Leopardi era davvero pessimista? Il parere dei docenti di Letteratura

internazionale_logoLeopardi,_Giacomo_(1798-1837)_-_ritr__A_Ferrazzi,_Recanati,_casa_LeopardiRecentemente, la rivista “Internazionale” ha pubblicato un articolo di una docente universitaria, Clizia Carminati, che parte dall’analisi del pensiero di Leopardi, suddiviso convenzionalmente in tre o quattro fasi di pessimismo, ma che la docente critica, poiché la ritiene errata, per estendere la critica ai metodi di insegnamento, liceali e universitari compresa la strutturazione del Corso di Studi in Lettere.

Abbiamo pensato quindi di sentire il parere di tre esperti di Letteratura Italiana: la docente Luciana Donato, del liceo “Lucrezia della Valle” di Cosenza; la docente Margherita Ganeri dell’Università della Calabria e il Dott. Giovanni Potente, docente a contratto di Laboratorio di Italiano Scritto dal 2001 al 2014 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria.

Link dell’articolo pubblicato giorno 02 febbraio 2015 della rivista Internazionale http://www.internazionale.it/opinione/clizia-carminati/2015/02/02/leopardi-non-era-pessimista-quello-che-sanno-e-non-sanno-i-futuri-insegnanti e a seguire le interviste

-Come si è avvicinato/a alla Letteratura italiana e come ha deciso di farla diventare la “scelta di una vita”? È stata una passione spontanea o è stato un autore in particolare che l’ha affascinato/a tanto da condizionare la sua scelta?

D: La mia passione per la letteratura italiana è frutto della sapiente stimolazione culturale ricevuta da parte di mia madre, saggia maestra elementare e grande appassionata di tutto ciò che concerneva azioni pedagogiche intensive e mirate. In casa mia i libri di letteratura infantile e poi quelli per giovani e adulti e anche le enciclopedie di ogni tipo, erano sempre disponibili e scelti con attenzione tra i più importanti e più adatti a contribuire alla formazione culturale di noi figli. Quale autore mi ha affascinata? Non so, trovavo affascinante ogni autore non solo italiano ma anche straniero: la Alcott; G.Sand; G.Verne; Dickens. Ma il primo, in assoluto, è stato Collodi e poi De Amicis letti dalla mia mamma.

G: Direi che la mia passione è stata spontanea e precoce. Fin da bambina mi piaceva molto leggere e scrivere, e già alle elementari sognavo di poter continuare a leggere e scrivere per tutta la vita. Dopo il liceo, però, avevo in mente di diventare archeologa. Mi ero iscritta a Lettere classiche con questo scopo. Le lezioni di Letteratura italiana di Romano Luperini all’università di Siena mi fecero cambiare idea. Ricordo che le prime che seguii erano sul Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga.

