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Cosenza, con la caduta dell’amministrazione cambia lo scenario politico

consiglio comunale cosenzaCOSENZA – Inizialmente era primarie sì, primarie no. Nel giro di poche ore poi, il leit motiv è cambiato in sfiducia sì, sfiducia no. Adesso che sono state raccolte le 17 firme utili per mandare a casa il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto e porre fine alla sua amministrazione con una manciata di settimane di anticipo, la sostanza restituisce comunque un quadro assai miserabile della politica nostrana, che accetta di determinare le sorti di una consiliatura in base al prezzo stabilito in cambio dell’apposizione di una firma in calce ad un pezzo di carta.

Ufficialmente, la mozione di sfiducia e la conseguente caduta dell’amministrazione si sono rese necessarie per scongiurare il rischio che a Palazzo dei Bruzi potesse arrivare la commissione d’accesso, in relazione all’inchiesta sul voto di scambio condotta dal Pm Pierpaolo Bruni della Dda di Catanzaro.

In realtà si tratta di un escamotage per indebolire Occhiuto, sottrargli con un colpo solo la gestione del Comune e della Provincia, ed evitare che possa manovrare le leve del potere alla vigilia del voto. La mozione di sfiducia ha preso forma ed è diventata una prospettiva concreta dopo la convocazione ufficiale delle Primarie del centrosinistra. Era una condizione necessaria posta da Enzo Paolini e dai consiglieri che fanno riferimento alle sue posizioni. L’avvocato con la passione del rugby, allontana così l’imposizione di Lucio Presta quale candidato di superamento. Ma la decisione di procrastinare al 20 febbraio la data di presentazione delle candidature, lascia tuttavia ancora qualche dubbio sulla effettiva intenzione del Pd di procedere alle Primarie. Anche perché all’annuncio di Guglielmelli, i vertici calabresi del partito non hanno propriamente reagito con salti di gioia e, questo silenzio, autorizza clamorosi colpi di scena.

Tornando alla vicenda delle dimissioni, che le cose si stessero mettendo male per il sindaco architetto, lo si è intuito quando Magorno ha diffuso una nota in cui puntava il dito sulla crisi amministrativa della città e sulle presunte irregolarità nella gestione dei conti di Palazzo dei Bruzi. «Si utilizzano risorse finanziarie pubbliche, postazioni dirigenziali e consulenze per esercitare vere e proprie pressioni al fine di preservare una maggioranza consiliare di tipo numerico, dopo il fallimento della sua maggioranza politica ed elettorale. E a tale scopo è stato piegato il funzionamento della macchina amministrativa del Comune ed anche della Provincia- ha tuonato Magorno – La città di Cosenza non può più essere mortificata dal ricorso spregiudicato ad una quotidiana pratica di illegalità e favoritismi. Indubbiamente, la realtà che sta emergendo, perfettamente visibile agli occhi di tutti, è inquietante e preoccupante. Soprattutto nel settore dei lavori pubblici, delle manutenzioni e di alcuni servizi, in questi anni, il ricorso agli affidamenti diretti e clientelari, in violazione della legge, è stata una prassi usuale. E’ necessario che questa nefasta esperienza amministrativa si concluda anzitempo». Un modo per provare a spiegare alla città i motivi che, di lì a qualche ora, avrebbero condotto al commissariamento.

Occhiuto e MorroneE se l’opposizione fa il suo mestiere, a pesare sono state le firme dei consiglieri organici alla maggioranza. Come quella di Roberto Bartolomeo, che non ha mai digerito la mancata conferma alla guida della Commissione elettorale, ma soprattutto quella determinante di Luca Morrone. Non tanto e non solo per le immediate conseguenze politiche che questo gesto implica, ma per il travaglio personale vissuto dal presidente del Consiglio che ha vissuto un profondo conflitto interiore prima di cedere agli affetti familiari e di seguire la strada indicata dal padre, da tempo in rotta con Occhiuto. Luca Morrone ha immediatamente rassegnato anche le dimissioni da coordinatore provinciale di Forza Italia, il partito di cui è espressione il sindaco che ha appena contribuito a mandare a casa.

