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[#NerdReview] Aladdin Vs Aladdin – Trova le differenze

La febbre dei live-action Disney continua al cinema e questa volta è toccato ad Aladdin.

Dopo aver visto al cinema il remake di Aladdin diretto da Guy Ritchie, sono andato a ripescare il vecchio classico del 1992. Già in sala qualcosa non mi tornava e alla fine del rewatch avevo le mani che prudevano: dovevo scrivere!

Quando si utilizza la formula del rifacimento in live-action si tende a cambiare sempre qualcosa nella storia o nella forma della narrazione. Nel caso di Aladdin, però, cosa è cambiato davvero?

A un primo occhio, magari per qualcuno che non vede il cartone da tempo, sembrerà che sia tutto pressoché simile: canzoni, personaggi, atmosfere… Ma per chi invece ha rivisto da poco il cartone, le differenze sono piuttosto evidenti, a partire dall’inizio.

INTRODUZIONE: CHE FINE HA FATTO IL MERCANTE?

L’intro del film ci porta nei mari orientali, con Will Smith che racconta una storia ai propri figli su di una nave per poi continuare con la canzone “Le notti d’Oriente”, che resta simile alla versione originale. La differenza nell’introduzione è palese: nel cartone originale, la storia veniva raccontata attraverso delle gag comiche di un mercante, introducendoci ai misteri di Agrabah e alla magia dell’Oriente.

Un altro mercante scomparso è quello nella scena nel bazar. Qui, quando Jasmine regala del cibo ai due bambini senza pagare, non è il grosso energumeno barbuto del cartone a cercare il pagamento, bensì suo cugino che stava tenendo d’occhio il banco per lui.

UN NEMICO PIÙ CONVINCENTE: JAFAR CONTRO TUTTI

Una delle grandi differenze tra cartone e live-action è sicuramente la figura del cattivo. Jafar è qui molto più giovane e riesce a ipnotizzare le persone anche senza il suo bastone magico. Convince, infatti, Aladdin a entrare nella caverna di sua spontanea volontà con la promessa di grandi ricchezze.

Altra differenza è nel suo background. Infatti, scopriamo il passato del cattivo che, come il protagonista, in origine era un ladro e saltimbanco che, grazie all’astuzia e all’imbroglio, è riuscito a raggiungere il palazzo acquisendo il titolo di Visir. Così, il personaggio ha ora una motivazione evidente per diventare il sultano di Agrabah, ossia quella di non essere mai più secondo a nessuno.

JASMINE, UNA NUOVA LEADER

La principessa di Agrabah subisce un restyling sia come abbigliamento che come carattere. Seppure già nel cartone animato del 1992 fosse una principessa combattiva, in questo film si riscopre una leader e si fa portavoce della libertà e dei diritti delle donne. Non solo una moglie, quindi, ma anche una possibile regina che potrebbe apportare delle migliorie al regno se solo la legge tradizionalista potesse essere cambiata.

Una forza, quella di questo personaggio femminile, forse dovuta alla riscrittura di un retroscena passato e all’inserimento di un dettaglio relativo alla madre, che nel cartone viene quasi ignorata. Qui, infatti, la madre di Jasmine ha finalmente una storia: proviene dal vicino regno di Sherabad (lo stesso regno che Jafar vuole conquistare) ed è morta assassinata per le sue ideologie.

IMMENSI POTERI COSMICI IN UN MINUSCOLO SPAZIO VITALE!

 

Un’altra delle grandi differenze tra il cartone e il film è di sicuro la presenza di Will Smith. Se nel cartone originale il genio veniva interpretato da Robin Williams (doppiato in italia da Gigi Proietti), grande artista comico che ha dato una connotazione delicatamente parodica e divertente all’essere blu, Will Smith invece percorre un’altra strada, più vicina ai suoi personaggi tipici.

Più irriverente, piacione e anche un po’ trash: la sua potenza attoriale è senz’altro uno dei punti cardine di tutto il film. Il suo genio, al contrario della versione originale, ha un debole per le donne e infatti s’innamora di uno dei due personaggi creati per questa pellicola, Dahlia. Altra differenza è che al termine del film non diventa un genio libero di usare i suoi poteri, ma un essere umano normale, chiudendo così il cerchio aperto con l’introduzione.

NUOVI PERSONAGGI PER NUOVE SCENE

La presenza di Dahlia e Akim non passa inosservata. La prima, l’ancella della principessa, è in quasi tutte le scene comiche ed è inoltre la donna di cui s’innamora il genio, mentre Akim ha il ruolo della guardia scelta del Sultano ricevendo una storia e l’importante scelta nel finale.

UN FINALE TUTTO NUOVO E MENO “ACTION”

La storia si muove nella stessa direzione: Jafar prende la lampada ed esprime gli stessi tre desideri del cartone animato, ma ci sono delle differenze piuttosto pronunciate tra le due pellicole. Differenze che rallentano il ritmo, ma danno anche la possibilità ad altri personaggi di sbocciare.

Tre sono le differenze essenziali:

  1. Jafar resta umano per tutto il tempo, non si trasforma in un gigantesco serpente.
  2. Iago si trasforma in un enorme pennuto* che insegue Aladdin e la lampada per Agrabah.
  3. Jasmine, con una nuova canzone, convince Akim e dimostra di avere le capacità di un Sultano (viene tagliata così la scena in cui Jasmine seduce Jafar).

*Sapevi che la trasformazione del pappagallo di Jafar è in realtà un omaggio a una delle creature mitologiche dell’antica Persia? Il Rok!

I DETTAGLI CONTANO!

Ci sono ancora piccoli dettagli che rendono differente il cartone dal live-action, come ad esempio le regole per esprimere i desideri. Nel cartone “Voglio essere un principe” andava bene come desiderio, invece nel film il genio richiede una frase più specifica e di strofinare la lampada ogni volta che se ne esprime uno.

Spero di aver saziato la vostra sete di curiosità e vi lascio con la versione originale di un divertente video che sta spopolando sui social ultimamente!

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Daniele Ferullo

Magna Grecia, la sconfitta della tirannia da GOT a Sybaris

La storia della nostra terra è ricca di eventi seppelliti dalla polvere di città e memorie dimenticate.

A volte, però, queste memorie riescono a riscattare la loro ricerca di giustizia nelle opere di chi ne comprende e coltiva l’importanza, portando il proprio studio e tempo su di un palcoscenico e diffondendo quella storia che è nostra, nel sangue e nella discendenza.

Abbiamo visionato da poco la tanto attesa ottava stagione di Game of Thrones e il finale ci ha riportato alla mente, per somiglianza di eventi, una messa in scena teatrale del 2015 a opera della Compagnia delle Stringhe: Magna Grecia. Un musical con un cast di 29 elementi, scritto da Antonio Malfitano con musiche e arrangiamenti di Nicola Bortone. Una tragedia greca in chiave moderna, che ha schiuso il sipario sull’antica città di Sýbaris, la grande guerra contro i Crotoniati alla fine del VI secolo a.C. e una tormentata storia d’amore.

LA TRAMA

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La messa in scena si svolge nelle poleis di Sybaris e Kroton. L’opera Magna Grecia racconta le vicende che porteranno il protagonista Telys (interpretato da Danilo Minervino), personaggio realmente esistito nella storia della nostra terra, a cambiare le sorti di Sybaris, innalzando una rivolta per soverchiare l’oligarchia aristocratica. In nome della democrazia, il consiglio dei mille viene scacciato dalla polis, ma presto questo sogno di vittoria per il popolo si trasformerà in tirannia da parte del demagogo. Nella sotto-trama, due storie d’amore: la prima tra il figlio dell’aristocratico Leuco (Giuseppe Zuccarelli), Asterio (Valter Lombardo), e la giovane Emera (Danila Palazzo); la seconda avrà come protagonista la sorella di Asterio, Dafne (Alba Onofrio), perdutamente innamorata di Telys. Il primo un amore che non conoscerà l’alba per la dipartita del giovane guerriero per mano di Telys, il secondo un amore proibito, a causa di intrecci politici che porteranno a un malaugurato epilogo per i due amanti.