P: In quanto alla ‘passione spontanea’, sappiamo che la spinta alla conoscenza è un dáimon irrefrenabile e totalizzante, anzi, totalitario: esercita un dominio assoluto sull’esistenza di chi ne è preso. Nel mio caso si è manifestato prestissimo, e la lettura ha rappresentato la risposta più immediata. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state segnate dalla letteratura. A cominciare da autori quali Jules Verne, Emilio Salgari, Jack London. Libri come Viaggio al centro della terra, Le tigri di Mompracem o Il richiamo della foresta ampliarono gli orizzonti della mia mente e del mio immaginario, intensificando ulteriormente la mia curiositas (nell’accezione classica: sete di conoscenza). E mi fornirono preziose coordinate storiografiche ed etiche: per esempio, grazie a Salgari iniziai già da allora a guardare con sospetto e col necessario senso critico all’imperialismo britannico e a quello dell’intero Occidente. In quel periodo il percorso formativo di bambini e adolescenti (perlomeno di quelli più attenti e predisposti) includeva una serie cospicua di fonti e opzioni, dai fumetti al teatro ai film. Allora era ancora vivo e vitale il grande cinema d’autore, e si poteva scegliere se andare a vedere Kubrick o Bertolucci, Wenders o Herzog. E la RAI mandava in onda in prima serata, tanto per dire, capolavori come L’asso nella manica, Fronte del porto, Viva Zapata! o Quarto potere, oltre ad importanti rappresentazioni teatrali e memorabili sceneggiati. La letteratura, tuttavia, per me restò a lungo il principale riferimento. Devo precisare però che questo avvenne senza distinzioni tra la tradizione italiana e quelle straniere. Così già i primi anni di università, tra l’impegno personale e quello legato agli studi, avevo completato un percorso di letture onnivoro e variegato, che includeva i più importanti capolavori della letteratura classica, di quella italiana e di quelle straniere. Ovviamente, alcuni autori e alcune opere hanno maggiormente segnato la mia formazione culturale e spirituale. Tra queste posso citare alla rinfusa l’Epopea di Gilgamesh, la Baghavad Gīta, l’Iliade e l’Odissea, le grandi tragedie greche (su tutte L’Edipo re, come grande discorso sul degrado della regalità sacra, e la Medea), Le Metamorfosi di Ovidio, L’Asino d’oro di Apuleio, i Trovatori, il ciclo di romanzi della Tavola Rotonda e quelli di Chretien de Troyes, naturalmente la Divina Commedia, poi il Don Chisciotte, quasi tutto Shakespeare compresi i Sonetti, i simbolisti francesi, Moby Dick, Kafka, l’Ulisse di Joyce, The Waste Land di T. S. Eliot, tutto Borges e poi ancora Conrad (in particolare La linea d’ombra e la memorabile denuncia del “cuore di tenebra” dell’Occidente. E a quel tempo risalgono i primi approcci – maturati in seguito – alla poesia mistica islamica del Medio Evo (Rūmī, Sana’i ecc.). Per quanto riguarda la letteratura italiana, invece, indimenticabile e decisivo è stato l’incontro con Torquato Tasso, in particolare con la Gerusalemme liberata, cui avrei in seguito dedicato la tesi di dottorato.

– In linea generale, è d’accordo su quanto afferma la docente che ha scritto l’articolo?

D: La docente, in linea generale, può essere condivisa; tuttavia, non è detto che la lettura diretta dei testi sia del tutto sparita dall’insegnamento della letteratura, anzi sarebbe privilegiata e ancor più affinata dall’introduzione di una tipologia di scrittura come l’analisi testuale, tra quelle proposte dal Ministero all’Esame di Stato.

G: Sono parzialmente d’accordo, ma credo i complessi problemi chiamati in causa nell’articolo avrebbero bisogno di analisi più approfondite.

P: L’articolo, lucido e pertinente, ‘fotografa’ la situazione. Non è opinabile: è semplicemente – e tristemente – oggettivo.

È d’accordo sul fatto che Leopardi non era pessimista? E se così fosse lei come lo definirebbe?

D: Leopardi sicuramente amava la vita e da essa fu drammaticamente deluso perché costretto a non veder mai realizzate le tante aspettative giovanili. L’ Autrice dell’articolo in questione rifiuta il fatto che si possa ridurre la conoscenza di Leopardi al saper incasellare ben bene i periodi della sua vita e la sua produzione poetica nelle varie fasi del pessimismo. Fino a questo è vero, è vero se si pretende di conoscere un autore tanto complesso e vivo tenendo a mente solo delle “formulette”; tuttavia chi dice che la lettura diretta dell’Autore non si usi più? Che la Scuola la abbia bandita totalmente e che gli insegnanti non la propongano più?

G: Sul fatto che Leopardi sia un pessimista non credo ci possano essere dubbi. Che non usasse il termine e non si autodefinisse tale non sono argomenti validi a smentire la definizione, derivante da un ampio dibattito filosofico e critico.

– Nella sua esperienza di docente liceale/universitario, ha avuto modo di osservare e verificare come gli studenti si rapportano a Leopardi e, in generale, alle Letteratura Italiana. Ritiene che comprendano davvero il pensiero del poeta o si limitano agli schemi che i manuali, e spesso i luoghi comuni, impongono? E per quanto riguarda la Letteratura Italiana in generale? Cosa pensa dell’utilizzo del manuale da parte degli studenti, che semplifica e schematizza i pensieri degli autori, invece di leggere, ad esempio, un’opera per ogni autore cardine della Letteratura Italiana?

