luce 30 anni prima. Vincenzo guardava nello specchio i suoi occhi neri e foschi: “Se tutto il male stesse lì?”. E, a dire il vero, andando dall’oculista a lui parve di fare un atto eroico: In complesso egli sacrificava una potenza che c’era nel suo corpo e la sacrificava senza domandare alcun compenso: Lo faceva per puro altruismo.
Vincenzo fu ricevuto dal vecchio dottore che gli domandò di che cosa soffrisse. Un subitaneo pudore impedì a Vincenzo di dire lo scopo della sua visita per quanto l’aspetto del dottore, un vecchio forte e barbuto dall’aspetto benevolo gl’ispirasse fiducia. Poi pensò che se il dottore sapeva guarire il malocchio lo avrebbe certo diagnosticato da sé e disse: «A me dolgono gli occhi quando guardo in alto!». «Soltanto quando guardate in alto?» domandò il dottore con un tono di voce che a Vincenzo parve ironico.
Il dottore fece sedere Vincenzo in un ampio seggiolone e lo obbligò di poggiare la testa sullo schienale. Con alcune lampadine elettriche gli illuminò l’occhio fino alla radice. Per lungo tempo guardò in quelle due piccole caverne, sede di tanta malignità, e pareva interdetto di trovare quell’occhio costruito dalla salute stessa. Poi vide e indovinò. Fu serio, accigliato, nient’affatto ironico: «Io non so guarire la vostra malattia. Io guarisco soltanto buoni occhi candidi, lagrimanti, lesi dall’infezione o feriti da altri corpi. Ma voi avete l’occhio cioè il malocchio perfetto. Sapete vedere e sapete anche ferire. Che volete di più?».
Vincenzo con isforzo mormorò: «Ma io vorrei che voi faceste in modo che il mio occhio non fosse più un malocchio. Io sono un uomo buono e non vorrei fare dell’altro male ai miei simili».
Il dottore prima di rispondere andò a prendere un oggetto che strinse fortemente in mano per essere protetto dall’occhio di Vincenzo poi parlò senza paura: «Voi non potete essere buono dal momento che avete sotto le ciglia quei due ordigni! Voi siete un piccolo invidioso e vi fabbricaste l’arme che faceva al caso vostro». L’occhio di Vincenzo scattò ma questa volta non servì a nulla perché il dottore s’era premunito. E il dottore sorrise: «Avete visto come ho potuto scaricare la vostra arme? Basta sapervi toccare in un dato punto e voi ferite! Andatevene che mi fa male vedervi».
Vincenzo volle difendersi: «Ma se sono qui pronto di sottostare a qualsiasi cura che voi aveste da impormi? Non vuol dire ciò che io non volli l’occhio che ho?».
Il dottore disse allora: «Se siete tanto buono come dite sedete su questa seggiola e permettetemi di strapparvi i due occhi malvagi». Vincenzo al sentire la proposta non stette ad ascoltare altro e si mise a correre. Fece le scale a quattro a quattro seguito dal riso ironico del dottore.
Poco dopo morì il padre di Vincenzo e quello lì proprio di morte naturale. Al suo funerale Vincenzo era sereno; egli non c’entrava per nulla in quella morte.
Seguì una settimana di una certa attività per Vincenzo. Volle disfarsi subito del commercio in vini. Così si ritrovò di nuovo privo di occupazione. A casa attendeva al bambino una donna di piena fiducia.
E così passarono degli anni. Una sera d’estate Vincenzo in attesa del pranzo sbadigliava sulla terrazza della propria villa. E la propria noia egli ammirava. “Altri si troverebbe bene di non far nulla! Io invece ne soffro!”. Anche del suo malocchio aveva trovato il modo di compiacersi e di vantarsi: “Molte grandi forze sono in natura che possono essere benefiche, e lasciate a sé producono delle calamità”. Forse avrebbe usato più spesso del suo malocchio se questo fosse stato realmente a sua disposizione e se non avesse avuto paura di essere scoperto.
Qualcuno o qualche cosa s’era arrampicato sulla sua seggiola. Era il suo bambino che oramai aveva sei anni. Si volse con malvolere e il bambino fuggì. La paura del piccolo Gerardo lo fece sorridere. Era grassoccio, bianco e biondo come la sua defunta madre. Vestito di una maglia azzurra e di brevi calzoncini che gli lasciavano le ginocchia nude, già troppo grande per quel costume dava l’idea di una grande robustezza. Vincenzo nella piccola cittadina passava per essere un buon padre. Il bambino aveva avute tutte le comodità che a quell’età si possono avere, giocattoli in quantità ed anche l’affetto di cui abbisognava perché la donna cui era stato affidato quella sì era veramente buona e dolce e gli teneva luogo di madre. Anche il bambino credeva di avere un padre molto buono, anzi – così gli era stato insegnato – il papà era il rappresentante della bontà sulla terra e quando gli si domandava: «Chi è buono?», rispondeva: «Papà».
Vincenzo richiamò il fanciullo. Con lui venne la sua tutrice che un po’ spaventata dall’avvenimento insolito, si fermò alla porta della terrazza. Il fanciullo non aveva paura. Si mise dinanzi a Vincenzo e si poggiò con le braccia sul suo grembo. Vincenzo gli sorrise e l’accarezzò. Poi pensò a quello che avrebbe potuto dirgli. Avrebbe potuto dirgli qualche cosa di grazioso, grazioso quanto 