La guerra sarà inevitabile, portata avanti dalla tirannia di Telys e guidata da un fato avverso, i fiumi Crati e Sibari (odierno Coscile) si coloreranno di rosso del sangue dei Sibariti, finché la vittoria di Kroton, guidata al tempo da Pitagora (Francesco Cauteruccio) e Milone tra le milizie (Sante Onofrio), sarà compiuta e la tomba del tiranno riempita.

IL COMMENTO

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Ripercorrendo eventi storici realmente accaduti, quali la guerra tra le due città che portò Sybaris alla disfatta, la compagnia ha mostrato quanto l’amore possa sconvolgere le decisioni e la vita di due intere popolazioni. In apertura di sipario, ci troviamo davanti il tipico coro greco rivisitato per l’occasione in chiave moderna, che ricorda allo spettatore quanto possa essere importante la conoscenza della storia. L’elemento corale sarà presente in tutta la rappresentazione, impreziosendo i momenti culmine di decisione importanti per i protagonisti. Lo stesso ribadirà il concetto d’apertura a fine opera, mettendo in guardia dagli errori compiuti da chi non conserva memoria. I testi dei brani eseguiti, così come l’intera sceneggiatura, è a cura di Antonio Malfitano, studioso di storia antica presso l’Unical e l’Università Orientale di Napoli, che con grande cura ha riordinato i frammenti storici di Sibari, tramandatici da Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone e Filarco di Atene. Un lavoro minuzioso, a cui si è unita la componente romanzata, al fine di trasmettere al pubblico un messaggio storico fruibile tramite emozioni e musica.

“Non c’è gloria senza memoria, sotto la terra giace la Storia”

La Compagnia delle Stringhe di San Fili ha portato in scena sei musical inediti, dimostrando che l’auto-produzione e l’amore per il teatro possono essere manifesti efficaci di messaggi forti e complessi. In questa particolare opera, gli attori si sono imbattuti nella difficoltà di portare in scena una realtà lontana dai nostri giorni, con dialoghi ricchi di termini arcaici e ricercati, ma che stimolano la mente di chi li ascolta. Convincenti nei dialoghi politici e struggenti in amore, colpiscono le trovate sceniche in cui le fazioni dei due eserciti si confrontano, ruotando su se stessi in vista della grande battaglia che porterà Kroton ai fasti.

Altro punto di forza dell’opera è l’ausilio di un corpo di danza nelle scene portanti della trama, che snoda i propri passi sui brani amorosi e lo struggimento dei protagonisti. Un plauso in particolare per le voci limpide e potenti di Emera, interpretata da Danila Palazzo, ed Eris, interpretata da Anica Giraldi. Queste ultime ci offrono un atto recitativo di altissima qualità nel cantare insieme come se fossero un’unica entità.

L’elemento divino cammina tra gli uomini

In molti dialoghi della rappresentazione, traspare con forza la componente della credenza divina che caratterizza azioni e umori dei personaggi. Nelle opere greche questo elemento era fortemente adottato e anche in questa le è stata resa giustizia. Eris, la dea della discordia, intreccia i suoi fili nelle menti dei protagonisti, generando scontri e guerre, fino a giungere a epiloghi mortali. Più volte è ribadito, però, che l’uomo è artefice del proprio destino, come è compito dell’uomo retto non cadere nell’inganno di chi prova a contaminare la sua anima con il germe del male.

Amicizia e lealtà

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Il tema dell’amicizia e della lealtà in Magna Grecia porta il nome di Fileta, alleato di Telys, pronto a morire per la completa fiducia riposta nel suo compagno. Interpretato da un talentuoso Salvatore Storino, il personaggio acquista tantissimi punti di forza: è un uomo d’onore, un guerriero, una spalla fedele e un donnaiolo. Sfaccettature che sono rese con abile credibilità dall’attore.

Infine, il bacio dell’addio

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Nel climax dell’opera, con una Sibarys dalle porte sbarrate e il sangue di guerrieri e cittadini morti per la resistenza, la giovane Dafne deciderà di porre fine alla sofferenza del proprio popolo con il sacrificio più grande. Incontrerà, così, Telys e in un bacio profondo, che ci ricorda l’altrettanto ultimo scambiato tra Jon Snow e Daenerys Targaryen sullo sfondo di una Westeros in cenere, lo conduce alla morte colpendolo con un pugnale. L’emozione è forte, le lacrime amare, ma la guerra è finita per entrambe le poleis.

IN CONCLUSIONE

Un’opera monumentale, dedicata a un pubblico che ha desiderio di conoscenza e intrattenimento educativo. Antonio Malfitano, poliedrico nella sua produzione teatrale e non, ci consegna una rappresentazione pregna di sangue e amore, in grado di conquistarci totalmente. Semplici nei loro costumi, ai nostri occhi gli attori sembrano portare le sete più preziose, come prezioso è il loro contributo nel realizzare la messa in scena Magna Grecia, fruibile gratuitamente sul sito dell’autore https://www.antoniomalfitano.it/.

Miriam Caruso

[#SerieTv] Lucifer, la recensione della quarta stagione [SPOILER]

Lucifer è salvo, la quarta stagione è esplosa su Netflix e i fan chiedono a gran coro un quinto ritorno.

Dieci episodi, un concentrato di oscurità e sensualità che non ha lasciato indifferente neanche il fan più esigente, portando alla fortunata serie un pubblico superiore a qualsiasi previsione. Lucifer è questo e molto altro. Un record di audience nella prima settimana dal rilascio, classificandosi come la serie più vista sulla piattaforma Netflix e superando perfino Stranger Things. Ma procediamo per gradi, sottolineando che in questa recensione della quarta stagione di Lucifer sono presenti SPOILER.

LA TRAMA

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Nel finale della terza stagione, abbiamo lasciato il signor Morningstar (Tom Ellis) malconcio dopo la battaglia con Marcus Pierce/Caino (Tom Welling) e una detective Decker (Lauren German) sconvolta per aver visto il vero volto di Lucifer. La prima puntata della nuova stagione ci ha accolti con il cuore infranto di un diavolo al pianoforte, che intona Creep dei Radiohead sperando di poter riuscire a rivedere Chloe ancora una volta e recuperare quel bacio interrotto nella stagione precedente. L’entrata in scena di due nuovi personaggi, Eva (Inbar Lavi) e padre Kinley (Graham McTavish) indurrà i nostri due protagonisti preferiti a provare il peso del distacco, chi per sfiducia, chi per gelosia. Ruolo fondamentale lo avrà nella storia anche la sotto-trama intessuta da Amenadiel (David Bryan Woodside), fratello di Lucifer, e Linda (Rachael Harris), quest’ultima porta nel grembo il figlio dell’angelo prediletto di Dio e ciò la metterà in pericolo. Un profezia e uno stuolo di demoni alle porte di Los Angeles saranno la goccia che farà traboccare il vaso fino ad arrivare a un doloroso epilogo.

