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FalsoMovimento: L’AVVENTURA DI ARTHUR CURTIS / THE BOX a cura di Ugo G. Caruso

Mercoledi 19 Dicembre doppio appuntamento cinematografico organizzato dal gruppo FalsoMovimento di Rovito.

Alle ore 20,30 verra proiettato L’AVVENTURA DI ARTHUR CURTIS (1960). Trasmesso per la prima volta in Italia dalla RAI il 12 aprile 1964, diretto da Ted Post con Howard Duff, Frank Maxwell, Eileen Ryan, David White, Gail Kobe, Peter Walker, William Idelson, Susan Dorn.

Arthur Curtis arriva in ufficio, scambia due parole con la sua segretaria Sally e tenta di fare una telefonata. E’ molto seccato quando scopre che il telefono non funziona, ma il disappunto lascia il posto allo sbigottimento quando Curtis sente alle spalle una voce gridare “Stop!”. Si volta e scopre che una parete dell’ufficio è scomparsa e al suo posto ci sono una troupe cinematografica, accecanti riflettori, ingombranti apparecchiature e un regista molto, molto nervoso che continua a chiamarlo Jerry…

Alle ore 21.00 THE BOX (2009) di Richard Kelly, con Cameron Diaz, James Marsden, Frank Langella, James Rebhorn, Holmes Osborne.

Norma e Arthur Lewis sono una giovane coppia, sposata con un figlio piccolo. Un giorno alla porta di casa loro, in un tranquillo quartiere residenziale, bussa uno sconosciuto che gli consegna una misteriosa scatola di legno con un bottone. L’uomo gli rivela che premendo il pulsante sulla scatola riceveranno un milione di dollari, ma che, alla pressione, qualcuno nel mondo morirà. Norma e Arthur avranno solo 24 ore a disposizione per decidere cosa fare, se premere il pulsante e uccidere uno sconosciuto o rinunciare ai soldi di cui avrebbero bisogno, dopodiché la scatola gli sarà portata via.

FalsoMovimento/Ombre Sonore #2: MARLEY di Kevin Macdonald – Introduce Eliseno Sposato

Giovedi 13 dicembre ore 20.30, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il docu-film Marley di Kevin Macdonald, introdotto da Eliseno Sposato.

Bob Marley. La sua musica e il suo messaggio di amore e redenzione sono conosciuti in tutto il mondo e la sua storia è stata finalmente riportata in vita grazie al lavoro e al talento di Kevin Macdonald. Il fascino universale di Bob Marley, il suo impatto sulla storia della musica e il suo ruolo di profeta politico e sociale restano ineguagliati. La sua musica e il suo messaggio trascendono le barriere culturali, linguistiche e religiose, echeggiando ancora oggi in tutto il mondo, con la stessa forza di quando lui era ancora in vita. Solo pochissimi musicisti hanno avuto un impatto così forte sulla cultura e Bob Marley, nonostante la breve vita, è tra questi.

“Questo film è importante perché, nonostante in passato siano state fatte molte cose su Bob, credo sia la prima volta che viene data alla gente la possibilità di sentirsi emotivamente vicina a Bob come uomo, non come leggenda del reggae o come figura mitica, ma attraverso la sua vita di uomo”. Ziggy Marley

 

 

Falso Movimento XIV/2012.2013: WOMB di Benedek Fliegauf

Martedi 4 Dicembre 2012 ore 21.00, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il film “WOMB” di Benedek Fliegauf.