Il quadro politico a Cosenza, profondamente ridisegnato dalla nomina al governo di Antonio Gentile, si apre di fatto ad una solida alleanza tra il centrosinistra ed il nuovo centro destra. Un patto di ferro per scongiurare il rischio che Occhiuto possa essere rieletto a sindaco, arrivando magari nel 2019, a proporsi per la poltrona di presidente della regione. Ma da qui a pensare che l’Ncd parteciperà alle primarie, ce ne corre. Più verosimile che si presenti ai nastri di partenza con un proprio candidato a sindaco (Giacomo Mancini?). Se si tratta di fantapolitica, sarà il tempo a dirlo. E Occhiuto? Proseguirà a lavorare per chiedere ai cosentini di essere riconfermato. Ma anche l’ormai ex primo cittadino deve fare anche ammenda dei tanti errori commessi. Ha cominciato ad indebolirsi nel momento stesso in cui si è piegato ai ricatti di chi lo ha sostenuto solo per convenienza e che non ha esitato a mollarlo appena è spuntata all’orizzonte una nuova e più sicura prospettiva.

Otto imprenditori su dieci ritengono inutili le istituzioni per lo sviluppo della regione

CATANZARO – Secondo il rapporto annuale Bcc Mediocrati-Demoskopika,otto imprenditori su 10 sono concordi nel ritenere che le istituzione calabresi, nei loro vari livelli, siano incapaci di favorire lo sviluppo economico e sociale della regione. Sempre secondo la medesima ricerca , il livello di fiducia media degli imprenditori sui livelli istituzionali è del 14,8% . Le prospettive per il 2015, però, appaiono meno cupe.

Alfano: “Io non sapevo nulla”. L’Italia è il covo delle tre scimmiette

 

Be kind rewind. “Siate gentili, riavvolgete il nastro”, titolava uno dei film più brillanti di Michel Gondry. Anche questo serve, se si vuole chiarire e riassumere la storia di Shalabayeva e Alua per uno straniero o per una persona disattenta. Informarsi pazientemente, leggere i documenti e ascoltare bene le parole dei protagonisti. Per onestà e dovere giornalistico, va compiuto ogni singolo passo. Così facendo, si arriva ad una conclusione semplice e preoccupante.

Il nostro governo non è autorevole ed ha “la stessa spina dorsale di uno yogurt magro scaduto”, se si vuole citare il pensiero di un personaggio benniano. Dovrebbe amministrare con onore ed invece lascia che due rifugiate politiche (moglie e figlia di un dissidente scappato a Londra) siano rapite e rispedite in Kazakistan, la nazione del dittatore Nazarbaev, con il rischio di finire in carcere o in un orfanotrofio.

Davanti ad una evidente e vergognosa violazione dei diritti umani, era giusto attendersi più di un gesto responsabile: un’ammissione di colpa, una lettera di scuse messa sopra ad un’altra di dimissioni, un discorso del Presidente della Repubblica Napolitano che bacchetta chi ha infangato la propria carica politica, un’invettiva del Premier Letta contro i colpevoli, capace di risvegliare un po’ di orgoglio e di dignità nazionali. Al contrario,  abbiamo assistito al penoso siparietto del “io non sono stato avvisato e quindi non ho colpe” e chi ha davvero sbagliato (con l’eccezione del dimissionario Capo di Gabinetto Procaccini) è stato difeso e reso intoccabile.

Emma Bonino, ministra degli Esteri, era stata avvisata dalla Farnesina della presenza di Shalabayeva e Alua sul suolo italico, ha dimenticato il contenuto di un documento ufficiale e ha saputo del loro rapimento con due giorni di ritardo. Bastava che leggesse il settimanale “Oggi” per tenersi informata. Alfano, ministro degli Interni e vice Premier, ha detto alle due Camere di non saper nulla e che “nessuno potrà sostenere il contrario”.