IL COMMENTO

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Dopo essere stata brutalmente cancellata lo scorso anno, grazie alla petizione #SaveLucifer, Netflix ha deciso di acquisire i diritti della serie e darle giustizia in tutta la sua essenza. Ogni scena è familiare, i personaggi seguono la loro natura, quella che ci ha catturato per 3 stagioni, ma qualcosa è cambiato. La caratterizzazione ha acquistato un livello di profondità più intenso, i loro cuori infranti sbattono addosso allo spettatore tutte le emozioni di cui ha bisogno, quelle stesse emozioni nel riaverli conquistati con una battaglia social coesa in tutto il mondo.

Già dai trailer rilasciati in attesa dell’uscita ufficiale sulla piattaforma di streaming si respirava un’aria diversa, una consistenza più dark e sensuale rispetto alle precedenti stagioni. Tutte promesse mantenute: la violenza, la carnalità, l’empatia e la sofferenza dei personaggi sono state rese magistralmente da un cast che non delude le aspettative. Tom Ellis è struggente nei primi episodi, innamorato e tormentato. Poi il tradimento e la ferita nel suo petto che diventa più profonda, in cerca di un qualsiasi sollievo.

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Ed ecco che fa la sua comparsa Eva, la prima donna, in veste di sua ex fidanzata tornata a camminare sulla terra per riprovare quei brividi che solo un diavolo poteva farle respirare. Ma Lucifer è cambiato, nonostante i tentativi di mascherare la sua nuova natura con alcol, libido e violenza, la ferita non fa che diventare sempre più grande fino a giungere a conseguenze che sembreranno irreversibili. Dall’altro lato della medaglia Chloe, terrorizzata a morte da una verità che da sempre negava, cerca conforto in padre Kinley, sacerdote romano intenzionato a rimandare con qualsiasi mezzo Lucifer all’inferno. La detective non riesce, però, a credere che il suo partner sia il male incarnato e rivela nell’epilogo finale i suoi sentimenti per Lucifer. Lo ama, ma lui non potrà più stare al suo fianco. Un personaggio che in tutte le stagioni si è rivelato forte nelle scelte, sempre rivolto verso la rettitudine, ora è influenzabile dal male: lei è incerta, spaventata, vera.

Rielaborazione del lutto: Charlotte

La fede vacilla in tutti i personaggi dopo la scomparsa di Charlotte Harris (Tricia Helfer), figura chiave della passata stagione, che ottiene la redenzione da una vita corrotta dal denaro e l’ingresso in paradiso. La sua morte porterà Dan Espinoza (Kevin Michael Alejandro), amante di Charlotte, a una nuova evoluzione, in cui la forza interpretativa lo renderà rabbioso e scostante verso Lucifer, capro espiatorio per la morte della donna che amava. Anche per la dolce Ella Lopez (Aimee Garcia) la fede sembrerà adesso un pavimento scosceso da cui prendere le distanze, ma lei è forte e in questa stagione mostra lati che non ci saremmo mai aspettati di vedere.

Ma qualcosa non torna

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La figura di Eva, che ha conquistato gran parte della critica, a mio avviso è quel piccolo tassello troppo superficiale che ha creato una scossa non proprio perfetta nella trama. Fondamentale per il movimento e l’azione della storia, lasciva e compiacente nei confronti del personaggio principale, porta dietro di sé una serie di danni quasi dettati per poter far crescere i personaggi principali, ma che non le restituisce lo stesso impatto conquistato da altre figure nel cuore degli spettatori. Lei è la controparte perfetta di Lucifer: in primis Amenadiel mette in guardia lo stesso perché sa che lei desidera riavere l’uomo con lo stesso carattere che l’ha corrotta in paradiso, invece Eva si dimostrerà troppo vulnerabile e labile. La prima donna che ha vissuto millenni, è priva di volontà, capricciosa. Altro punto debole è la sua umanità: tornata sulla terra scappando dalla città d’Argento non si sa in quale modo, riesce miracolosamente ad avere il suo corpo, privo di alcun potere soprannaturale ma in grado di reggere lo stesso stile di vita di un angelo, senza ripercussioni. Lei è bella, solare, sensuale, dolce, conquista tutto il cast, ma purtroppo non chi scrive.

 COMPARTO TECNICO

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Per quanto riguarda il comparto tecnico, abbiamo anche qua un miglioramento netto nella qualità, sia di movimenti di camera che di fotografia. Le scene sono girate magistralmente, con piani sequenza che agevolano la ricezione del pathos nelle scene più forti, supportate da una fotografia ricca di contrasti e una scelta sonora come sempre squisita. Una perla l’interpretazione di Mazikeen del pezzo Wonderwall, in grado di emozionare per le scelte adoperate nel ri-arrangiamento. Nella città degli angeli caduti non mancano in sottofondo brani blues e rock, colonne perfette per i nostri personaggi. Gli effetti speciali sono ottimi, nonostante la difficoltà nel rendere il diavolo nella sua interezza, la credibilità è resa abbastanza bene.

IN CONCLUSIONE

Lucifer è riuscito a condensare in dieci episodi una stagione quasi perfetta, correndo veloce verso un epilogo che ha strappato il cuore a molti fan della serie. Tom Ellis ha fatto innamorare migliaia di persone, con una recitazione in grado di conquistare anche i cuori di pietra. È una stagione piena di sensualità, ironia e sangue, l’oscurità che solo un diavolo può portare con sé e noi la adoriamo per questo. Restiamo in attesa del rinnovo per la quinta stagione, di cui i produttori hanno già in mente la prima puntata, manca solo la conferma di Netflix.

Miriam Caruso

 

[#NerdReview] Detective Pikachu, un giallo con un Pokémon giallo – Recensione

Detective Pikachu è arrivato al cinema tra aspettative e molte sorprese.

Non avrei mai immaginato di andare al cinema a vedere alla prima un film live-action sui Pokèmon. Per quanto fossi titubante, però, il mio essere fan di quelle creature così diverse tra loro, mi ha portato ad alzare la cornetta e chiamare colui che in redazione è il più esperto del settore: il nostro Chamix.

Armati di sanissimi dubbi e una flebile speranza ci siamo avventurati nella visione di questa pellicola della durata di soli 104 minuti e ne siamo usciti con il sorriso sulle labbra. Il film ci ha soddisfatti, ci ha dato la giusta dose di comicità, emozioni e meraviglia superando le nostre aspettative.

Andiamo, però, a scoprire nel dettaglio ciò che abbiamo trovato di positivo e negativo.

LA STORIA

La trama del film ricalca più o meno quella dell’omonimo videogioco per 3DS. Aggiunge qualche porzione nel finale rivelando quello che avviene dopo e velocizza il tutto per adattarlo al mezzo cinematografico. Alcune scene, però, vengono cambiate e vediamo infatti il combattimento con Charizard (assente nel gioco) e facciamo la conoscenza della giornalista della CNM già nel primo quarto di film. Seppure in alcune parti sia prevedibile, la storia è capace di grandi momenti sia di azione che di emozione, senza trascurare la componente investigativa tipica dei gialli. Lievemente differente anche l’ambientazione. Nel film ritroviamo infatti un contesto quasi cyberpunk con molte luci al neon e tecnologia avanzata che convive coi più tradizionali chioschi di sushi per le strade. Piccola nota per gli amanti del franchise: il Mewtwo presente all’interno del film è lo stesso del film animato Pokémon il film – Mewtwo contro Mew del 1998.

IL CAST

Gli attori hanno assunto il compito di far immedesimare il pubblico nel mondo dei Pokémon: lo stesso universo narrativo e immaginifico in cui molti fan della serie vorrebbero vivere come allenatori. Il giovane Justice Smith, attore principale del film, è alla sua quinta pellicola e riesce a rappresentare al meglio il complesso background del protagonista dell’omonimo videogioco, trasmettendo il peso di un vissuto non proprio rose e fiori.