 

Quando l’eleganza non va mai fuori moda: Adele

Dal momento che l’eleganza non conosce retroscena o il termine fuori moda, passiamo in rassegna il make up  style della famosa cantante britannica Adele.  Il suo look, con occhi alla pin up e labbra nude, la fece approdare sulla copertina di testate internazionali prestigiose come  Cosmopolitan, RollingStone e  Vogue.  

Make up elegante, sinuoso, estremamente femminile e sexy, che enfatizza lo sguardo, facendo risaltare il colore chiaro dei suoi occhi. Eyeliner spesso e marcato. Giochi di sfumature molto leggere, create semplicemente per enfatizzare la piega dell’occhio e darle maggiore profondità. Talvolta sulla palpebra inferiore viene applicata una linea di eyeliner color argento o dorata, sempre con molta parsimonia, dal momento che il fulcro del trucco resta la possente linea di eyeliner nero. Il  look viene quasi sempre completato con delle ciglia finte. 

Questa versione occhi molto spesso è abbinata a labbra assolutamente nude e bronzers che scolpiscono gli zigomi e snelliscono l’ovale del viso.

Oltre alla variante pin up originale, con labbra rosse e corpose, rigorosamente matt, la cantante spesso ha sfoggiato qualche trend retrò stile anni 60-70: occhio sempre delineato e marcato dall’eyeliner nero e piega dell’occhio enfatizzata con colori più intensi, dal marrone scuro al nero, rigorosamente metallici oppure opachi. Anche in questo caso le labbra restano naturali o ravvivate con dei gloss color pesca-albicocca.

Nella maggior parte dei casi anche le acconciature fanno pendant con questo look  vintage: capelli sciolti e cotonati, volumizzati alla radice, morbidi e “boccolosi” verso le punte.  

In alcune apparizioni ha sfoggiato qualche smokey eye molto intenso, realizzato con colori molto caldi e tendenti al bronzo scuro, anche in questo caso portava ciglia finte e il “must have”: eyeliner nero, tratto inconfondibile e allo stesso tempo immancabile sul suo volto.

Style molto impegnativo, specialmente se si considera la giovanissima età della cantante britannica, ma che nonostante tutto ha contribuito a renderla popolare e apprezzata da molte youTubers famose, le quali  quando Adele appariva su ogni copertina, cominciarono a realizzare numerosi tutorial sul web per riprodurre questo sofisticato e timeless make up. Portabile di giorno, specialmente la versione con  labbra nude e possente linea di eyeliner che delimita e dona enfasi allo sguardo, ma anche in occasioni più particolari, formali e di svago. Look per ragazze e donne raffinate, attente ai dettagli, alle minime sfumature impercettibili e capaci di sapersi valorizzare.

Alessandra Pappaterra 

 

 

