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[#Nerd30Consiglia] Noein: To Your Other Self, Recensione Anime

Torna la rubrica dei consigli anime di Nerd30, questa volta con un’opera di genere fantascientifico in 24 episodi, prodotta nel 2005 da studio Satelight.

Stiamo parlando di Noein, serie distribuita in Italia da Dynit per il reparto home-video (il cofanetto DVD si trova a meno di 20 euro su Amazon).

LA TRAMA

Nel futuro è scoppiata una terribile battaglia fra due linee temporali: Shangri-La, il cui obiettivo è l’annullamento di tutti gli universi, e La’cryma, l’ultimo baluardo dell’umanità. Pressato dalla sempre più consistente minaccia posta da Shangri-La, l’Ordine dei Cavalieri del Drago si mette in viaggio tra le infinite pieghe dello spaziotempo per trovare l’unica cosa in grado di assicurare la vittoria agli esseri umani: la misteriosa Catena del Drago.

Nel presente, l’apparizione di un misterioso Cavaliere del Drago di nome Karas sconvolge le vite di Haruka e del suo compagno di classe Yu: non solo il misterioso individuo identifica la ragazza come la Catena del Drago, ma afferma anche di essere uno Yu proveniente da un futuro lontano 15 anni. (fonte Wikipedia)

IL COMMENTO

nein

Noein è una serie che tratta il tema viaggio nel tempo in maniera parecchio interessante, utilizzando teorie scientificamente valide come “L’interpretazione dei molti mondi” di Everett, il paradosso del “gatto di Schrödinger” e in generale diversi temi legati alla meccanica quantistica. Per questo motivo risulta una serie parecchio complessa da seguire per chi non mastica determinati concetti scientifici.

gatto Schrödinger
Illustrazione sul paradosso del gatto di Schrödinger.

“In un lancio del dado avremo la stessa probabilità di ottenere il numero uno, o il numero sei, o uno qualsiasi degli altri numeri. In un universo quantistico c’è la possibilità che al momento del lancio l’universo si ramifichi in sei universi distinti, uno in cui è uscito il numero uno, uno in cui è uscito il numero due, ecc. L’unico modo per escludere 5 delle possibilità è l’osservazione del risultato.”

In Noein “osservare” un evento significa renderlo reale, dargli una concretezza che fino a quel momento non possedeva. Un concetto complesso ma semplice allo stesso tempo, del resto in questo momento state leggendo un articolo che fino a 2 minuti fa credevate non esistesse. L’osservazione dell’articolo concretizza la sua esistenza ai vostri occhi. Se immaginiamo che l’universo si ramifichi secondo infinite possibilità, abbiamo appena creato un universo in cui questo articolo esiste. In Noein funziona più o meno in questo modo.

noein

La serie ha dalla sua un cast di personaggi veramente solido, sia quelli principali che i comprimari. Inoltre il personaggio che da’ il nome alla serie si dimostra un villain di altissimo livello.

In ogni caso non si tratta di una serie esente da difetti, il punto debole sta proprio nel suo voler rendere scientificamente valido lo svolgersi della trama, cosa che non fa mai bene alla fantascienza. Ci sono veramente troppi spiegoni, quando sarebbe bastato lasciare più spazio all’interpretazione, come ci si aspetterebbe da un’opera di fantascienza. In ogni caso si tratta di una serie di ottimo livello.

COMPARTO TECNICO

Sul lato tecnico abbiamo un character design molto particolare, ad opera del grande Takahiro Kishida (Haikyuu, Welcome to the ballroom), dal quale si dipanano delle animazioni molto buone, soprattutto nelle scene d’azione, in cui si notano diversi stili d’animazione, quindi una serie abbastanza sperimentale in quel senso. La regia è notevole, riuscendo a valorizzare sia i dialoghi che i combattimenti. Il doppiaggio italiano è tra i migliori di casa Dynit.

IN CONCLUSIONE

Noein è una serie adatta a chi ama la fantascienza e i viaggi nel tempo, ma riesce a farsi apprezzare anche sul lato puramente slice of life. Consigliata soprattutto a chi ama le teorie scientifiche relative ai viaggi nel tempo.

Antonio SaiTony Vaccaro

[#CiNerd] Solo: a Star Wars Story, la Recensione

“Ho un brutto presentimento a riguardo”

Quasi ogni fan di Star Wars l’avrà pensato accomodandosi sulla poltroncina del cinema per vedere Solo: A Star Wars Story. Un presentimento che sembra aver scoraggiato molti, considerato il flop d’incassi.

Io, però, sono una fangirl e non mi sarei persa la nuova pellicola della saga per nulla al mondo. Anzi, ho trovato insopportabile la mancanza di fede di chi al film non ha dato neanche una possibilità. Solo: A Star Wars Story è il secondo spin-off della saga creata da George Lucas. Dopo un gioiellino di narrativa e regia come Rogue One, il compito di mantenere alto il livello qualitativo era arduo. Ed è stato reso più complesso dalle sfortunate vicende di produzione: parlo del cambio di regista in corsa e delle difficoltà recitative del protagonista che, diciamolo, aveva sulle spalle l’onore e l’onere di ridare vita a un personaggio reso iconico da un Harrison Ford, che ci piace così tanto perché non ci sono canaglie come lui nella nostra vita. Ma andiamo con ordine ad analizzare la pellicola.

LA TRAMA

Solo narra le spericolate avventure del contrabbandiere più famoso della galassia, tra i 18 e 24 anni, molto tempo prima dell’incontro con un giovane Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi nella rumorosa e affollata Cantina di Mos Eisley: 11 gli anni di distanza. L’intento della pellicola, come il trailer aveva annunciato, è quello di mostrarci gli scorci tanto amati della galassia lontana lontana da un altro punto di vista, quello outsider e malfamato di pericolosi predoni, contrabbandieri e cacciatori di taglie. Alcuni si sono chiesti: c’era davvero bisogno di aprire uno squarcio sulla back story di un personaggio ormai così radicato nell’immaginario collettivo dei fan, di vecchia data e non? Forse no, se questi scorci non sono in grado di mostrare qualcosa di credibile e ben costruito ma, d’altra parte, chi non si è mai chiesto quali fossero le origini di Han, quali e quante imprese avesse compiuto per diventare un fuorilegge, come avesse conosciuto il suo peloso co-pilota?

LA REGIA E IL  COMPARTO TECNICO

Il merito di Solo è il seguente: raccontarci ciò che avremmo voluto sapere. E ci riesce bene.