Insieme a lui c’è Ryan Reynolds che con la sua voce anima uno dei testimonial più importanti di casa Nintendo: Pikachu. Seppure siamo tutti abituati a vedere il piccolo Pokémon elettrico in modo amorevole e amicale, Reynolds riprende bene la sua controparte del videogioco rendendolo diverso, più accattivante e maturo. Da notare che l’anima metartistica di Reynolds emerge anche in questo film. Detective Pikachu è infatti disseminato di easter eggs e riferimenti a moltissimi meme famosi sul web, dal più classico “non puoi litigare con tuo padre, se non hai un padre” alla sequenza dell’ingresso di Tim nella casa a Ryme City che cita Mamma, ho perso l’aereo e la famosa scena di Angels with Filthy Souls.

COMPARTO VISIVO

Tutti i Pokémon, come abbiamo visto anche nei trailer e nelle featurette prima dell’uscita della pellicola, sono fatti in computer grafica. Allo stesso modo gli alti palazzi e buona parte della scenografia. Gli innesti però non sono affatto chiassosi e si amalgamano molto bene con i soggetti reali e così anche i Pokémon che riescono ad essere molto espressivi. Però, la domanda che tutti ci siamo posti prima della visione è: “Quanti Pokémon ci sono? C’è il mio preferito?”.

In effetti, in Detective Pikachu c’è un gran quantitativo di Pokémon che spaziano dalla prima generazione fino a quelli trovati nella regione di Kalos. Perciò, se il vostro preferito è tra questi c’è una buona possibilità di vederlo. Una delle pecche che abbiamo riscontrato, però, è che seppure nella prima parte del film ci sia uno tsunami di creature differenti, a lungo andare, soprattutto nella seconda parte, si ripetono più e più volte gli stessi Pokémon, guastando quella sensazione di meraviglia iniziale. Nel complesso però la CGI è molto gradevole, la fotografia è eccellente e favorisce la grande gamma di colori delle piccole creature senza falsare in toni troppo saturi. Bisogna però fare un applauso al riguardo che hanno avuto per la verosimiglianza delle creature, che rispettano a pieno le voci del Pokédex per le caratterizzazioni.

Questo particolare è evidente fin dalle prime scene in cui il protagonista cerca di catturare il piccolo Cubone. Il Pokédex infatti recita: “Porta il teschio di sua madre come elmetto. Il suo verso, che fa eco nel teschio, è una triste melodia.” Tim lo trova così in una pianura a piangere e poi arrabbiarsi non appena il protagonista nomina il teschio della madre defunta. Altri esempi li abbiamo con le emicranie di Psyduck che causano esplosioni psichiche o con Charizard a cui non bisogna toccare la fiamma presente sulla coda.

AUDIO E COLONNA SONORA

Ogni Pokémon, come sappiamo, ha un proprio verso particolare. Di solito questo viene presentato come il nome ripetuto molteplici volte in diverse eccezioni ed intonazioni. Tuttavia, siamo rimasti piacevolmente sorpresi di trovare un leggero cambio di rotta, per cui finalmente i Pokémon riescono ad avere una propria voce (non è una battuta su Ryan Reynolds). Alcune creature, come Bulbasaur, Charizard, Mr. Mime, Snubbul… fanno dei versi (o non versi in caso di Mime) inerenti alla loro grandezza e atteggiamento. Certo, non tutti, ma è di sicuro un punto d’inizio per un futuro più realistico. Da notare un particolare easter egg nella scena che vede Pikachu cantare una canzone la cui melodia è presa direttamente dal sopracitato primo film sui Pokèmon.

CURIOSITÀ

Altre curiosità provenienti dal film riguardano la mitologia Pokémon e la regione in cui sarebbe inserita Ryme City. Nella camera del protagonista possiamo notare il poster della Lega di Sinnoh. Più avanti nel film vediamo anche le statue raffiguranti le tre divinità della medesima regione (Palkia, Dialga ed Arceus) e, per chi non l’avesse notato, la giornalista a cui Lucy ruba il tesserino si chiama Cynthia (nome originale della campionessa Pokémon della Lega di Sinnoh nel videogioco). Inoltre, è la prima volta che Arceus viene deliberatamente tirato in causa da un Pokémon per un evento accidentale infausto. E, seppure possa sembrare una gag per ridere, dona alla figura divina del Pokémon creazione il suo giusto posto nel pantheon e nell’universo in cui è inserito.

IN CONCLUSIONE

Nel complesso, Detective Pikachu ci è piaciuto. Ne siamo rimasti sorpresi e abbiamo riso nel raccontarci i dettagli alla fine della proiezione. Non siamo di fronte ad un capolavoro del cinema ma concordiamo nell’affermare che

“Detective Pikachu è il miglior film Live-Action tratto da videogioco fino ad ora realizzato”.

Daniele Ferullo & Carmine Aceto

[#NerdReview] Nemesis, la recensione del terzo capitolo della serie

È da poco uscito il terzo volume di Nemesis, il fumetto horror comedy disegnato da Davide Rende e sceneggiato da Antonio Malfitano.

Perla di una Calabria che si racconta e ci mostra uno scenario storico ed antropologico vasto quanto interessante. Cinque sono i volumi, in pubblicazione discontinua, previsti per il completamento dell’opera.

La Trama

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La storia riparte da dove ci siamo fermati nel secondo volume della serie. Il protagonista, Tacito Germano, un antropologo finito per errore nel paese di San Fili a seguito di un incidente, ha perso le tracce della compagna Daniela, che si trovava assieme a lui in auto. Durante la sua permanenza a San Fili, Tacito incontrerà strani personaggi, finendo spesso in pericolo a causa di forze soprannaturali a lui sconosciute. In questo volume, grazie all’aiuto di Ivan, il protagonista riesce ancora una volta a salvarsi la vita, ma le difficoltà continueranno a sbarrargli il cammino. Tra riti satanici, zombi e incontri misteriosi, l’antropologo entra a contatto con realtà a metà strada tra la vita e la morte. Manufatti antichi e presenze terrificanti spingeranno l’antropologo a confrontarsi con le sue paure, non tirandosi indietro nel momento del pericolo.

Il Commento

L’albo che conta 74 pagine, ampliamento di storia rispetto alle 48 del precedente, ci porta tra le mani una continuazione che mostra i grandi miglioramenti delle due menti dietro questo lavoro. A livello grafico troviamo una caratterizzazione particolareggiata dei personaggi secondari, che guidano il protagonista alla ricerca del suo obiettivo. Molti di questi sono persone reali, alcune delle quali non ci sono più, quindi l’omaggio del disegnatore li ha resi immortali nelle pagine di Nemesis. Il tratto dylandoghiano della grafica è reso palese anche dalla presenza di tavole in cui i personaggi non parlano e prende voce il narratore, con frasi poetiche correlate alla storia. La cura dei dettagli è altamente apprezzabile, dalla chiesa al treno a vapore, i disegni sembrano voler uscire dalle pagine dell’albo, dando un’immagine vivida e reale a chi quei luoghi e quegli elementi li ha potuti ammirare di persona.