CRITICANDO: Il perché dell’emotivo

Uno dei problemi più attuali, riguardo la letteratura, non è tanto il “come” quanto il “perché”.
Sempre più spesso, infatti, si riconosce nella produzione editoriale contemporanea la tendenza al “romanzo di sé”, allo scritto autobiografico, all’esperienza trasfigurata in appassionante avventura dei sentimenti.
Lungi da ogni intento di questo scritto il sindacare sull’importanza dell’esperienza individuale, e anche di sindacare sulla necessità di esprimere l’esperienza in sé; ma – e questo va chiesto tanto a editori quanto a lettori – c’è davvero necessità di piazzare l’esperienza su un libro, e poi di venderlo? Perché il bisogno di diffondere, e soprattutto di vendere, un racconto della propria storia – per quanto velato, romanzato, restaurato?
La verità – e non vale soltanto nel campo editoriale – è che non tutte le esperienze hanno lo stesso valore, non tutte le produzioni artistiche o pseudo-tali hanno bisogno di essere diffuse e fruite e, semplicemente, non ogni cosa che è stata scritta e sofferta ha davvero il diritto di essere letta. Il sentimento non è garanzia di qualità.
Perché il sentimento e l’autobiografia in editoria, allora? Perché l’empatia è uno strumento rapido ed efficace per assicurare successo e vendite. Perché è semplice poter condividere quanto scritto nell’ultimo romanzo acquistato, se questo insiste su emotività semplici da comprendere e afferrare. Perché fa stare bene leggersi in qualcosa che non si è scritto da sé, riconoscersi in una rappresentazione altra e potersi dire “allora qualcuno altro la pensa uguale”.
Ma questo modo di intendere la letteratura appare figlio della percezione commerciale della rappresentazione, e della filosofia dell’estremo “hic et nunc” senza tanti problemi. In realtà la buona letteratura è quella che offre rappresentazioni del reale, sì valide, sì condivisibili, ma anche oggettive e tendenti all’universale. Come per dire, una visione sarà vera per te che l’hai, ma non per tutti gli altri indistintamente. Una buona letteratura è quella che va oltre l’emotività e sa dare un’oggettività – a volte solo una parvenza, è vero – che sappia andare oltre il valore sentimentale.
Cosa dire, allora, delle centinaia di sguardi sul mondo che l’editoria – piccola o grande che sia – mette in commercio? Ennesimo esempio della frammentazione sociale, o anche dimostrazione dell’incapacità di selezione da parte dell’industria letteraria? C’è stato un tempo in cui, sebbene il libro fosse mercificato, si aveva un’idea chiara su cosa valesse la pena spacciare e su cosa fosse, semplicemente, espressione di un secondo. Sarebbe interessante vedere cosa si sceglierebbe, oggi, se si cercasse di individuare espressioni non di un solo istante, ma anche di minuti, di ore e, perché no, di epoche intere.

Francesco Corigliano

Cristina Donà a Vibo Valentia

VIBO VALENTIA – Domenica scorsa si è svolto a palazzo Gagliardi il concerto di Cristina Donà, cantautrice lombarda che con la sua esibizione ha chiuso la sezione “Carta Canta” del Tropea Festival.
Presentata dal giornalista Ezio Guaitamacchi – che la sera precedente aveva già dialogato con Niccolò Fabi, nella stessa cornice vibonese – e accompagnata dal musicista Saverio Lanza, la cantante ha allietato spirito e udito dei presenti grazie all’esecuzione di diversi brani. Vasta la scelta dei pezzi, sia originali, canzoni conosciute quali “Stelle buone”, “Goccia” e “Miracoli”, sia cover, con una splendida interpretazione di “Just like you said it would be” di Sinéad O’Connor.
E la stessa Donà, incalzata dalle puntuali domande di Guaitamacchi, ha riconosciuto la O’Connor tra le sue principali ispiratrici, insieme ad altri artisti di notevole calibro quali Bjork  –  nonché autrici come Anne Sexton. In questo senso, non sono mancati apprezzamenti ad altri artisti del panorama contemporaneo, come Elisa – elogiata sopratutto per la sua capacità di crescita artistica.
Interrogata sul rapporto tra la propria musica e la propria identità, ha discusso sull’approccio al pubblico e al proprio modo di essere artista; “la musica è un esercizio di pulizia di sé stessi”, ha significativamente detto la cantautrice di Rho.
Interessanti gli appunti sulla predominanza maschile nel panorama culturale italiano: le donne cantano prevalentemente canzoni scritte da uomini, si dice, e lei stessa a volte si è trovata a chiedersi come mai delle cantautrici potessero aver sviluppato un certo tipo di sensibilità e di testi. “Il problema è che ci si stupisce di fronte all’esercizio intellettuale della donna” conclude la Donà, sottolineando uno dei maggiori condizionamenti che caratterizza la società occidentale, e che ha pesato anche su lei stessa.
La serata è stata caratterizzata da un’atmosfera di intimità e confidenza, grazie sia al contegno della Donà, di Guataimacchi e dell’ottimo Lanza, sia grazie ad un pubblico interessato e caloroso. Una conclusione più che degna per la rassegna di eventi organizzata a Vibo Valentia, iniziativa senz’altro da ripetere.

Francesco Corigliano

Il Presidente Scopelliti ha incontrato il Rettore dell’Unical Crisci

CATANZARO –  Il Presidente della Regione Giuseppe Scopelliti ha ricevuto, a Catanzaro, presso palazzo Alemanni, il Rettore dell’Università della Calabria Gino Mirocle Crisci .

L’incontro, avvenuto alla presenza dell’assessore al Bilancio Giacomo Mancini, è servito a rinnovare gli auguri per il prestigioso incarico al Rettore, che si è da poco insediato, e per rafforzare le sinergie istituzionali da lungo tempo avviate tra Regione e Università.