Per questa ragione, un plauso va anche al regista, quel Ron Howard che ha avuto l’ingrato compito di assumere la direzione della pellicola a riprese ormai iniziate, dopo il licenziamento dei due registi precedentemente scritturati. Nonostante le settimane di riprese aggiuntive e i conseguenti ritardi nella produzione, le sequenze del film sono ottime, dirette e montate alla perfezione, senza disturbanti scarti tra le diverse scene. Ron Howard compie il suo lavoro in maniera precisa e rispettosa. Agli spettatori più attenti non è sfuggita quella rete di citazioni e omaggi alla trilogia originale: in particolare, Solo svela un dettaglio de L’impero colpisce ancora, quando C-3PO esprime meraviglia per la singolare maniera di comunicare del Millennium Falcon. La regia di Howard non ricerca spettacolarità gratuita: è narrativamente pulita e lineare e alcune scene ne beneficiano, risultando di grande impatto visivo, come per l’iniziale inseguimento per le strade di Corellia e la mitica sequenza della rotta di Kessel. La sceneggiatura, di Lawrence Kasdan e figlio, è ben scritta, seppur prevedibile: la pellicola narra la storia della formazione di un giovane Han Solo che si avventura nei bassifondi della galassia per realizzare un sogno, quello di diventare un grande pilota. E come in ogni buona storia di formazione, e come il mito già ci ha insegnato, Han riuscirà in quest’obiettivo: chi, se non lui, ha pilotato la nave che ha fatto la rotta di Kessel in meno di 12 parsec lasciando indietro le navi stellari dell’impero?

Una pecca nella sceneggiatura è, però, la mancanza di un vero e proprio colpo di scena, di quel momento epico che possa dare un posto alla pellicola nella storia della saga, esattamente ciò che aveva fatto Rogue One. La storia, certo, era già scritta, ma i Kasdan non hanno osato, col rischio di stravolgere un percorso ormai fissato, preferendo concentrare l’attenzione sulla messa in scena di quei personaggi che assumono un ruolo determinante nel fare di Solo, quell’adorabile canaglia che tanto amiamo. Deludenti, invece, le musiche di John Powell: ancora una volta, viene ripresa la colonna sonora originale omaggiandola ma, trattandosi di un film stand-alone, ci si sarebbe aspettato qualcosa di più originale.

IL CAST

Quello che tutti temevano fosse una delle pecche della pellicola si è rivelato, invece, una sorpresa piacevole. Notevole la chimica tra gli attori nelle molte scene corali di Solo. Malgrado i problemi avuti con la recitazione e il rischio che la sua prima importante prova attoriale fallisse, considerato il peso iconico del suo predecessore, Alden Ehrenreich si è trovato a suo agio con il ruolo. Anzi, pur dando un’impronta personale al giovane Han, ha reso omaggio ad Harrison Ford, riprendendone le irriverenti caratteristiche espressive, nonché le pose nelle scene di combattimento con le armi. Buona la performance di Emilia Clarke, nei panni della coraggiosa Qi’ra, anche se in alcuni tratti sembrava di osservare una spietata Madre dei Draghi. Menzione speciale per Woody Harrelson per la sua interpretazione del mentore e fuorilegge Tobias Beckett, e a Paul Bettany, perfetto nel ruolo, seppur minuscolo, del perfido Dryden Vos. Plauso a Donald Glover per il suo audace, inaffidabile e scanzonato Lando Calrissian, uno dei personaggi senz’altro meglio riusciti e per il quale unico difetto è quello di un esiguo minutaggio on screen.

Di contro, non sono mancati un paio di personaggi simpatici come Jar Jar, ma meglio non spoilerare.

IN CONCLUSIONE

Solo: A Star Wars Story non è un capolavoro, non è L’impero colpisce ancora, ma… non vuole neanche esserlo.

Voi davvero vorreste vedere la copia di un film già visto? Lo scopo non è stupirci, ma raccontare cose che prima avremmo solo potuto immaginare o intuire, farci capire perché Han Solo è diventato Han Solo. La pellicola si svolge in crescendo: la prima parte scorre piana, quasi non sembra di guardare un film di Star Wars, ma un comune film di fantascienza, non ci sono Jedi o spade laser, la Forza non scorre potente. Poi, il ritmo accelera vertiginoso e a bordo di un Millennium Falcon tirato a lucido come non mai, siamo catapultati su Kessel, tra uno Star Destroyer imperiale e l’Alleanza Ribelle allo stato embrionale, tra una partita a Sabacc e l’altra, su quella stessa nave insieme ad Han e al suo fedele amico Chewbecca, nel mezzo di un’amicizia che nasce dall’aver salva la vita insieme.

E, sul finale, l’inaspettato: Solo non si conclude sul serio, lascia uno spiraglio aperto per qualcosa che potrà ancora accadere. Forse che il successo del MCU abbia influenzato un franchise come quello di Star Wars?
Com’era il detto? Tutto fa brod…no, tutto fa Disney. In ogni caso, questo finale – non finale che pone le basi per un sequel, rende omaggio alle serie animate dell’universo espanso, in particolare The Clone Wars.

Allora, niente smancerie e guardate il film. Vale la pena allacciare le cinture per un salto nell’iperspazio piacevole e scanzonato e, dopo un po’, verrà facile dire: «Chewbe, siamo a casa».

Voto: 7+

Francesca Belsito

[#Recensione] Aggretsuko, Ironia Trash rivolta ai Millenials

VOTO: 7.5

L’insoddisfazione della generazione Y può risultare un veicolo di idee interessanti per i giapponesi, sufficiente per dare vita a un personaggio tanto controverso quanto interessante, in grado raccontare il mondo attuale con pungente ironia. Stiamo parlando di Retsuko, la piccola pandina rossa protagonista di Aggretsuko.