Ma allora, se un politico non sa non bisogna colpevolizzarlo? Niente affatto. Ogni politico ha grandi oneri e grandi onori ed ignorare quando, dove e come vengono violati i diritti civili nel proprio paese, è il sintomo del menefreghismo e della superficialità dei politicanti più incapaci.

Perché non sono a quel punto intervenute le forze politiche che si professano democratiche o cattoliche? Per un motivo molto spicciolo: se la mozione di sfiducia contro Alfano (sostenuta da Sel e M5S) fosse stata votata, il PDL (che governa con il PD) avrebbe sfiduciato l’Esecutivo e il popolo italiano sarebbe dovuto tornare al voto. Alcuni esponenti del PD desideravano la testa del pupillo di Berlusconi, ma davanti all’ opportunità di compiere un atto coraggioso e doveroso, si sono adeguati alla volontà del loro storico avversario.

A pensar male in Italia non si fa quasi mai peccato e forse i nostri governanti hanno soprattutto assecondato la brama del tiranno di un paese, interessato ad usare Shalabayeva e Alua per ricattare e minacciare un avversario politico, con il quale abbiamo succulenti rapporti commerciali. Per la nostra classe politica è meglio vivere cento giorni da pecora che uno da leone, anche a costo di rovinare la vita di due o più esseri umani. Tutto questo, stranieri e disattenti hanno il diritto di saperlo.

 

 

L’Immacolata di chi lavora

COSENZA –  «Tempo di demolire, tempo di costruire», «tempo di guadagnare, tempo di perdere» è scritto in Qohèlet: un tempo per ogni cosa. Ma di questi tempi si aggira lo spettro – piuttosto consistente – della crisi, si allunga l’ombra della recessione, dilaga la sfiducia: è tempo di «crescere», ripetono come un mantra tecnici e politici. Non c’è tempo da perdere: bisogna rimboccarsi le maniche. Chi non ci sta è un fannullone, chi si lamenta denigra la buona fortuna di avere un lavoro. Eppure c’è una festa segnata in rosso: l’Immacolata. Sarebbe un tempo di rito, perdersi per ritrovarsi. Magari in famiglia. Parlarsi tanto per parlarsi, senza dirsi niente di importante. Fermarsi, fare il punto, stare al mondo. Ma sono lontani i tempi delle «otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire» (conquiste d’altri tempi perduti). Anche all’Immacolata si lavora. Più degli altri giorni. E non solo negli ospedali, nelle caserme dei vigili del fuoco o nelle stazioni dei carabinieri. Si lavora pure nei call center e nei negozi.

 

Sette dicembre

In fila al supermercato. La signora del banco dei salumi: «Lavoriamo anche domani». Un angolo della bocca si piega all’ingiù, lo sguardo si abbassa. La cliente risponde: «Non me ne parlare… quando arriva Natale, non vedo l’ora che questo mese passi». La signora ha un negozio di scarpe. Ricorda i tempi in cui «il lavoro era lavoro e la festa era festa». «Ma sì, erano gli anni ’90…» le fa eco l’altro addetto ai salumi.

 

Otto dicembre

In un centro commerciale. «Ma io dico: nessuno deve andare a cucinare?». La domanda la pone una signora in un bar. Davanti a lei sfilano donne, uomini, bambini, anziani. Chi vuole l’acqua, chi un caffè. Chi va di fretta, chi si siede. Nella sua voce un accenno di stizza. Come a dire: non se ne possono stare a casa? No, non se ne stanno a casa. Le commesse, intanto, sorridono. Anche se uno degli angoli della bocca tenta di opporre resistenza. Due uomini trasportano i carrelli della spesa lungo la scala mobile. Si parlano. Il corpo proteso in avanti tradisce la fretta. Di andarsene.

 

Rita Paonessa