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L’influenza della vasta conoscenza storica di Malfitano è palese in tutta la sceneggiatura, che offre spunti di ricerca interessanti senza voler essere pedante. Particolari sono i simboli sulle pietre e sul vaso degli Enotri, in quest’ultimo compare ripetutamente l’incisione di una svastica: simbolo controverso, utilizzato dalla Germania Nazista come veicolo per l’odio razziale, nasce in origine come identificativo del culto del Sole già in età del Ferro, con accezione di rinascita e speranza. Altro elemento interessante è costituito dalla figura della magara satanista, che con intrugli particolari prepara la vittima designata al sacrificio a Lucifero. Ciò spinge il lettore a guardare alla figura della magara come complessa, in grado di seguire cammini benevoli o malevoli in un sentiero più oscuro. Nelle pagine di Nemesis gli elementi che ci conducono a studi religiosi e storici sono davvero tanti, come gli angeli caduti, donne angelo dalle fattezze delicate che possono trasformarsi in demoni alati pronti a mietere vittime.

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Le tavole più belle, a mio avviso, sono quelle utilizzate per i flashback: l’effetto acquerello, utilizzato con parsimonia nell’albo, rende l’ambientazione più “corposa”, dando una dimensione concreta ai personaggi rappresentati.
Il lato comedy esce fuori spesso all’interno dei dialoghi, con giochi di parole e linguaggio esplicito, in grado di rompere le barriere della censura per restituire conversazioni verosimili e di impatto.
Infine, quel collegamento tra mondo dei vivi e mondo dei morti, metaforizzato con l’utilizzo di un treno a vapore in partenza da una stazione in disuso, costituisce quel passaggio da una linea temporale all’altra, che ci aiuta a seguire il protagonista in un momento delicato della storia, abbandonato poi alle mani di una sconosciuta che lo condurrà in situazioni pericolose e senza apparente via d’uscita.

In conclusione

Questo terzo volume ci è piaciuto, nella scorsa recensione abbiamo suggerito un ampliamento della sceneggiatura per una maggiore godibilità di lettura e il nostro desiderio è stato accolto. Un albo che, come detto più volte, rende felice un amante di Dylan Dog o delle serie horror italiane, come quelle contenute nella collana Splatter che molti amanti del genere conoscono.
A mio avviso, ho trovato interessante l’abbondanza di elementi antropologici e storici, i volti e le espressioni che ci accolgono in una terra mistica come quella di San Fili. Restiamo in attesa dell’uscita del quarto albo della serie. Intanto il primo è già in ristampa con all’interno scene inedite e sarà possibile reperire Nemesis presso lo stand dedicato al Cosenza Comics 2019.

 

Miriam Caruso

[#NerdReview] Le terrificanti avventure di Sabrina parte 2, la recensione

E’ da poco uscita su Netflix la seconda parte delle Terrificanti avventure di Sabrina, serie ispirata al celebre telefilm anni ’90 e che trova riscontro anche in un’avventura a fumetti dell’Archie Comics.

Abbiamo vissuto tutte d’un fiato le 9 puntate di questa seconda stagione, tanto attesa dai fan del genere horror/adolescenziale, giungendo a idee abbastanza contrastanti sul godimento di questa serie. Ma partiamo da principio e delineiamo la trama degli episodi. Ovviamente, attenti agli spoiler!

La Trama

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Ci siamo lasciati nella prima stagione con tre rivoluzioni importanti per Sabrina: la firma del libro del Signore Oscuro, la separazione da Harvey Kinkle e la decisione di addentrarsi anima e corpo nell’accademia delle arti oscure.
Ora Sabrina, con un look molo più dark, decide di studiare seriamente la magia, immergendosi totalmente nella vita dell’accademia, prendendo una pausa dalla Baxter High. In questo suo percorso viene ostacolata da lord Blackwood, figura maschilista e conservatrice. Con il prosieguo degli episodi si fa chiarezza sul reale rapporto tra la protagonista e il Signore Oscuro, legame che porterà a far luce sul destino dei poveri genitori di Sabrina e sullo scopo che coinvolge la giovane in una profezia apocalittica.

Il Commento

Le atmosfere di questa seconda parte si sono fatte molto più cupe rispetto alla precedente, le ambientazioni hanno dato piena soddisfazione ai fan del dark, creando contrasti forti tra il mondo chiaro degli umani e quello cupo delle streghe. Se nella prima parte si sono appena delineati i tratti dell’accademia delle arti oscure, in questa seconda stagione ne abbiamo una visione completa. I personaggi finalmente trovano uno spazio di approfondimento, acquisendo pregi e difetti. La protagonista in sé mostra i tratti tipici di un’adolescente in cerca di risposte, pronta in prima persona a sacrificarsi per chi le sta accanto. In alcuni casi è esasperata la consapevolezza di essere una strega, con poteri troppo grandi per una sedicenne, ma ciò servirà a demistificarla, rendendo ancora più forti i suoi connotati umani. Per quanto riguarda Nicholas Scratch, nuovo fidanzato di Sabrina e stregone, servirà a distaccarla e a spingerla a compiere decisioni sul sentiero magico, creando non pochi dubbi nella testa della giovane donna.

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Altra figura di spicco sarà quella di Miss Lilith/Wardwell. Antagonista perfetta, Miss Satana è un personaggio con una forza incredibile, che spingerà Sabrina a compiere inconsapevolmente il cammino voluto dal Signore Oscuro,  trovandosi al suo fianco in risvolti anche inaspettati. In questa seconda stagione ne apprezziamo la sensibilità, il cuore ferito e la forza di donna indipendente, la stessa che si era inchinata al cospetto di Lucifero e che ora potrebbe essere pronta a dominare l’Inferno. Non a caso, la donna sarà in grado di creare un “uomo” da uno spaventapasseri, un Adamo che potrà camminare ed eseguire il suo volere grazie alla presenza di una costola di Lilith al suo interno, un richiamo biblico che capovolge i ruoli.

I temi trattati sono molteplici, quello più evidente è la sfumatura altamente femminista della serie, che trova terreno fertile in un’opera dedicata al mondo della stregoneria: di contro, Lord Blackwood è la sfaccettatura del maschilismo e della disparità di genere per eccellenza. Sabrina sarà quella lancetta che farà crollare il predominio del mago sull’accademia, contrastandone il potere e spingendolo verso equità con la forza dell’intelletto. Altro chiaro segnale del maschilismo è esercitato nei confronti di zia Zelda, sposa/bambola di Lord Blackwood, sarà la famiglia a liberarla dalla soggezione dell’uomo.

Altro tema, vicino alla disparità di genere, sarà quello che coinvolgerà Susie Putnam, che non riesce a riconoscersi nel mondo femminile e deciderà di diventare Theo. Una storia che ha un inizio travagliato, fatto da un inizio discriminatorio all’interno della scuola, che trova confortante e giusto epilogo nell’accettazione e le scuse da parte di chi la perseguitava. 

Il ritmo delle puntate è travolgente, i colpi di scena si susseguono con velocità, lasciandoci alcune volte frastornati, ma comunque attaccati allo schermo. Le nuove capacità di Sabrina portano un dislivello ai limiti del blasfemo, in alcuni casi, nella narrazione della storia. Ma stiamo parlando comunque di una serie rivolta ad adolescenti, quindi stemperata in alcuni casi con trovate ironiche anche abbastanza ridicole. Sto parlando delle sfide poste dal Signore Oscuro alla giovane strega, che spesso e volentieri non verranno accomodate per incomprensibilità e leggerezza.

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I risvolti creepy non mancano, soprattutto quelli che la coinvolgeranno sia Lilith che la stessa protagonista, ma ne sentivamo anche il bisogno. Il sangue scorrerà a fiumi, la morte è un elemento che comunque non può scostarsi da una serie che punta al mondo horror, ma non tutto è irreversibile.