Due bambini s’innamorano, poi si separano. Lei, Rebecca (Eva Green), dopo anni, torna, ritrova lui, Tommy (Matt Smith), lo riama, lo riperde. Ma l’amore è più caldo della morte: così lei lo clona, portandoselo in grembo, crescendolo come un figlio, soffrendo per questo amore che ha cambiato forma. Fliegauf riscrive il mondo: partecipando a un dramma intimo e struggente, lo spettatore è invitato a provare la propria morale, a ridisegnare le coordinate etiche secondo una realtà dove è consentita la clonazione

, dove i tabù che strutturano la società (l’incesto, per esempio) si sono geneticamente modificati.
E in questa richiesta c’è un atto d’amore e fiducia nel pubblico. Sopraffino manierista, tra i massimi giovani talenti europei, l’ungherese Fliegauf sa che in ogni inquadratura si posano toni, umori, moti d’anima. E dunque ripropone, mentre gli anni scorrono e i corpi cambiano, gli stessi punti macchina, cercando i detriti d’emozione sedimentati dal tempo. Evoluzione del mito di Edipo, Womb (Grembo), arrivato nelle nostre sale con due anni di ritardo dopo aver transitato e vinto al Festival di Locarno, è Sci-Fi contemplativa, tarkovskijana, interessata all’uomo, alla carne viva e morente, alla biologia, è un’opera imperfetta dipinta con insana grazia pittorica, conscia che la ripetizione è una forma di cambiamento, orchestrata intorno a simboli perturbanti (il dinosauro giocattolo, la lumaca, gli scarafaggi, gli animali forse estinti) e abitata da due interpreti semplicemente sublimi. Perché sanno implodere o esplodere di dolore, non sottraendosi mai alla propria grottesca, ambigua, inquieta natura.


FalsoMovimento: The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura di F.F.Guzzi

Domenica 2 Dicembre 2012 ore 20.15, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il film  The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura F.F.Guzzi.

L’uomo non è che un giunco, il più debole nella natura; ma è un giunco che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente ad ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo invece non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ li che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non sapremmo riempire. Diamo opera dunque a pensare rettamente: ecco il principio della morale”  (Cfr. Pascal, Pensieri, Milano, 1952,  p. 134)

La citazione di Pascal si lega appieno al film (‘The Hurt Locker’ di Kathryn Bigelow) oggetto di questo settimo appuntamento de ‘La Versione’, perché coglie proprio l’aspetto indagato dalla pellicola proposta.  

L’uomo infatti pensa, e questo gli dà dignità di creatura eletta; ma il pensiero che misura l’attesa, che a sua volta si tramuta in tensione – in virtù di una probabile morte collegata a vicende tragiche e surreali –  lo rende allo stesso tempo fragile e sofferente. 

‘The Hurt Locker’  parla appunto di tensione, attesa, fragilità dell’individuo e sofferenza.

Nonostante questi rilevanti profili di indagine, è una pellicola che, incredibilmente, suscitò scarsa attenzione alla sua presentazione al Festival di Venezia e, poi, al botteghino (il risarcimento avverrà solo successivamente, con la vittoria di ben sei premi oscar e conseguente distribuzione anche nelle sale italiane).

L’indifferenza iniziale fu, forse, dovuta al fatto che non è un film propriamente di guerra, sebbene abbia ad oggetto la guerra. Il racconto si concentra infatti sulle conseguenze, soprattutto psicologiche, che il conflitto genera in chi lo vive.

Ambientata in Iraq, la narrazione segue tre personaggi: il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge; affronteranno, in simbiosi, i catastrofici eventi di un conflitto che, e in questo sta la cifra del film, più che esplicitarsi in scontri (ne troviamo infatti, solo uno) ci viene mostrato nel suo aspetto intimista, collegato ai disagi interiori e alle conseguenze nefaste che determina sui protagonisti.

Il dato concreto e ‘fisico’ (lo scontro contro i ribelli iracheni o la quotidiana attività di disinnescamento di bombe), fa infatti da sfondo all’aspetto, non meno forte e intenso, non meno reale, che è quello interiore.

Il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge, vivono infatti in bilico, in tensione  appunto, tra la vita e la morte; ogni uscita, ogni missione – che ha come obiettivo quello di disinnescare le mine – è un viaggio spettrale e soprattutto interiore, nell’inspiegabile, nella follia, nella paura.