L’opera, prodotta dall’azienda nipponica Sanrio (Hello Kitty) e distribuita in tutto il mondo da Netflix, tratta la storia di una 25enne che, dopo 5 anni di impiego, si trova ad arrancare in un lavoro che la opprime, in una spirale di autoconvincimento nel cercare di essere un’impiegata perfetta, sopportando la competizione smodata tra colleghi in ufficio e il maschilismo del proprio capo. Una giovane che impiega il proprio entusiasmo per non cedere alle vie di fuga che potrebbero portarla a scelte sbagliate, come lasciare il proprio lavoro per un possibile matrimonio di comodo. Un mondo composto da personaggi antropomorfi, che enfatizza la temperanza di chi si muove intorno alla piccola Retsuko, esasperando episodi in cui ognuno di noi potrebbe rispecchiarsi, soprattutto se appartenente alla generazione Millenials. Ma come poter sopravvivere a situazioni tanto soffocanti per riuscire a perseguire i propri obiettivi? La dolce pandina ha trovato il suo veicolo di sfogo nei karaoke, in cui chiudersi per un sano abbandono al death metal. Il musino dolce di Retsuko, così, diventa quasi grottesco, mentre urla le sue insoddisfazioni e sfoga la rabbia accumulata durante il giorno.

Aggretsuko mostra il sacrificio e le paure di una generazione precaria, che combatte il disagio attuale con maturità, regalando risate di gusto al proprio pubblico, non tralasciando messaggi in grado di far riflettere la nostra generazione.

 

Miriam Caruso

 

[#SerieTv] La Casa di Carta, la Recensione

Per i fan più accaniti de ‘LA CASA DI CARTA‘ il 6 Aprile 2018 ha rappresentato una data cruciale, l’avvio alla distribuzione mondiale, da parte di Netflix, della seconda parte della prima stagione.

Ideata da Aléx Pina e trasmessa per la prima volta in Spagna, sul canale locale Antena 3, il 2 Maggio 2017, questa serie è, in tutto e per tutto, la serie tv del momento.
Diversa dai soliti prodotti spagnoli, per lo più Soap Opera, La Casa De Papel rappresenta una vera e propria rivelazione. L’elevatissimo successo riscosso e i contrastanti pareri ottenuti sono elementi fondamentali che mettono in luce la serie e la fanno diventare, oltre che un fenomeno televisivo, anche un vero e proprio fenomeno di costume, in Spagna e non solo.

LA TRAMA

Otto persone, ognuna con poco o nulla da perdere, vengono reclutate da un bizzarro personaggio, Il Professore, per portare a termine un colpo estremamente ambizioso: fare irruzione nella Fabrica Nacional De Moneda Y Timbre, la Zecca Nazionale Spagnola a Madrid, e stampare 2,4 miliardi di Euro.

Le regole fondamentali del team: niente nomi, niente domande personali e niente relazioni affettive.

Così, in perfetto stile ‘Le Iene’, i protagonisti utilizzano soprannomi per identificarsi: Berlino, Tokyo, Mosca, Rio, Oslo, Denver, Helsinki e Nairobi, ognuno con una competenza specifica, con Berlino a guidare l’assalto.

IL COMMENTO

La serie ruota tutta attorno all’ingegnosa rapina, che vede il continuo susseguirsi e concatenarsi di eventi. gli episodi non sono altro che il racconto di ciò che succede all’interno della Zecca di Stato e all’esterno.
Appaiono sempre più chiari, puntata dopo puntata, i motivi della rapina e cosa ha portato il Professore ad idearla e gli altri protagonisti a parteciparvi, così come, man mano che ci si addentra nelle vicende, si rivelano i temi trattati: ribellione e rivincita verso un sistema malato e corrotto, che opprime e impoverisce il singolo, arricchendo sempre gli stessi. Temi dal sapore assolutamente contemporaneo, che porteranno il popolo spagnolo e mondiale (secondo il Professore) a essere dalla loro parte e a vederli quasi come eroi, come coloro i quali hanno messo in atto un’impresa epica, che può aver sfiorato la mente di molti, ma che mai nessuno è stato in grado di mettere in pratica. È questo che succede anche allo spettatore, che si vede catapultato in una realtà in cui non si capisce più bene da che parte stare, quali siano i carnefici e quali siano invece semplici vittime del sistema. Ci si ritrova ad empatizzare con ogni singolo protagonista, a capirlo, a comprenderne debolezze e azioni di qualsiasi tipo, merito della narrazione e di questa storia, così finemente raccontata e sincronizzata con la realtà interiore ed esteriore dei personaggi.
Empatia e gentilezza sono le parole d’ordine surreali, seguite quasi alla lettera dai rapinatori. Nessuno deve farsi male e soprattutto non ci devono essere uccisioni, anche una sola vittima potrebbe pregiudicare il tutto e andare contro il favore del popolo. Insomma, rapina sì, cliché quasi, ma con approccio assolutamente diverso dal solito. Temi già sentiti, ricorrenti, ma qui mai banali e scontati.

IL CAST

A guidarci in questa ambiziosa impresa è la voce fuori campo di Tokyo, interpretata da Ursula Corbero, che incarna perfettamente il ruolo di assassina romantica dalle sfuriate facili. Già noto alle amanti delle Soap Opera, Alvaro Morte, il Professore, ideatore dell’impresa, personaggio dalla lucidità geniale e disarmante. Perfetto Pedro Alonso, nel ruolo di Berlino, leader indiscusso del gruppo di rapinatori, dalla fastidiosa quanto falsa empatia. Non da meno le interpretazioni di Itzar Ituno, l’intraprendente ispettore Raquel Murillo, a capo della Polizia e di Juan Fernandez, l’integerrimo e spietato colonello Prieto.

COMPARTO TECNICO

Due le realtà rappresentate: quella all’interno della Zecca e quella all’esterno, che vede protagonisti l’accampamento della Polizia immediatamente fuori dalla Zecca e Il Professore. La vicenda viene ricostruita tramite scene ambientate nei giorni della rapina e continui flashback risalenti ai cinque mesi precedenti, dedicati alla preparazione del colpo e alle varie simulazioni del caso, nelle campagne di Toledo.

Particolarmente evidente la differenza dei colori tra le scene ambientate nel presente, chiare e nitide, e quelle ambientate nel passato, più scure e opache, a simboleggiare che si tratta di ricordi e ricostruzioni. Molti i particolari che il regista porta all’attenzione dello spettatore, dagli origami, che il Professore crea di frequente, al gesto di legarsi i capelli, che Raquel compie ogni qual volta deve concentrarsi.

Il comparto sonoro non spicca per brani famosi o facilmente riconoscibili, ma riserva una chicca insospettabile: l’utilizzo della canzone della resistenza partigiana per antonomasia BELLA CIAO nelle scene salienti e con un significato più profondo, quasi a sottolineare allo spettatore i temi trattati da questa serie e quello che essa vuole esprimere, in modo tale che anche quando l’azione è ai massimi livelli, e ci si ritrova in un vortice di ansia e tensione, essi rimangano ben saldi nella mente.