Il punto di debolezza

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Il punto di debolezza per eccellenza della serie è, a mio avviso, il Signore Oscuro. Una figura che si mostra in fin dei conti debole nella sua manifestazione finale. Avevamo aspettative alte: Lucifero è stato venerato per secoli, nella sua chiesa, eppure è il più umano di tutti, tanto da farsi prendere sotto scacco dagli altri personaggi della serie.

Comparto tecnico

Per quanto riguarda gli effetti speciali adoperati nella serie, abbiamo un’impennata di qualità eclatante: l’accrescimento di poteri ha richiesto una forza di effetti incredibile, che è stata degna delle aspettative. Le musiche ci mantengono in quel mood cupo, con uso di bassi e archi che creano la giusta tensione nello spettatore.

In conclusione

Sabrina è un’opera godibile, che intrattiene lo spettatore adolescente tanto quanto il nostalgico degli anni ’90. Le donne sono la forza che spingono la trama a una risoluzione, toccherà alle Spellman ricostruire la chiesa della notte e a Lilith l’inferno stesso. Alcuni buchi di trama ci lasciano spaesati, ma nulla di rilevante a tal punto da non farci apprezzare la serie. La terza stagione vedrà l’inizio delle riprese questo 29 aprile, intanto è certa la conferma anche di una quarta stagione.

Gli episodi della prima e seconda parte della serie sono disponibili su Netflix.

 

Miriam Caruso 

[#Manga] Paradise Kiss, la recensione dell’opera di Ai “Nana” Yazawa

Paradise Kiss è un manga che non ha bisogno di presentazioni.

Uno dei maggiori successi dell’amatissima Ai “Nana” Yazawa, che mescola in modo assolutamente perfetto il mondo della moda con la commedia romantica, più adulta rispetto agli standard dei manga josei (genere indicato alle giovani donne) nel periodo in cui è uscito. Paradise Kiss, infatti, è apparso per la prima volta serializzato sulla rivista giapponese di moda Zipper (citato spesso all’interno del manga) del 1999 al 2003, come spin-off dell’amatissimo “I Cortili del Cuore”, famosa opera dell’autrice da cui è stato tratto un anime di successo trasmesso anche in Italia.

LA TRAMA

La protagonista è Yukari Hayasaka, studentessa liceale in pieno periodo di esami preparatori per l’ingresso all’università, la cui vita viene sconvolta dall’incontro con quattro studenti dell’Istituto d’arte Yazawa. Yukari si innamorerà del loro leader, il carismatico Joji, che sconvolgerà la sua vita con una proposta inaspettata: sfilare come modella!

IL COMMENTO

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Vera protagonista è la moda: dal punk allo sweet lolita, dallo stile vittoriano a quello da dandy: ogni personaggio ha il suo stile ed è caratterizzato in maniera realistica e coinvolgente. In l’occasione dei suoi 20 anni, anche la Planet Manga ha deciso di ristampare in un unico e corposo albo tutti e cinque i volumi della serie, sostituendo l’edizione deluxe uscita nel lontano 2008, ormai fuori catalogo.

L’edizione si presenta con una copertina gialla su cui risaltano gli splendidi disegni dell’autrice, anche se il bianco scelto per il titolo risulta un po’ troppo “sgargiante” accostato a un colore come il giallo (seppur non crei particolari problemi di lettura); la copertina cartonata e ruvida al tatto e non è stata forse la scelta ottimale in cui contenere questa enorme quantità di pagine (poiché è molto morbida e la paura che si possa piegare e rovinare costringe il lettore a fare più attenzione quando lo si maneggia), ma tutto sommato fa il suo dovere, rendendone l’apertura comoda e non difficoltosa.

All’interno le pagine sono bianchissime, ma anche sottilissime, molto più dell’edizione deluxe che invece risultano più resistenti (anche se di qualità inferiore); i dialoghi, molto piccoli all’interno dei baloon nelle edizioni precedenti, qui sono stati ingranditi e ciò permette una lettura più godibile e meno stancante; tuttavia, risulta evidente che non c’è stato un lavoro di revisione degli stessi e sono presenti errori di battitura che (probabilmente) erano presenti anche in passato. Anche la dimensione in altezza è rimasta invariata.

In sostanza, è un’edizione senza infamia e senza lode, equilibrato dal punto di vista della qualità –prezzo (25 euro), seppur sarebbe stata gradita qualche pagina a colori e un’attenzione in più per correggere sviste che avrebbero reso vincente la riedizione di un’opera di questo calibro.

Vittoria Aiello

[#CiNerd] Shazam! – Recensione: la DC punta sulla leggerezza

Dal fumetto al cinema, Shazam! porta la gioia nel mondo DC.

Quando parliamo dell’universo DC Comics, siamo portati a pensare alle tinte scure di Batman, alla gravità delle scelte di Superman o alla lunga vita e le lotte di Wonder Woman.

Sebbene soprattutto con Aquaman la DC abbia provato a percorrere una strada più “allegra”, possiamo dire che Shazam! sia un passo ulteriore verso la spensieratezza e la meraviglia, cosa che solo un Capitan Marvel avrebbe potuto fare.

CHI È SHAZAM?

La storia di Shazam inizia tanto tempo fa. Il personaggio nacque nel 1940 in seno alla Fawcett Comics, ispirato al supereroe che stava diventando icona della cultura pop americana: Superman. Da allora, il personaggio è stato continuamente modificato nel corso dei decenni fino ad arrivare allo Shazam! visto al cinema. Per dire, durante un certo periodo in cui i diritti del personaggio non poterono essere legalmente mantenuti (prima si chiamava davvero Capitan Marvel!), molte altre case editrici provarono a cavalcare l’onda della sua enorme fama. Tuttavia, alla fine la spuntò la DC Comics che acquistò legalmente i diritti per la pubblicazione del personaggio, mentre la Marvel ottenne quelli per il nome. Così ebbe vita “Shazam!”.

TRAMA

Finita la premessa storica, iniziamo a parlare del film.

Billy Batson (Asher Angel) è un orfano che scappa da ogni famiglia in cerca della sua vera madre, che però non riesce a trovare. Viene adottato poi da una coppia che vive in una casa-famiglia e qui fa la conoscenza dei suoi nuovi fratelli e sorelle. Billy è solo un ragazzino di quindici anni, non ama la compagnia degli altri e ha sempre vissuto di espedienti, ma un giorno tutto cambia. Scappando da dei bulli incontra in metropolitana il mago Shazam (Djimon Hounsou) che gli trasferisce tutti i suoi poteri, diventando il campione del bene. Acquisiti poteri mitologici come la forza di Ercole, i fulmini di Zeus, la velocità di Mercurio e la resistenza di Atlante, Billy si trasforma nel suo massimo potenziale: una versione adulta (Zachary Levi) che mantiene la coscienza e l’intelligenza del ragazzo.

Nonostante i vari tagli alla storia originale, Shazam! si districa bene tra le tematiche spigolose della vita nelle case-famiglia, delle adozioni e della povertà. Le affronta con leggerezza, ma senza mai cadere nel ridicolo. Billy Batson infatti è abituato alla povertà e anche con i poteri di Shazam, più che fare il supereroe, cerca di guadagnarsi da vivere con balli e selfie a pagamento. Non ci sono nel film profondi buchi di trama, sebbene alcune scene lascino interdetti sulle scelte del protagonista, che sembra “istupidirsi” non appena apprende il concetto di famiglia. Difatti, ci troviamo davanti un film per famiglie, in cui l’affezione tra fratello, sorella e genitori fa da netto contrasto con la solita moda del supereroe che vuole lasciare il mondo all’oscuro della propria esistenza.