Si ha paura di tutto e di tutti; degli iracheni che ti osservano con una telecamera; di coloro che utilizzano un telefonino (che potrebbe essere utilizzato per attivare la bomba); di chi, semplicemente, passa in macchina oppure ti guarda; si ha paura anche di se stessi, soprattutto di se stessi.

L’aspetto rilevante del film sta nell’endiadi lotta esteriore-disperazione interiore; quest’ultima legata alla incapacità di trovare una spiegazione in tutto ciò che ci sta intorno; impossibilità che si trasforma in delirio, in follia, in paura, in attesa e tensione. 

Sono soprattutto quest’ultimi due aspetti che caratterizzano la pellicola; tutto ruota e si svolge, infatti, all’interno del crinale della tensione e dell’attesa, che diventano fattori ancora più esplosivi delle bombe non esplose e disinnescate; l’attesa – che ti porta a riflettere e a interrogarti sulla possibile morte, e sul significato di ciò che stai compiendo – diventa fattore troppo ingombrante per essere sopportato. 

Attesa dunque, che alimenta il pensiero, il quale, a sua volta, determina tensione. Tutti fattori che attanagliano e perseguitano, e che, con lo scorrere dei minuti e degli ‘eventi’, diventano sempre più claustrofobici, ingombranti e alienanti (anche per lo spettatore), fino ad arrivare all’esito (paradossale) in cui siffatta condizione finisce per creare dipendenza, come una droga. 

La lotta, la guerra, assorbono a tal punto da diventare oppio e linfa che consentono di andare avanti e convivere con la disperazione.  

La potenza della visione in questo caso è notevole, perchè riesce a cogliere gli aspetti e le tracce evidenziate, in maniera assoluta. 

Qualunque ulteriore sottolineatura e specificazione scritta, sembra infatti ridondante, quasi inutile e superflua. L’idea dell’attesa e della tensione che si tramutano in disperazione per i tre protagonisti (che così arrivano all’hurt locker, ciò che in gergo sportivo è la soglia di massima sopportabilità del dolore) trova infatti sintesi unica e rappresentativa nelle immagini  e nel loro montaggio, che sembrano quasi sfidare il racconto scritto, rendendolo impotente.

The Hurt Locker’: la visione che travalica i limiti e supera le virtù della scrittura; non ci resta allora che guardare… (F.F.Guzzi)

“Sopravvivenze: l’estremo della vita/la vita agli estremi”: la minirassegna del Cineforum FalsoMovimento

Il Cineforum FalsoMovimento di Rovito presenta “SOPRAVVIVENZE: L’ESTREMO DELLA VITA/LA VITA AGLI ESTREMI”. La minirassegna cinematografica inizia domenica 25 novembre ore 20.15, presso il Teatro Comunale di Rovito, con la proiezione del film The Way Back (2010) di Peter Weir, e continua martedì 27 novembre, ore 21.00, con The Ditch (2010) di Wang Bing.

The Way Back

Fuga rocambolesca per la sopravvivenza. Da un gulag. Dal gelo dei boschi siberiani alle desertiche distese mongoliche fino alle feroci tempeste di sabbia e al caldo soffocante del Gobi. Torna la vecchia scuola del cinema, con il regista australiano Peter Weir: pochi espedienti tecnologici, computer grafica al minimo, quasi nulla. Largo agli ampi paesaggi in contesti schiaccianti, soffocanti e ritratti dalla fotografia di Russell Boyd che cattura la natura nella sua forma più minacciosa e straordinariamente bella. The Way Back è basato sul libro di Slaomir Rawicz, The long walk, la cui veridicità è molto contestata. Che la vicenda sia stata vissuta o meno, comunque, nell’economia della pellicola assume una rilevanza soltanto suggestiva. L’epopea di cui parla Rawicz fornisce allo script un’eccellente ispirazione per tracciare la storia di un gruppo di fuggiaschi determinati a sopravvivere a qualsiasi avversità. Una celebrazione burbera, certo, ma esaltante del valore della libertà.