CURIOSITÀ

Inizialmente concepita come serie tv autoconclusiva, la CASA DI CARTA è stata rinnovata per una terza parte (o seconda stagione). La versione originale prevedeva 15 episodi di 70/75minuti, Netflix ne ha modificato la durata, riducendola a 40-50 minuti, ottenendo così 22 episodi. Il colore predominante è il rosso: rosse sono le tute dei rapinatori, rosso è il telefono con il quale il Professore comunica con i rapinatori, rossi sono i suoi origami e tutto ciò che concerne la rapina.
Le banconote stampate nella serie in realtà sono state stampate su dei giornali nella sede del quotidiano spagnolo ABC.
Gli interni della Zecca sono stati ricostruiti in studio e la facciata utilizzata nelle riprese è quella del Consejo Superior de Investigaciones Cietificas di Madrid.
Questa serie ha consacrato BELLA CIAO nel mondo, recentemente radio spagnole e portoghesi non mancano di trasmetterla frequentemente assieme alla sigla My life is going on di Cecilia Krull.

IN CONCLUSIONE

Critiche contrastanti, pareri divisi, fenomeno di costume, azione, tensione e pathos… Di quali altri elementi avete bisogno per iniziare a guardarla?

Elisabetta Berardi

[#Nerd30Consiglia] Tsuki ga Noboru made ni

Rieccoci con la rubrica dei consigli di Nerd30, questa volta con un OAV del 1991, un anime che al momento conta appena 94 voti su Myanimelist, quindi un’opera che definire sconosciuta sarebbe un eufemismo.

Stiamo parlando di Tsuki ga Noboru made ni, OAV di genere storico/drammatico in 40 minuti prodotto da OB Planning e Grouper Production, con regia di Eichii Yamamoto, regista di quel capolavoro sperimentale che è Kanashimi No Belladonna.

LA TRAMA

Padre e figlia salgono sulla cresta di una montagna per ammirare il sorgere della luna. Sul posto incontrano un anziano che inizia a raccontargli la propria storia, ambientata durante la seconda guerra mondiale.

IL COMMENTO

Tsuki ga Noboru made ni è veramente una piccola perla, un mediometraggio che riesce a trasmettere una grande serenità a fine visione. La storia raccontata dall’anziano signore è veramente interessante e cattura subito l’attenzione. Il tema principale dell’anime è sicuramente la guerra, che però viene vista in una concezione più umana. Infatti il nostro protagonista (il vecchietto racconterà la sua avventura da ragazzino durante la guerra tra Stati Uniti e Giappone) verrà salvato da alcuni soldati americani fatti prigionieri, scoprendo che quest’ultimi non sono cattivi come la guerra voleva fargli credere.

Il film si concentra quindi sull’umanità del singolo individuo, perché anche se Giappone e Stati Uniti sono in guerra non è detto che debbano esserlo un giapponese ed un americano. I film tenta quindi di veicolare un messaggio molto semplice: “le guerre tra paesi vengono combattute per gli ideali, ma chi si sporca le mani resta comunque un essere umano che non sempre vuole la guerra”.

Tsuki ga Noboru made ni è un OAV che riuscirà a strapparvi un sorriso, ve lo garantisco.

COMPARTO TECNICO

Sul lato visivo abbiamo un anime abbastanza curato, soprattutto grazie alla regia di Yamamoto, che riesce ad entrare in profonda armonia con i personaggi e la narrazione. Il character design è molto semplice, come anche le animazioni, ma sono perfettamente funzionali per il tipo di anime. Musiche molto interessanti.

IN CONCLUSIONE

Tsuki ga Noboru made ni è un anime che andrebbe riscoperto da chi ama l’animazione. Vi lasciamo il link della release dei BBF, l’unica sottotitolata in italiano: http://bowlingballfansubs.it/2355-tsuki-ga-noboru-made-ni/

Antonio Vaccaro

[#CiNerd] Fullmetal Alchemist Live Action, la Recensione (no spoiler)

Finalmente l’attesa è finita: Netflix ha rilasciato l’attesissimo live action giapponese di Fullmetal Alchemist il 19 febbraio scorso, a distanza di qualche mese dall’uscita del film nei cinema del Sol Levante.

Diretto da Fumihiko Sori, l’adattamento del famosissimo manga di Hiromu Arakawa è disponibile con il doppiaggio italiano, perciò fruibile anche da chi il manga e l’anime in questione non li conoscevano proprio.

Grande pubblicità è stata fatta nei mesi precedenti l’uscita dalla Warner Bros che ne ha curato la produzione, creando grandissime aspettative nei fan: da quel che i trailer mostravano, sembrava esserci stato un ottimo lavoro, maggiormente dal punto di vista degli effetti speciali e, soprattutto per noi italiani, per la location, in quanto da sfondo era stata scelta la suggestiva Volterra, comune toscano pittoresco, che riesce a evocare quel senso di familiarità con la pseudo Europa presente nell’opera della Arakawa.

In questa recensione cercherò di analizzare in modo obiettivo la pellicola, dando poi qualche parere più soggettivo, in quanto fan particolarmente affezionata dell’opera. Ma partiamo subito con l’analisi dei punti e vediamo in dettaglio cosa il film ci ha riservato.

 

LA TRAMA

 

La trama di Fullmetal Alchemist si snoda in un manga di 27 volumi e due serie animate, di cui la prima prende una direzione diversa rispetto l’opera originale, mentre la seconda ricalca fedelmente il manga. Risulta evidente, quindi, che possegga una trama molto complessa, più volte cruda e violenta, ma che si prende tutto il tempo di spiegare ogni cosa e non lasciare nulla al caso. Il film cerca di comprimere in 2 ore e 14 minuti la storia dei due fratelli Elric, Edward e Alphonse, che cercano di riportare in vita la madre morta tramite l’alchimia, ma falliscono nel peggiore dei modi: uno perde due arti, l’altro tutto il corpo. La loro missione è, quindi, riavere tutto indietro grazie alla Pietra Filosofale, potente strumento che nessuno è mai riuscito a riprodurre.