COMMENTO

Per quanto riguarda la parte iniziale del film, possiamo forse fare una piccola analogia con Spider-Man: Homecoming. Simile è l’atteggiamento di apprensione alla scoperta dei poteri in Peter Parker e Billy Batson ed entrambi contano su una spalla. Per Billy l’aiuto dell’amico “nerd” Freddy è fondamentale per comprendere quell’universo supereroistico che non conosce a fondo. Ricordiamoci, infatti, che il mondo in cui il film si sviluppa è condiviso con Superman, Batman, Wonder Woman… e ci sono molteplici riprove all’interno della pellicola stessa.

Tasto dolente è rappresentato dal villain. Non ci troviamo di fronte a un nemico di grande spessore, la sua storia è simile a quella di tanti altri e forse egli pecca di infantilità, anche più del protagonista stesso, che però ha quindici anni. Una visione estesa della storia originale del Dottor Sivana avrebbe sicuramente dato al personaggio una dimensione migliore rispetto a quella del burattino presente in questa versione cinematografica, ma il dado è tratto.

COMPARTO TECNICO

Nonostante il film duri poco più di due ore, avvengono dei salti in avanti nella storia poco congrui: il montaggio avrebbe potuto essere migliore. Alcune scene sono per lo più inutili e di puro intrattenimento ludico. Tuttavia, Shazam! non pecca di lentezza e ciò rappresenta comunque una grande differenza rispetto ad altri film del DCEU che invece sono sia di fama che di fatto molto più pesanti.

Buoni gli effetti speciali: l’altissima saturazione del costume (che riproduce la versione originale del 1940) non urta gli occhi, ma rende l’idea di supereroe fuori contesto. La colonna sonora è tipica del film di supereroe, con alcune citazioni sia nelle scene che nelle musiche a Superman e agli altri eroi DC. È possibile notare, un po’ come in Teen Titans Go, la presenza di moltissimi easter eggs e citazioni alle altre testate fumettistiche. Fate attenzione quindi ai poster, alle magliette del co-protagonista e ai dettagli per trovare qui e lì riferimenti acculturati.

IL PUNTO

Se dovessimo piazzare Shazam! su di una scala nella vita della DC, potremmo constatare che qualche gradino è stato risalito. C’è da dire che in ogni caso più in basso non si poteva andare! Non mi fa sperare in un cambio di registro della DC riguardo il mood delle sue pellicole: i personaggi stessi della casa editrice (almeno quelli di punta) sono per lo più tetri e molto seri e questo gioca e giocherà sempre un ruolo importante nell’elaborazione delle sceneggiature.

Tuttavia, sento di essere speranzoso, forse una luce s’è accesa e possiamo risalire dal seminterrato da incubo in cui la DC ci aveva fatto sprofondare.

Daniele Ferullo

[#NerdReview] Alita – angelo della battaglia, la recensione

Dopo tante attese e rimandi, finalmente il nuovo attesissimo film tratto dal famoso manga di Yukito Kishiro, di grande importanza all’interno dell’intero panorama fumettistico per le sue tematiche intense, arriva nei nostri cinema: Alita.

La pellicola, diretta da Robert Rodriguez e prodotta da James Cameron (che non hanno certo bisogno di presentazioni) ha rispettato la natura del prodotto, portando su schermo una dignitosa trasposizione della storia di Alita. Infatti è proprio questo che più ha reso soddisfatta la cerchia dei fan, ovvero il fatto che ci fossero tutti gli elementi rappresentativi del manga, come lo spettacolare Motorball, che lo stesso Cameron ha confessato di non poter fare a meno di inserire, seppur con qualche modifica alla trama originale.

Ma vediamo nel dettaglio questa ennesima trasposizione hollywoodiana di un’opera nipponica.

LA TRAMA

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Nella Città di Ferro, anno 2563, il dottor Ido va alla ricerca di pezzi di ricambio per svolgere la sua professione di medico all’interno della grande discarica della città, in cui trova un cyborg di fattezze femminili con un cervello umano intatto. Ido la riparerà e scoprirà che il robot non ha memoria di come sia finita nella discarica. E così il dottore le darà un nome a lui molto caro: Alita. All’interno della sua nuova vita, Alita farà la conoscenza di Yugo, giovane col sogno di raggiungere un giorno Salem, la Città Sospesa, e con cui stringerà un rapporto speciale. cyborg spietati  saranno pronti a ucciderla, cosa che le farà scoprire delle potenzialità combattive sopite che si manifestano grazie al suo senso di giustizia e alla volontà di combattere il male.

IL CAST

Il cast, formato da Rosa Salazar nel ruolo di Alita, Christoph Waltz nel ruolo di Ido, Jennifer Connelly nel ruolo dell’ambiziosa scienziata Chiren, risulta essere azzeccato e le interpretazioni sono state di alto livello. In particolare la Connelly ha saputo dare la giusta caratterizzazione al personaggio di Chiren, seppur con qualche cambiamento ai fini della sceneggiatura, sempre curata da Cameron.

COMPARTO TECNICO E COMMENTO

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La CGI era probabilmente la nota che spaventava di più i fan: se gli occhi della giovane protagonista sembravano a primo acchito grossolani e fuori posto, nella pellicola si amalgamano alla perfezione e, anzi, si cerca di dare una sorta di “giustificazione” alla scelta. La Città Sospesa colpisce per la sua bellezza e la sua realizzazione, ma sicuramente il punto più forte del film è l’azione: scene di combattimento spettacolari, acrobazie e partite di Motorball all’ultimo sangue fanno immergere lo spettatore al centro dell’azione, che quasi si tiene alla poltrona grazie alla fluidità delle immagini in movimento. In particolare, il corpo di Alita è leggiadro e sinuoso, muovendosi sullo schermo come se fosse una persona in carne e ossa. L’estetica dei cyborg riesce nella volontà di stupire per la grossa quantità di dettagli di cui sono composti e la luce che spesso si riflette su di essi dà il giusto spessore e volume, senza sembrare “finzione”.

Per quanto riguarda i difetti, perché nessuna pellicola è perfetta, il ritmo è altalenante, tra fasi molto concitate e altre in cui si ha la presenza di qualche “spiegone” di troppo, seppur non vada a minare la fruibilità del tutto (anche se un fan potrebbe essere un po’ pignolo su queste sbavature).
Anche la regia fa il suo dovere, mostrando la bellezza di alcuni scorci della Città di Ferro e dell’imponente Salem.
Tutto sommato, la combo Rodriguez-Cameron ha raggiunto il risultato sperato, lasciandoci la speranza di riuscire a proseguire la storia, dato il finale aperto.

Speriamo che anche il botteghino premi gli sforzi di Hollywood, che in questo caso, si è comportata in modo rispettoso verso l’opera originale e (soprattutto) verso i fan.

Vittoria Aiello

[#CiNerd] Ant-Man and The Wasp, la recensione

Dopo il trauma da schiocco di “Avengers: Infinity War”, tornare al cinema per un cinecomic Marvel ha richiesto forza di volontà e un coraggio non indifferente, che solo i veri supereroi possono vantare.

Fortunatamente, ho abbastanza audacia per affrontare queste sfide e, purtroppo, una curiosità sproporzionata che presto mi farà finire come metà dell’universo: in polvere. Vi assicuro che vedere Ant-Man And The Wasp è un’esperienza piacevole e, usciti dalla sala, non sarete disperati. 

Nessuna domanda vi frullerà in testa… beh, forse qualcuna sì.

LA TRAMA

Innanzitutto, in che tempo si colloca la storia diretta da Peyton Reed?

