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“Le sedie” di Ionesco: la follia e l’incomunicabilità in una splendida rilettura

Un lascito, un messaggio da consegnare al mondo: è questa la meta che muove le fila de “Le sedie”,opera a firma di Eugène Ionesco riletta nell’illuminante visione di Giovanni Carpanzano. Semiramide: Le protagoniste od una soltanto, donne a tratti speculari, in altri casi stridenti, nemiche e reciproche vestali. Ci si sforza di classificarle, dividerle, “cronologizzarle”: che i lacci dietro il vestito dell’una vogliano dire che si tratti della versione ormai preda della follia, e che l’altra invece sia la lei-ancora-sana? Che l’una sia bambina e l’altra donna? Dopo un po’ ci si arrende, seguendo rapiti il delirio folgorante di quest’entità monadica che si muove, a tratti leggiadra e divertente, a tratti stolida ed estenuante, su un tracciato tanto confuso quanto chiaramente delimitato: Semiramide attende che dei convitati giungano ad ascoltare il suo messaggio, per tanti anni gestato. Nell’attesa, a contornarla fino ad inglobarla, una scenografia che si fa linguaggio, marcatore di ossessioni: grandi volumi bianchi su cui le protagoniste si muovono veloci, incerte, danzanti; due sedie uguali e ugualmente logore sulle quali le due accomodano il clangore della propria follia. E poi gli elementi attualizzanti, aggiunti da Carpazano: Il continuo cambio di scarpe in scena, ad esempio, in quanto perfetta rappresentazione dell’ossessione per l’immagine, dell’affannosa nascita e declino delle tendenze. C’è poi la parentesi dell’abuso: una delle protagoniste indossa una tunica da vescovo ed inizia a palpare la disperata compagna di palco: immagine di desiderio pruriginoso che, nell’ottica dello spettacolo, potrebbe leggersi come la violazione, l’annichilimento di una Semiramide ancora giovane e piena di aneliti da parte del suo corrispettivo adulto e rassegnato. Ed è sempre di questo binarismo che si nutre una delle scene più intense dell’intera pièce: Le due Semiramidi parlano della propria maternità, l’una negandola e l’altra affermandola dolorosamente, facendoci chiedere, in un altro ingenuo tentativo d’orientarsi, dove possa risiedere la verità, se questo figlio ipotetico sia potuto fuggire dalla follia di sua madre o dalla follia di un mondo che si postula sano. Ad uno ad uno, intanto, gli ospiti iniziano ad affollare la scena: la monade trascina nel proprio rifugio le sedie del titolo, ognuna delle quali incarnante un personaggio, tutti resi estremamente concreti, quasi visibili. Le protagoniste iniziano con l’intrattenere conversazioni garbate, salottiere, dando segni di un’insofferenza che mostra sempre più chiaramente la consunzione del senso e, allo stesso tempo, un avvicinarsi ad esso. Ed eccoci giungere, infine, a ciò che dall’inizio si paventava: la dimora di Semiramide trabocca delle sedie-astanti, ed un enorme chiave a bordo palco si erge a delimitarne, probabilmente, la dimensione manicomiale. Tutto è pronto per lasciar spazio al tanto atteso oratore, colui che finalmente consegnerà al mondo il messaggio. Non v’è più motivo, a questo punto, di restare. Semiramide si da la morte, gioiosamente, voltando le spalle ad un mondo nel quale è certa lascerà un segno fossile. L’oratore, ora solo in scena, può rivelarci il messaggio, ma sono suoni cacofonici e privi di senso quelli che sgorgano dalla sua bocca, la bocca di un uomo bello e prestante, ennesima rappresentazione di dicotomia edonistica: il messaggio, dunque, sta nella sua assenza. La decostruzione del linguaggio attuata sin da inizio spettacolo infine si compie, disvelando la pochezza del verbo, che non si fa carne ma rumore, brusio sciamante che ammanta le macerie di un mondo e di una vita sedicenti più che esistenti.

Rivisitazione intrigante e  polisemica quella del regista Giovanni Carpanzano, coronata dall’energico lavoro di due interpreti di raro talento, Anna Broccardo e Francesca Cartaginese, e dall’apporto scenografico degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, che hanno lavorato alla costruzione delle bellissime sedie-comprimarie. Un’esperienza folgorante e nitida: è infatti prioritario,nelle parole del regista, che il senso in tutte le sue derive tangenziali giunga allo spettatore, uno spettatore da intedersi come parte integrante della drammaturgia, insieme all’oggetto. Un’ottima prova andata in scena ieri sera al Piccolo Teatro Unical e che replicherà al Teatro Politeama di Lamezia Terme il prossimo 22 ottobre.

Salvatore Perri

Fotografie: Maria Cristina Caruso