IL COMMENTO

Il film, per quanto voglia essere il più possibile fedele alla trama “base”, risulta spesso troppo sintetico nei dettagli importanti e da rilievo a personaggi che in realtà non ne hanno poi così tanto bisogno. Uno dei difetti principali del film è il taglio eccessivo di molti personaggi essenziali a favore di altri che potevano essere omessi o, quanto meno, ridimensionati, creando uno strano effetto nello spettatore fan che non si ritrova con quello che sta vedendo. Ma questa si pone essere una scelta necessaria per i tempi ristretti concessi dalla pellicola, quindi anche il fan più accanito “accetta” le differenze, pur con grande rammarico. Tuttavia, il pathos di alcune scene molto importanti, se non addirittura simboliche, che la pellicola ha riproposto, non raggiungevano l’intensità che avrebbero dovuto avere, rallentandone il ritmo e facendo sbadigliare lo spettatore in più occasioni. Bene, ma non benissimo.

 

COMPARTO TECNICO

 

La domanda che, però, tutti si ponevano durante la visione dei trailer anticipatori è:

riusciranno a mantenere nel film effetti speciali tali da non risultare grotteschi o a “basso budget”? 

La risposta è… . Ho notato più volte che durante alcuni combattimenti, gli stessi attori faticavano a rendere veritiero l’attacco da parte di mostri in CGI, essendo poco familiari con questo tipo di tecnologie, che implica uno sforzo e un realismo tale da far credere allo spettatore che ci sia DAVVERO un mostro a muoversi sullo schermo. Tuttavia, la CGI nella sua interezza riesce a raggiungere picchi notevoli di realismo, come con l’armatura di Alphonse, ma a volte gli stessi sfondi faticano ad amalgamarsi con la computer grafica. Tutto questo, però, non rende il film meno godibile, in quanto anche durante le trasmutazioni alchemiche dei due fratelli, si riesce a mantenere un livello abbastanza alto per un prodotto del genere e con budget non hollywoodiani.

 

IL CAST

 

Vero problema della pellicola è il cast.

Probabilmente Fullmetal Alchemist è tra i pochissimi prodotti Made in Japan adatti a un cast interamente occidentale, essendo il manga ispirato, come detto sopra, a una Europa alternativa dei primi del Novecento. La scelta  di un cast nipponico ha influito sulla resa finale e sulla credibilità degli eventi messi in atto. Le scelte estetiche riguardanti Ryosuke Yamada, che interpreta Edward Elric, sono state un po’ “infelici”, in quanto il “parruccone” biondo non ha reso l’effetto naturale che avrebbe dovuto dare, cosa invece riuscita al Tenente Hawkeye, interpretata da Misako Renbutsu. Il costume e la resa degli automail sono stati, al contrario, alquanto ottimali.

Per quanto riguarda il resto del cast, sono stati tutti all’altezza dei loro ruoli, in particolare gli homunculus Lust (Yasuko Matsuyuki), Gluttony (Shinji Uchiyama) ed Envy (Kanata Hongo), riuscendo a mostrare l’essenza dei personaggi in tutte le occasioni in cui sono apparsi. Nota dolente, invece, Tsubasa Honda, che interpreta Winry (neanche la parrucca bionda le è stata concessa), che non riesce a raggiungere i livelli del resto del cast, risultando piuttosto fastidiosa e a volte stupida. A differenza della “vera” Winry, la Honda non è riuscita a trasmettere alcun carisma e l’importanza della stessa per i due fratelli Elric non è abbastanza sottolineata, riducendosi più una macchietta comica che altro (ma che non fa neanche così tanto ridere).  

IN CONCLUSIONE

Fullmetal Alchemist Live Action si presenta come un prodotto confezionato in modo sufficiente, senza lode e senza infamia.

Si apprezzano gli sforzi fatti da tutto il cast e dalla produzione, dando alla luce un qualcosa che possa essere almeno dignitoso nei confronti dell’opera originale, dando anche (per chi ha visto la scena dopo i titoli di coda) una “quasi” conferma che probabilmente non si fermerà qui, e che eventuali seguiti siano già all’orizzonte. Tuttavia, credo anche che il cast asiatico non sia adatto per un progetto di tale portata, in quando è vero che gli attori sono stati molto bravi, ma è altrettanto vero che risulta spesso grottesco e quasi parodistico il risultato. Fullmetal Alchemist Live Action raggiunge una quotazione pari a 6.5, migliorabile sotto tutti i punti di vista, ma inevitabile che altri stravolgimenti potranno inasprire i fan ancora più di adesso.

Per ora possiamo solo dare fiducia e aspettarci qualcosa di meglio in seguito. Una possibilità, a mio avviso, se la merita.

Vittoria Aiello

[#Anime] Devilman Crybaby, la Recensione

L’attesissimo Devilman Crybaby è finalmente giunto su Netflix. La serie ONA (Original Net Anime) è un nuovo adattamento del capolavoro di Go Nagai “Devilman”, probabilmente uno dei fumetti shonen più importanti di tutti i tempi, fonte d’ispirazione per decine di opere, non solo fumettistiche.

L’anime conta 10 episodi ed è stato prodotto da studio Science SARU, con regia di quel genio che è Masaaki Yuasa, autore che si è sempre distinto per il suo stile grafico particolare e fuori dagli schemi, dirigendo anime straordinari come The Tatami Galaxy, Ping Pong: The Animation e Kaiba, oltre a splendidi lungometraggi come Mind Game e il recentissimo The Night Is Short, Walk On Girl. La serie vede anche Ichiro Okochi (Code Geass) alla sceneggiatura.

LA TRAMA

 Akira Fudo viene informato dal suo migliore amico, Ryo Asuka, che un’antica razza di demoni è tornata per riprendersi il mondo dagli umani. Credendo che l’unico modo per sconfiggere i demoni sia quello di incorporare i loro poteri, Ryo suggerisce ad Akira di unirsi a un demone. Akira si trasforma così in Devilman, possedendo i poteri di un demone, ma mantenendo l’animo di un umano. (Fonte Wikipedia)

IL COMMENTO

Chi sono i veri demoni?

Questa è la principale domanda a cui tenta di rispondere questo straordinario anime. Sin dai primi episodi ci rendiamo conto che quel pazzo di Yuasa è riuscito a mantenere lo spirito dell’opera originale, fondendolo alla perfezione con il suo stile unico e inconfondibile. Notiamo fin da subito che l’opera di Go Nagai è stata contestualizzata ai giorni nostri, con la presenza di cellulari, internet e social network, e sarà proprio questa la principale differenza con il manga.