E poi c’è la poetica di Weir per i personaggi resi piccini dalla vastità del mondo. Che sia l’outback, l’entroterra australiano di Picnic a Hanging Rock, piuttosto che il mare in tempesta di Master and Commander oppure l’universo artificiale di The Truman show. Stavolta ci sono il freddo, la fame, la sete, il caldo. E la macchina da presa è lì a scovare i segni tangibili delle sofferenze sui volti, sui corpi dei fuggitivi. Sullo sfondo, i paesaggi mozzafiato di un Oriente fascinoso quanto infido, percorso in un’improbabile trekking estremo ed estenuante. A completare l’opera di Weir un plotone di interpreti davvero ben scelti, a cominciare da un Colin Farrell in stato di grazia. L’attore irlandese tenta di rubare la scena a un intenso Ed Harris : davvero una bella ‘lotta’ tra i due. E merita menzione anche la toccante Saoirse Ronan. Una lunga passeggiata quella ordita da Peter Weir per tornare al cinema dopo sette anni – The Way Back è targato 2010 ma è stato distribuito in Italia dopo due anni – dal suo ultimo lavoro (Master and Commander, 2003). Una camminata di quattromila miglia dura e faticosa per raccontare, alla fine del viaggio, una verità semplice ed elegante: non mollare mai.

 

The Ditch

Alla fine degli anni cinquanta, il governo cinese condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza sociale e famigliare. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi, lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari, circa tremila “intellettuali” di estrazione basso o medio borghese dalla provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e delle terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove dormivano. The Ditch (Il fossato) racconta il loro destino. Ancora un grandissimo regista cinese, capace di non far rimpiangere uno dei massimi esponenti della cinematografia mondiale in assoluto, il connazionale Jia Zhangke. Completamente diversi nello stile, ma con la stessa capacità di mescolarsi con la materia filmica, senza intralciare il flusso degli eventi, senza manipolare eccessivamente le pulsazioni dell’esistenza. Nella fossa comune batte lentamente, fino a fermarsi, il cuore di un Paese trincerato e devastato, fuori, nel deserto invece il vento, la polvere, i lamenti, l’orizzonti irraggiungibile, sono tormenti dell’anima, burrascose tempeste di corpi piegati e sofferenti. Documentare sembrerebbe l’unica strada percorribile, l’unico sentiero riconoscibile in quel deserto spazzato via dal dolore, ma in realtà lo sguardo di questo magnifico autore si perde nel nulla della narrazione, elevando anche un granello di sabbia sollevato dal vento al più memorabile dei miracoli. Wang Bin (co-sceneggiatore di Hero e La foresta dei pugnali volanti, nonché autore di He Fengming, documentario-intervista di una anziana donna cinese che racconta la sua personale odissea attraverso la Cina comunista del dopoguerra) segue un modus operandi rigoroso e dalla morale rigida, come le immagini scolpite dalla macchina fissa. Poche inquadrature, ma lunghe nella propria staticità. Una dilatazione temporale che non sembra avere fine, spazi chiusi (anche quelli sterminati fuori campo) che danno poco respiro, così come chiuso il mondo dei protagonisti. Più che chiuso probabilmente quel mondo è proprio giunto alla fine, senza ritorno, ma la morte è leggera, quasi metafisica, fluttua nell’aria, anche oltre lo schermo e si deposita come polvere. Apparenza ed esistenza quindi sono lo stesso in quanto ciò che esiste, appare. In quanto e per quanto appare questo cinema, apparenza e verità coincidono. Wang Bing ci fa credere fino in fondo nel vuoto perché nasce dall’astrazione dello spazio-luogo filmico, lontano da ogni immaginazione o forse troppo spesso solo immaginato dai registi professionisti del dolore. Metafisico quindi perché trascendentale meta in atto posta al fisico e alla mente.