Ant-man-and-the-Wasp-Scott-Lang-and-Hope - marvel - cinematic universe - recensione

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film è il tassello mancante tra i fatti di Capitan America: Civil War e quelli narrati nell’ultimo, epico cinecomic dei fratelli Russo.

Scopriamo, perciò, che dopo l’aiuto prestato a Steve Rogers, Scott Lang è finito agli arresti domiciliari per aver violato gli accordi di Sokovia. Da allora sono passati due anni e, colpevole di aver preso parte allo scontro nell’aeroporto di Lipsia, l’ex ingegnere elettronico non ha più avuto alcun contatto con Hank Pym e sua figlia Hope van Dyne, costretti alla fuga perché ricercati dall’FBI. Leitmotiv della pellicola, e questa è la grande differenza con gli altri film del MCU, è la famiglia.

Sì, avete capito bene!

Non ci sono Thanos a cui mirare alla testa o Ultron da distruggere. Scott Lang ha solo tre giorni di domiciliari da scontare prima di essere libero di trascorrere le giornate fuori casa con sua figlia Cassie ed è disposto a tutto pur di comportarsi da bravo recluso e non combinare pasticci. Ovviamente, nulla andrà secondo i piani. Come ricorderete dal primo capitolo, infatti, Scott Lang è stato protagonista di una toccata e fuga nel misterioso Regno Quantico e, nel corso di questo breve ed entusiastico soggiorno, ha stabilito una sorta di legame con Janet van Dyne, moglie di Hank e madre di Hope, dispersa tra le molecole oltre trent’anni prima. Per questa ragione, padre e figlia hanno bisogno di un incredulo Scott per rintracciare la donna perduta, quasi un modo per farsi perdonare i tafferugli di Lipsia. A uno Scott che proprio non riesce a tenersi lontano dai guai e una missione di salvataggio improbabile quanto rischiosa, aggiungiamo un paio di villain e i fidati collaboratori di Lang, capitanati da un Luis in grande spolvero: ecco confezionato un cinecomic d’intrattenimento ma non insipido.

IL COMMENTO

Ant-man-and-the-Wasp-Scott-Lang-and-Hope - marvel - cinematic universe - recensione

Le aspettative per il primo cinecomic Marvel post Infinity War, gargantuesco nella sua carica epica e nella cifra stilistica imponente, erano ridimensionate, diciamo a grandezza formica. Peyton Reed nella sua pellicola rinuncia a appesantire le scene di un eroismo da leggenda, consapevole che qualsiasi tentativo avrebbe rischiato di essere la caricatura di una grandiosità raggiungibile solo da un lungometraggio capace di tessere insieme pezzi di stoffa ricavati in dieci anni di storia, quale quello dei fratelli Russo, che sulle spalle hanno avuto l’arduo compito di incastonare storyline e personaggi complessi. Tuttavia, il merito di Ant-Man and The Wasp è proprio quello di incastrarsi nelle battute finali della Fase 3 del MCU, ormai avviata a conclusione, distendendo lo spettatore dopo il duro colpo inferto da Thanos e prima di quello che si preannuncia come un punto d’arrivo straordinario.

Se la famiglia è il leitmotiv della pellicola, ciò che invece la caratterizza è la spensierata ironia ma, fermi tutti, siamo ben lontani dalle battute trash di Thor: Ragnarok (ancora la ferita è aperta, dopotutto).

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La sceneggiatura, scritta a più mani da Chris McKenna, Erik Sommers e Paul Rudd stesso, è leggera e divertente, ma non banale né fine a se stessa. Più di una volta scappa la risata e, qualcuno deve pur dirlo, un bel merito va a Michael Peña, interprete di Luis, la spalla comica ideale per Scott Lang. Sebbene il gusto della risata domini la pellicola, non mancano i momenti di tensione drammatica, affidati a uno dei due villain del film, Ghost (interpretata da un’ottima Hannah John-Kamen) – un cattivo donna, uno dei pochissimi del MCU, sebbene la controparte fumettistica sia di sesso maschile –. Certo, in sincerità, nessuno dei due antagonisti si può definire come personaggio ben articolato e temibile; anzi, se Sonny Burch (trafficante di nuove tecnologie e secondo antagonista) riassume lo stereotipo del miliardario criminale e capriccioso, Ava/Ghost disperde il proprio carisma di cattiveria in una spirale di rabbia cieca e frustrazione – giustificata da una particolare condizione fisica, per altro –.  

Però, lo scopo del film non è tanto aprire la strada a nuove storie e nuovi personaggi, bensì intrattenere e nel contempo fare luce su un pezzo di storia non ancora nota, ma non così cruciale. Merito della buona riuscita del film va anche al cast, affiatato e dinamico: brevi ma intense le performance di Michael Douglas e Michelle Pfeiffer, altrettanto quella di Laurence Fishburn, che ha appeso al chiodo gli occhialetti da Morpheus e ha deciso di insegnare fisica all’università. Innegabile la chimica tra i due protagonisti, Evangeline Lilly e Paul Rudd e, lasciatemelo dire: il ruolo sembra cucito addosso a Paul Rudd, un Ant-Man perfetto, ironico, buon padre, coraggioso, quasi un eterno bambino.

DUE PROTAGONISTI E DUE MONDI CHE SI INCONTRANO

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I due protagonisti dividono e condividono molte scene del film, complementari l’uno all’altra: da una parte Hope, precisa, intelligente e pungente, dall’altra Scott Lang, scanzonato, un po’ romantico e casinista. La pellicola, del resto, si sviluppa all’insegna del dualismo: due i protagonisti principali, due i villain, due i piani della materia, due dimensioni, con il risultato di duplicare le storyline che, però, si riallacciano sempre a una sola, in maniera lineare e senza scarti tra una sequenza e l’altra. E se nel primo capitolo centrale era la figura del padre, con Hank Pym che quasi fa di Lang un suo erede ideale, un genitore che trasmette al figlio un’eredità, in questa pellicola l’attenzione si sposta sulla figura della madre, quella perduta da troppo tempo e che va ricercata con urgenza. Il film si svolge, così, come una corsa contro il tempo, letteralmente: l’arco temporale è di soli tre giorni e, come è necessario muoversi velocemente nel Regno Quantico per rintracciare Janet, così Scott ha fretta di tornare a casa e terminare la propria reclusione in maniera irreprensibile.

IN CONCLUSIONE

Questi elementi fanno di Ant-Man and The Wasp una godibile action comedy che, soprattutto nelle scene finali, si sviluppa in corse sfrenate lungo le strade a saliscendi di San Francisco e nei vischiosi anfratti del Regno Quantico. Le scene qui ambientate sono poi visivamente accattivanti e mirabili, grazie a un uso magistrale degli effetti grafici, in un’esplosione di colori e forme che, come in un flash, sembra richiamare le atmosfere spaziali dei Guardiani della Galassia. Come in ogni film Marvel che si rispetti, anche in questo caso non mancano le due scene dopo i titoli di coda, una delle quali si riallaccia agli eventi di Infnity War, lasciando con il fiato sospeso… ma niente spoiler! Certo, in questo secondo capitolo viene meno la novità che tanto aveva sbalordito nella pellicola precedente: ormai abbiamo imparato a conoscere Ant-Man, sappiamo cosa aspettarci da lui, eppure nessuna scena risulta mai noiosa o fuori contesto. Non servono la ricchezza di Tony Stark, l’intelligenza di Bruce Banner o l’ascendenza divina di Thor:

Scott Lang insegna che anche un uomo comune, goffo e imperfetto, può essere un supereroe.

VOTO: 8

Francesca Belsito