Yuasa riesce, tramite una narrazione estremamente godibile e ritmata, a toccare quegli argomenti che hanno reso celebre il manga, primo tra tutti l’oscurità che si cela nell’animo umano. Nel corso dell’anime notiamo come la presenza dei demoni non sia altro che un pretesto per parlare del vero demone, l’uomo. Meschino, crudele, invidioso e sempre pronto a puntare il dito verso gli altri. All’interno della società le brave persone sono una minoranza, basta una situazione insostenibile per far uscire l’oscurità nel cuore dell’uomo, anche da quelle persone che credono di essere buone. Notiamo, inoltre, come la trasformazione in demone non sia altro che un mezzo per alimentare la vera essenza di quella persona, un potere di cui quell’essere dovrà servirsi per dare libero sfogo alla sua anima. Esistono quindi i Devilman, uomini che hanno ottenuto il potere di un demone ma, avendo di base un buon cuore, sono riusciti a mantenere la loro umanità.


A volte è il mondo stesso a chiederci di diventare cattivi, ma se lo diventiamo vuol dire che non siamo mai stati buoni.

Riflessioni a parte, abbiamo un anime estremamente crudo e violento, forse non ai livelli degli OAV di fine anni ’80 (consigliatissimi), ma comunque splatteroso ed esplicito al punto giusto, con Yuasa che dimostra di avere un certo talento nel confezionare anche le scene erotiche.


Il regista dimostra che metterci la propria inventiva in un adattamento può portare a risultati eccezionali.

I personaggi sono caratterizzati in modo fantastico, partendo da Akira, emblema dell’antieroe, passando per la dolce Miki, personaggio che non si può non amare. Il resto del cast è composto da personaggi estremamente interessanti e sfaccettati.
La trama scorre che è una meraviglia, fino a giungere ad un finale che trasuda poesia da tutti i pori. In generale gli ultimi due episodi sono di quelli che resteranno piantati nel mio cervello per sempre.

COMPARTO TECNICO

Se c’è una critica che si sente spesso muovere a Yuasa è che “i disegni sono brutti”.

Senza offesa, ma gli unici ad essere brutti sono determinati commenti, che rientrano in un altro messaggio che vuole mandare l’anime, ovvero di non giudicare mostruoso un qualcosa solo perché ha l’aspetto di un mostro.
Gli anime di questo regista hanno talmente tanti spunti interessanti da affossare il 99,9% degli anime esistenti, giudicarli solo per questi presunti disegni brutti non ha il minimo senso. Il design tipico del regista non sarà sicuramente l’emblema del realismo e del dettaglio, ma la dinamicità di questi disegni è eccezionale, oltre ad accentuare notevolmente l’espressività dei personaggi. In questo caso specifico, parlando di un manga dei primi anni ’70, abbiamo anche una certa coerenza con lo stile abbastanza “retrò” di Yuasa.

La regia è ottima come al solito, anche se notiamo uno Yuasa più trattenuto rispetto ad altre sue opere, probabilmente per rendere l’anime apprezzabile su più livelli di pubblico. Animazioni fluide e movimenti scomposti rendono Devilman Crybaby un’esperienza incredibilmente movimentata. Musiche molto belle, che si fanno sentire soprattutto nella parte finale. Molto buono l’adattamento e il doppiaggio italiano, non si lesina sul linguaggio scurrile, inoltre le voci sono tutte azzeccatissime.

IN CONCLUSIONE

Devilman Crybaby è l’ennesima perla di un regista sottovalutato solo per i suoi “disegni brutti”. Se cercate anime che diano qualcosa anche al cervello, andate a recuperarvi le sue opere, non ve ne pentirete.

Antonio Vaccaro

[#ComicsReview] Nemesis, Magie e Misteri a San Fili

Il 17 dicembre è stato presentato al pubblico il secondo numero di Nemesis, il fumetto horror indipendente ideato da Davide Rende e sceneggiato da Antonio Malfitano, che prevede una stesura in 5 volumi delle avventure dell’antropologo Tacito nella terra ricca di misteri, quale è San Fili.

LA TRAMA

La storia, scritta da Malfitano e inchiostrata da Rende, vede come suo protagonista l’antropologo Tacito Germano che, a causa di un incidente stradale, si vede costretto a fermare la sua vettura proprio davanti lo svincolo per San Fili. L’unico modo per proseguire il suo viaggio è quello di attraversare il piccolo paese bruzio. Così, dopo un breve ed arrendevole tête-à-tête con il funzionario stradale, che gentilmente gli sbarra la strada, lo studioso continua il suo percorso assieme alla compagna Daniela. Maledicendo l’asfalto dissestato, i due proseguono a velocità sostenuta, fino al palesarsi di un bambino al centro della carreggiata. La nefasta apparizione fa sbandare la coppia e, in seguito alla collisione con il guard rail, entrambi perdono i sensi. Al suo risveglio il malconcio protagonista, rimasto inspiegabilmente solo, decide di avventurarsi all’interno del paese per cercare soccorso.

Il secondo volume riprende la narrazione esattamente dove si era bruscamente interrotta nel primo albo. Il novello Dylan Dog, accompagnato dallo scorbutico Ivan (personaggio apparso nel primo fumetto), si trova costretto a dover attraversare nuovamente le anguste vie del borgo al fine di trovare padre Girolamo, uno dei cinque protettori dei gruppi di rifugiati sparsi per il posto e che nel precedente albo gli aveva dato il giusto consiglio per salvarsi. Lasciata la chiesa di Democrito, i due danno vita ad una macabra caccia allo zombie.

Come in altri momenti narrati nel precedente fumetto, in frangenti pregni di tensione emerge l’inadeguatezza del protagonista. Dopo aver perso il controllo ed aver attirato su di sé una inarrestabile orda di non-morti, i due moderni avventurieri sono costretti a separarsi. Ormai rimasto solo, lo studioso non può far altro che continuare a muoversi per i tetti del paese, fino al predestinato incontro con una delle ultime Magare, conosciute dai locali come bizzarre guaritrici e portentose veggenti, nonché figure chiave all’interno di tutto l’universo di Nemesis.

