“Sopravvivenze: l’estremo della vita/la vita agli estremi”: la minirassegna del Cineforum FalsoMovimento

Il Cineforum FalsoMovimento di Rovito presenta “SOPRAVVIVENZE: L’ESTREMO DELLA VITA/LA VITA AGLI ESTREMI”. La minirassegna cinematografica inizia domenica 25 novembre ore 20.15, presso il Teatro Comunale di Rovito, con la proiezione del film The Way Back (2010) di Peter Weir, e continua martedì 27 novembre, ore 21.00, con The Ditch (2010) di Wang Bing.

The Way Back

Fuga rocambolesca per la sopravvivenza. Da un gulag. Dal gelo dei boschi siberiani alle desertiche distese mongoliche fino alle feroci tempeste di sabbia e al caldo soffocante del Gobi. Torna la vecchia scuola del cinema, con il regista australiano Peter Weir: pochi espedienti tecnologici, computer grafica al minimo, quasi nulla. Largo agli ampi paesaggi in contesti schiaccianti, soffocanti e ritratti dalla fotografia di Russell Boyd che cattura la natura nella sua forma più minacciosa e straordinariamente bella. The Way Back è basato sul libro di Slaomir Rawicz, The long walk, la cui veridicità è molto contestata. Che la vicenda sia stata vissuta o meno, comunque, nell’economia della pellicola assume una rilevanza soltanto suggestiva. L’epopea di cui parla Rawicz fornisce allo script un’eccellente ispirazione per tracciare la storia di un gruppo di fuggiaschi determinati a sopravvivere a qualsiasi avversità. Una celebrazione burbera, certo, ma esaltante del valore della libertà.

E poi c’è la poetica di Weir per i personaggi resi piccini dalla vastità del mondo. Che sia l’outback, l’entroterra australiano di Picnic a Hanging Rock, piuttosto che il mare in tempesta di Master and Commander oppure l’universo artificiale di The Truman show. Stavolta ci sono il freddo, la fame, la sete, il caldo. E la macchina da presa è lì a scovare i segni tangibili delle sofferenze sui volti, sui corpi dei fuggitivi. Sullo sfondo, i paesaggi mozzafiato di un Oriente fascinoso quanto infido, percorso in un’improbabile trekking estremo ed estenuante. A completare l’opera di Weir un plotone di interpreti davvero ben scelti, a cominciare da un Colin Farrell in stato di grazia. L’attore irlandese tenta di rubare la scena a un intenso Ed Harris : davvero una bella ‘lotta’ tra i due. E merita menzione anche la toccante Saoirse Ronan. Una lunga passeggiata quella ordita da Peter Weir per tornare al cinema dopo sette anni – The Way Back è targato 2010 ma è stato distribuito in Italia dopo due anni – dal suo ultimo lavoro (Master and Commander, 2003). Una camminata di quattromila miglia dura e faticosa per raccontare, alla fine del viaggio, una verità semplice ed elegante: non mollare mai.

 

The Ditch

Alla fine degli anni cinquanta, il governo cinese condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza sociale e famigliare. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi, lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari, circa tremila “intellettuali” di estrazione basso o medio borghese dalla provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e delle terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove dormivano. The Ditch (Il fossato) racconta il loro destino. Ancora un grandissimo regista cinese, capace di non far rimpiangere uno dei massimi esponenti della cinematografia mondiale in assoluto, il connazionale Jia Zhangke. Completamente diversi nello stile, ma con la stessa capacità di mescolarsi con la materia filmica, senza intralciare il flusso degli eventi, senza manipolare eccessivamente le pulsazioni dell’esistenza. Nella fossa comune batte lentamente, fino a fermarsi, il cuore di un Paese trincerato e devastato, fuori, nel deserto invece il vento, la polvere, i lamenti, l’orizzonti irraggiungibile, sono tormenti dell’anima, burrascose tempeste di corpi piegati e sofferenti. Documentare sembrerebbe l’unica strada percorribile, l’unico sentiero riconoscibile in quel deserto spazzato via dal dolore, ma in realtà lo sguardo di questo magnifico autore si perde nel nulla della narrazione, elevando anche un granello di sabbia sollevato dal vento al più memorabile dei miracoli. Wang Bin (co-sceneggiatore di Hero e La foresta dei pugnali volanti, nonché autore di He Fengming, documentario-intervista di una anziana donna cinese che racconta la sua personale odissea attraverso la Cina comunista del dopoguerra) segue un modus operandi rigoroso e dalla morale rigida, come le immagini scolpite dalla macchina fissa. Poche inquadrature, ma lunghe nella propria staticità. Una dilatazione temporale che non sembra avere fine, spazi chiusi (anche quelli sterminati fuori campo) che danno poco respiro, così come chiuso il mondo dei protagonisti. Più che chiuso probabilmente quel mondo è proprio giunto alla fine, senza ritorno, ma la morte è leggera, quasi metafisica, fluttua nell’aria, anche oltre lo schermo e si deposita come polvere. Apparenza ed esistenza quindi sono lo stesso in quanto ciò che esiste, appare. In quanto e per quanto appare questo cinema, apparenza e verità coincidono. Wang Bing ci fa credere fino in fondo nel vuoto perché nasce dall’astrazione dello spazio-luogo filmico, lontano da ogni immaginazione o forse troppo spesso solo immaginato dai registi professionisti del dolore. Metafisico quindi perché trascendentale meta in atto posta al fisico e alla mente.

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