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FalsoMovimento: The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura di F.F.Guzzi

Domenica 2 Dicembre 2012 ore 20.15, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il film  The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura F.F.Guzzi.

L’uomo non è che un giunco, il più debole nella natura; ma è un giunco che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente ad ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo invece non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ li che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non sapremmo riempire. Diamo opera dunque a pensare rettamente: ecco il principio della morale”  (Cfr. Pascal, Pensieri, Milano, 1952,  p. 134)

La citazione di Pascal si lega appieno al film (‘The Hurt Locker’ di Kathryn Bigelow) oggetto di questo settimo appuntamento de ‘La Versione’, perché coglie proprio l’aspetto indagato dalla pellicola proposta.  

L’uomo infatti pensa, e questo gli dà dignità di creatura eletta; ma il pensiero che misura l’attesa, che a sua volta si tramuta in tensione – in virtù di una probabile morte collegata a vicende tragiche e surreali –  lo rende allo stesso tempo fragile e sofferente. 

‘The Hurt Locker’  parla appunto di tensione, attesa, fragilità dell’individuo e sofferenza.

Nonostante questi rilevanti profili di indagine, è una pellicola che, incredibilmente, suscitò scarsa attenzione alla sua presentazione al Festival di Venezia e, poi, al botteghino (il risarcimento avverrà solo successivamente, con la vittoria di ben sei premi oscar e conseguente distribuzione anche nelle sale italiane).

L’indifferenza iniziale fu, forse, dovuta al fatto che non è un film propriamente di guerra, sebbene abbia ad oggetto la guerra. Il racconto si concentra infatti sulle conseguenze, soprattutto psicologiche, che il conflitto genera in chi lo vive.

Ambientata in Iraq, la narrazione segue tre personaggi: il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge; affronteranno, in simbiosi, i catastrofici eventi di un conflitto che, e in questo sta la cifra del film, più che esplicitarsi in scontri (ne troviamo infatti, solo uno) ci viene mostrato nel suo aspetto intimista, collegato ai disagi interiori e alle conseguenze nefaste che determina sui protagonisti.

Il dato concreto e ‘fisico’ (lo scontro contro i ribelli iracheni o la quotidiana attività di disinnescamento di bombe), fa infatti da sfondo all’aspetto, non meno forte e intenso, non meno reale, che è quello interiore.

Il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge, vivono infatti in bilico, in tensione  appunto, tra la vita e la morte; ogni uscita, ogni missione – che ha come obiettivo quello di disinnescare le mine – è un viaggio spettrale e soprattutto interiore, nell’inspiegabile, nella follia, nella paura.

Si ha paura di tutto e di tutti; degli iracheni che ti osservano con una telecamera; di coloro che utilizzano un telefonino (che potrebbe essere utilizzato per attivare la bomba); di chi, semplicemente, passa in macchina oppure ti guarda; si ha paura anche di se stessi, soprattutto di se stessi.

L’aspetto rilevante del film sta nell’endiadi lotta esteriore-disperazione interiore; quest’ultima legata alla incapacità di trovare una spiegazione in tutto ciò che ci sta intorno; impossibilità che si trasforma in delirio, in follia, in paura, in attesa e tensione. 

Sono soprattutto quest’ultimi due aspetti che caratterizzano la pellicola; tutto ruota e si svolge, infatti, all’interno del crinale della tensione e dell’attesa, che diventano fattori ancora più esplosivi delle bombe non esplose e disinnescate; l’attesa – che ti porta a riflettere e a interrogarti sulla possibile morte, e sul significato di ciò che stai compiendo – diventa fattore troppo ingombrante per essere sopportato. 

Attesa dunque, che alimenta il pensiero, il quale, a sua volta, determina tensione. Tutti fattori che attanagliano e perseguitano, e che, con lo scorrere dei minuti e degli ‘eventi’, diventano sempre più claustrofobici, ingombranti e alienanti (anche per lo spettatore), fino ad arrivare all’esito (paradossale) in cui siffatta condizione finisce per creare dipendenza, come una droga. 

La lotta, la guerra, assorbono a tal punto da diventare oppio e linfa che consentono di andare avanti e convivere con la disperazione.  

La potenza della visione in questo caso è notevole, perchè riesce a cogliere gli aspetti e le tracce evidenziate, in maniera assoluta. 

Qualunque ulteriore sottolineatura e specificazione scritta, sembra infatti ridondante, quasi inutile e superflua. L’idea dell’attesa e della tensione che si tramutano in disperazione per i tre protagonisti (che così arrivano all’hurt locker, ciò che in gergo sportivo è la soglia di massima sopportabilità del dolore) trova infatti sintesi unica e rappresentativa nelle immagini  e nel loro montaggio, che sembrano quasi sfidare il racconto scritto, rendendolo impotente.

The Hurt Locker’: la visione che travalica i limiti e supera le virtù della scrittura; non ci resta allora che guardare… (F.F.Guzzi)