IL COMMENTO

Per tutte le 48 pagine di questo secondo capitolo, si percepisce un’ansia palpabile ben trasposta dalle matite di Rende. Ciò che a nostro avviso potrebbe apportare un grosso beneficio alla storia è un ampliamento della sceneggiatura, così da semplificare al lettore l’immersione all’interno della narrazione fin dal primo sguardo. Tuttavia, mettendo a confronto i due albi, notiamo una netta crescita dei due autori e una cura più privilegiata della storia, il che ci lascia ben presagire per i 3 volumi che ci separano dalla risoluzione del fumetto. Una perla notevole dell’opera è lo scenario di background utilizzato, realmente esistente, sia per quanto riguarda il piano fisico che quello esoterico: stiamo parlando di San Fili, terra che da secoli è al centro del folklore calabrese, tra leggende suggestive e bellissimi paesaggi. Calare Tacito in questa realtà aiuta a dar spessore alle vicende narrate, un antropologo in una terra ricca di racconti popolari. Riscontro lampante di tale spessore è la cura per gli scenari: entrambe le chiese rappresentate nei due volumi riportano fedelmente le strutture e gli ornamenti delle loro controparti fisiche.

La trasposizione in chiave horror del mito della Fantastica funziona altrettanto bene, tanto da rendere un piccolo paese calabro un setting calzante, senza nulla da invidiare a cornici più rinomate. Una leggenda tramandata nei caldi nidi famigliari i trasforma in una piaga da cui fuggire ad ogni costo.

La figura della Magara è un altro punto innovativo dell’opera, che conferisce un valore aggiuntivo a Nemesis: una figura mai utilizzata per un fumetto, ma tanto affascinante da catturare l’attenzione del lettore. I disegni ci ricordano quell’atmosfera bonelliana in bianco e nero, dove i misteri sono all’ordine del giorno e gli incubi ci aspettano placidi dietro l’angolo.

In definitiva siamo rimasti sorpresi da questa autoproduzione calabra che, anche se acerba sotto alcune sfaccettature, ha tutte le carte in regola per interessare e coinvolgere. Restiamo in piacevole attesa di leggere i prossimi capitoli della storia. 

 

Per maggiori informazioni sull’opera Nemesis, visitare la pagina ufficiale del fumetto.

 

Miriam Caruso

[#Nerd30Consiglia] Honey And Clover

Rieccoci con il consueto appuntamento dei consigli anime di Nerd30.

Questa volta parleremo di Honey & Clover, anime in 36 episodi (una serie da 24 e una da 12) prodotto da studio J.C. Staff tratto dall’omonimo manga di Chika Umino, autrice famosa per Un marzo da leoni, opera il cui adattamento anime è tutt’ora in corso, anche questo consigliatissimo.

Honey & Clover è un manga che rientra nel target josei, quindi dedicato ad un pubblico femminile adulto (corrispettivo femminile di seinen).

LA TRAMA

Yuta Takemoto, Takumi Mayama e Shinobu Morita sono tre giovani studenti che vivono insieme in un palazzo fatiscente. Iscritti presso una scuola d’arte, fanno una vita piuttosto modesta (non hanno ad esempio neanche la doccia in casa), ma trovano sempre il modo di gioire della propria esperienza (ognuno di loro in effetti sembra essere dotato di un grosso talento artistico).

Un giorno il professore Shuji Hanamoto presenta loro sua nipote Hagumi “Hagu” Hanamoto. Morita dichiara subito il suo amore per la tenera fanciulla (che molti scambiano per una bambina) anche se a volte si comporta in un modo piuttosto strano e bizzarro, per non dire da maniaco, mentre Takemoto non lascia trapelare i suoi sentimenti e tende a comportarsi da amico con la ragazza, che dal canto suo non dimostra particolare interesse per i due.

Il gruppo inoltre include anche Ayumi Yamada, una delle più belle e corteggiate ragazze della scuola, maestra nella creazione di vasi e oggetti in creta, innamorata perdutamente di Mayama, il quale però è l’unico a non volere il suo amore. Il ragazzo infatti è a sua volta innamorato di una donna più grande con cui lavora, Rika Harada, la quale lo allontana per non urtare i suoi sentimenti. Il gruppo attraversa varie vicissitudini, ma con il passare del tempo i vari legami al suo interno non subiscono cambiamenti, nonostante i vari componenti affrontino ognuno un proprio cammino personale. (fonte Wikipedia)

IL COMMENTO

Honey & Clover si potrebbe sintetizzare con una sola e semplice parola: 

…sentimento…

Durante la visione dell’anime si ha la sensazione di respirare vita vera, ricca di momenti belli e momenti brutti, tutti con un’importanza equivalente per la crescita dei personaggi. Un fiume in piena che travolge lo spettatore, ma lo fa con acque calme e piacevoli. Non si può fare altro che abbandonarsi alla corrente e vivere quello che vediamo sullo schermo.

La vera forza di Honey & Clover sta nell’immergere totalmente lo spettatore nello stato d’animo dei personaggi, che diventano familiari dopo pochissimi episodi. Si ride e si soffre con loro, quasi come se lo spettatore facesse parte della narrazione, questo grazie ad una gestione delle caratterizzazioni veramente incredibile, cosa che la Umino non perderà neanche con Un marzo da leoni. Utilizzando la tecnica della voce narrante in prima persona (spesso quella del protagonista), la mangaka riesce a sviscerare ogni stato d’animo dei personaggi, offrendoci il loro punto di vista in relazione ai loro sentimenti, che sono quasi onnipresenti nella narrazione.

In un certo senso i sentimenti sono importanti come l’aria che respiriamo, sono un carburante senza cui una persona non riuscirebbe a vivere, sono la motivazione che sta dietro ad almeno metà delle nostre scelte.

I PERSONAGGI

Takemoto può essere considerato il protagonista della storia, quello su cui la nostra Umino si concentra maggiormente, ma riesce ogni volta a spostarsi sugli altri personaggi quasi in punta di piedi, riuscendo a costruire una narrazione spezzettata ma incredibilmente compatta. Il nostro protagonista cresce episodio dopo episodio, spinto dall’amore per Hagu, ma anche dalla ricerca del suo posto nel mondo. In particolare risulta interessantissimo il suo percorso di accettazione nei confronti del nuovo compagno della madre, entrato nella sua vita tempo dopo la morte del padre.
Morita è un personaggio assurdo, che scompare per interi episodi per poi tornare a farti capire che ne sentivi la mancanza, nonostante sia il rivale in amore del nostro protagonista. Il classico personaggio che vorresti in ogni compagnia, quello che riesce a risollevare il morale del gruppo con il suo essere bizzarro e infantile, ma che nasconde un passato triste che verrà sviscerato soprattutto nella seconda stagione.