 

La Giunta vicina la Presidente dopo l’attacco hacker

CATANZARO – La Giunta regionale – informa una nota dell’ufficio stampa – ritiene di pericolosità inaudita quanto accaduto sabato scorso ai danni del Presidente Scopelliti. Il deprecabile e deplorevole attacco mirato a diffondere i contenuti della sua casella di posta elettronica istituzionale, rivendicato dal gruppo di hacker “Anonymous”, ci indigna e ci inquieta per numerosi aspetti.

Ci si domanda cosa cercasse chi ha violato la privacy del Governatore Scopelliti e dispiace che siano stati evidenziati solo i contenuti prelevati indebitamente, alcuni dei quali anche di dubbia provenienza, senza aver dato risalto all’atto illegale commesso. I componenti della Giunta regionale della Calabria sono preoccupati perché questa singola azione potrebbe far parte di un disegno più complesso e ampio, atto a individuare elementi finalizzati a mettere in difficoltà l’intera Amministrazione regionale guidata dal Presidente Scopelliti, anche attraverso la strumentalizzazione di elementi non veritieri. Il tutto nel momento in cui è stata palesata la volontà del Presidente Scopelliti di proseguire in questa esperienza amministrativa ancora per una nuova legislatura.

Quanto accaduto sabato scorso, inoltre, deve far riflettere sulla spregiudicatezza esibita da chi ritiene di poter diffondere impunemente dati sensibili, documenti istituzionali ma anche privati di chi rappresenta la pubblica amministrazione. A tal proposito, è auspicabile che le forze dell’ordine, già attivate con celerità, possano far luce al più presto sull’intera vicenda, per ridare serenità a chi amministra ma, soprattutto, al Governatore di una regione che deve dedicare il proprio tempo a questioni di ben altra rilevanza, considerate le molteplici difficoltà che investono tutti i giorni la Calabria.

L’azione degli hacker, peraltro, ha sortito il positivo effetto di confermare ulteriormente la trasparenza e la linearità dell’operato del Presidente Scopelliti, a cui va il sostegno incondizionato di tutta la Giunta regionale, insieme a quello dei calabresi che chiedono all’Amministrazione  di lavorare con impegno e abnegazione per affrontare le tante problematiche di stringente attualità, in un clima sereno e in condizioni di agibilità democratica.

Nel ribadire la ferma condanna all’attacco di Anonymous, la Giunta regionale, quindi, auspica massima attenzione, a tutti i livelli istituzionali, e ribadisce la propria vicinanza al Presidente Scopelliti, che non sarà minimamente turbato da questi volgari e spudorati tentativi di intimidirne l’azione amministrativa e che continuerà a lavorare nel solo interesse dei calabresi.

Livelli essenziali di assistenza, la Regione supera la soglia di criticità

CATANZARO –  La Regione Calabria è adempiente rispetto ai Lea, livelli essenziali di assistenza. A comunicarlo – si legge in una nota dell’ufficio stampa della Giunta regionale  – è stato il Ministero della Salute che ha trasmesso i dati della Griglia L.E.A. 2012 al Dipartimento. Alla Regione è stata attribuita una valutazione degli adempimenti relativi al mantenimento dei L.E.A. per l’anno 2012 pari a 132 punti a fronte del minimo fissato a 130.

I dettagli dell’importante risultato raggiunto sono stati illustrati dal Presidente della Regione e commissario ad acta per il piano di rientro dal deficit in sanità Giuseppe Scopelliti  nel corso di una conferenza stampa che si è svolta a Catanzaro, presso Palazzo Alemanni, alla quale hanno partecipato anche il neo subcommissario Andrea Urbani e il dirigente generale del Dipartimento Tutela della Salute Bruno Zito.

“Sulla vicenda dei Lea – ha dichiarato il Presidente Scopelliti – avevamo più volte precisato che si trattava di un problema di flussi informativi non di messa a repentaglio dei livelli di assistenza ai malati. Abbiamo lavorato intensamente tutto il mese di agosto e parte di settembre facendo finalmente squadra, individuando referenti unici dei flussi e invitando le aziende a una maggiore collaborazione, per mettere a regime le notizie e le informazioni necessarie e comunicare a Roma dati più puntuali.  Oggi grazie alla ufficializzazione pervenuta da parte dei ministeri competenti abbiamo la certezza che la Regione Calabria è adempiente. Con i 132 punti raggiunti nel 2012, partendo dagli 88 punti del 2009, siamo al di sopra della soglia di criticità. Il percorso intrapreso dimostra la nostra capacità di dare risposte concrete. Si tratta di un ulteriore riconoscimento che ci consente di poter dire che abbiamo superato un altro ostacolo mettendo a tacere quella parte del centrosinistra che aveva preso a pretesto i Lea per attaccare il nostro lavoro”.

Il Presidente Scopelliti ha presentato alla stampa, inoltre, il nuovo sub commissario Andrea Urbani nominato recentemente dal Consiglio dei Ministri.