Mayama è un altro personaggio eccezionale, innamorato di una donna più grande in modo quasi assoluto, anch’esso alla ricerca del suo mondo. Insieme a Yamada è protagonista di una delle scene più commoventi dell’intero anime.

Yamada è la bella ragazza della situazione, corteggiatissima da tutti, ma innamorata di Mayama. Nell’anime assisteremo alla sua sofferenza di non essere ricambiata, ma nonostante tutto al non voler rinunciare al proprio amore, che in un certo senso è una parte importantissima della sua intera esistenza.

Hagu è questa piccola ragazza con una grande talento creativo, che in diverse occasioni lascia intendere di avere la capacità di imprimere nella sua mente qualsiasi immagine, che poi andrà a riprodurre tramite il disegno o la scultura. Un personaggio interessantissimo, come lo è il suo rapporto con il prof. Hanamoto, una sorta di padre per lei. Su Hagu si concentra in particolare la bellissima parte finale dell’anime.

Anche i personaggi secondari risultano molto interessanti e funzionali alla trama.

Nell’anime non mancano i siparietti comici (soprattutto quando entra in azione Morita), che non risultano mai fuori luogo, ma riescono a potenziare ulteriormente lo stato di immersione emotiva in cui si trova lo spettatore.

COMPARTO TECNICO

Per quanto riguarda la tecnica non abbiamo sicuramente un anime sensazionale, ma ogni cosa è funzionale alla trama. Il character design è in linea con quello della Umino, quindi estremamente particolare per quanto riguarda i lineamenti del viso, offrendo una vasta gamma espressiva, fondamentale in un anime che fa dello stato d’animo dei personaggi il suo punto di forza. Le animazioni sono quindi per lo più legate ai movimenti del viso, mentre sono abbastanza statiche per il resto del corpo, ma non essendo un anime di combattimento possiamo anche passarci sopra. La regia è di ottima fattura, soprattutto quando si tratta di lasciare spazio alla voce narrante e agli sguardi dei personaggi, entrando in una sorta di sospensione della realtà che rende il tutto ancora più immersivo. Musiche eccezionali, malinconiche, struggenti, allegre, forse poco varie, ma azzeccatissime in ogni scena in cui compaiono.

IN CONCLUSIONE

Honey And Clover è una perla imperdibile, uno di quegli anime che ti fanno essere felice di amare l’animazione. A fine visione sentirete la mancanza di questi personaggi, vi verrà voglia di augurargli il meglio, quasi come se fossero dei cari amici.

Antonio Vaccaro

[#Anime] Made In Abyss, la Recensione

Con la fine della stagione estiva termina anche uno dei migliori anime dell’anno, che purtroppo non ha avuto il seguito che meritava, probabilmente per il fuorviante design bambinesco dei personaggi, ma che ha ben poco da spartire con il tono generale dell’opera.

Stiamo ovviamente parlando di Made In Abyss, anime in 13 episodi prodotto da studio Kinema Citrus (famoso per aver co-prodotto insieme a Bones quella perla di Tokyo Magnitude 8.0, di cui parliamo qui), adattamento dell’omonimo manga di Akihito Tsukushi, trasmesso sulla piattaforma di streaming legale VVVVID in giapponese con sottotitoli in italiano.

LA TRAMA

L’Abisso rimane l’ultimo luogo inesplorato del mondo. Si tratta di un enorme sistema di caverne, dalla profondità mai determinata, popolato da reliquie e straordinarie creature. Generazioni di esploratori si sono calati nelle viscere dell’Abisso, ma solo i più coraggiosi hanno preso il nome di “Cave Raiders”. Sul limitare dell’Abisso, sorge il villaggio di Oosu. Qui è cresciuta una piccola orfana di nome Rico, il cui sogno è diventare una grandiosa esploratrice come la mamma scomparsa. Mentre è in una delle sue perlustrazioni, incontra un bambino non del tutto umano.. (Fonte VVVVID)

IL COMMENTO

Made In Abyss è una storia di avventura ed esplorazione degna di un romanzo di Jules Verne. La visione del primo episodio riesce subito a catturare l’attenzione sulla vicenda, con l’interessantissimo incipit e una struttura a livelli che riesce a far presa con facilità sullo spettatore, che si trova di fronte una storia semplice e lineare ma con colpi di scena ben assestati e situazioni al cardiopalma. L’anime è fortemente basato sul concetto dell’ignoto, di cui l’uomo è spaventato ma allo stesso tempo incuriosito, ed è proprio questa curiosità che ha portato gli esseri umani ad esplorare il mondo e lo spazio, perché la paura non può fermare la sete di conoscenza. Come già anticipato, nonostante il design bambinesco dei personaggi, non ci troviamo mai di fronte a situazioni edulcorate, ma abbiamo dei momenti veramente terrificanti, in particolare per gli effetti di risalita tra i vari livelli dell’Abisso, che prendono probabilmente spunto dalle patologie di decompressione delle immersioni subacquee. L’anime riesce inoltre a commuovere in alcune situazioni, ma anche a stemperare la tensione con delle gag leggere e mai fuori luogo. L’autore dimostra inoltre una grande fantasia nella costruzione scenografica e con le varie creature che popolano l’Abisso, alcune veramente interessanti e ben studiate.

 

 

I due personaggi principali sono caratterizzati alla perfezione e nel loro viaggio incontreranno dei comprimari veramente affascinanti, ognuno con un background ben articolato. Inoltre l’Abisso non sembra essere l’unico nemico presente, anche se avremo maggiori informazioni in una eventuale seconda stagione.

COMPARTO TECNICO

Sulla tecnica c’è veramente poco da discutere. Ottima regia, che riesce a dare grande enfasi in alcune scene, in particolare nei momenti in cui Reg utilizza il “cannone crematorio”, che hanno una fase di preparazione che rende esaltante l’esplosione di energia scagliata dal ragazzino.

Oltretutto lo studio delle inquadrature riesce a farci entrare perfettamente nella situazione e a farci immergere nei fatti narrati. Le animazioni sono veramente di ottimo livello, complice la semplicità del character design, che ha consentito agli animatori di fare un ottimo lavoro sia sui movimenti che sul character acting, dove i personaggi dimostrano un’espressività pazzesca nonostante le poche linee. Bellissime le musiche e tutto il comparto sonoro.

IN CONCLUSIONE

Made In Abyss rientra senza alcun dubbio tra i migliori anime dell’anno. Attendiamo con impazienza una seconda stagione, per vivere ancora le avventure di Riko e Reg.

Antonio Vaccaro