D: Nella mia lunga esperienza di docente ho sempre riscontrato molto efficaci le letture dirette degli autori e non mi sono mai fermata alla esposizione, più o meno schematica, di notizie su di loro. Ho sempre proposto la lettura di brani significativi dei diversi autori, variata il più possibile. Gli alunni seguono le letture e, in particolare, la poesia e Leopardi, per loro è sempre, come dire?, una bella sorpresa. Perché basta una attenta ed efficace “visita” nelle pieghe più nascoste dell’anima leopardiana, per far cadere gli stereotipi più radicati e duri a sparire. Se poi si riesce anche a far apprezzare, oltre al contenuto, anche la musicalità della lirica, leopardiana e non, il gioco è fatto. Più volte ho visto classi “chiacchierine” prestare attenzione e anche a lungo, se, come dicono i ragazzi ciò che si dice “è bello”; sarebbe bello poter proporre lo studio dell’opera più significativa degli autori studiati; per alcuni scrittori bisognerebbe renderlo obbligatorio: i narratori del Novecento, per esempio.

G: Non si può dare una risposta unica e valida per tutti i casi a questa domanda, perché gli studenti universitari, essendo adulti in larga parte già formati, sono difficilmente omologabili in un’entità unitaria. In generale posso dire che il rapporto tra l’attuale popolazione studentesca e il linguaggio della tradizione letteraria è diventato difficile. Chi studia oggi ha molte difficoltà persino nella comprensione letterale dei testi. Nella didattica universitaria contemporanea, i manuali sono ridotti al minimo e in molti casi sono addirittura scomparsi. I programmi degli esami di Letteratura italiana e di Letteratura italiana contemporanea contemplano classici e testi critici, solo in rari casi anche manuali storiografici. Il problema, però, è che il numero di classici che può far parte di un programma d’esame è limitato. Per questo molti laureati ignorano molti autori, opere, fenomeni, correnti. Dal mio punto di vista i manuali dovrebbero essere reintrodotti, perché sono gli unici strumenti utili a padroneggiare l’insieme di quello che si chiama il «canone letterario».

– Cosa pensa del fatto che gli studenti non comprendono, fraintendono l’italiano arcaico? Tra l’altro, l’italiano moderno è sempre più brutalmente violentato dalle abbreviazioni e dagli errori grossolani. Cosa pensa di ciò? Nella sua esperienza di docente ha riscontrato, statisticamente, una buona conoscenza della lingua italiana nei suoi studenti?

D: La lettura guidata dall’insegnante può aiutare i ragazzi a superare le difficoltà che sicuramente riscontrano nella lettura dell’Italiano più antico che è faticosa per loro e richiede paziente applicazione per evitare fraintendimenti; le versioni facilitate possono essere utili per mantenere viva l’attenzione; è certo, comunque, che anche la lettura del testo originale è importante. Per quanto riguarda la conoscenza e padronanza della lingua moderna, devo ammettere di riscontrare un progressivo decadimento e un radicamento di usi errati difficili da estirpare.

G: Penso che sia vero, ma anche inevitabile, perché le lingue si evolvono e trasformano. La vera crisi contemporanea, a mio parere, non è tanto di natura linguistica, quanto di natura culturale. Ė la letteratura stessa a essere in declino, e per ragioni che non sono determinate dal sistema scolastico, come si sostiene nell’articolo, ma da un complesso insieme di fattori economici che si intrecciano alla cosiddetta «rivoluzione informatica». Lo scarso grado di padronanza della lingua italiana tra gli attuali studenti universitari è un dato ormai ampiamente certificato. Ciò che riscontro quotidianamente, purtroppo, è che all’impoverimento dell’espressione orale fa seguito un ben più grave impoverimento dell’espressione scritta.

P: In verità, nei 15 anni di didattica di Laboratorio di Italiano Scritto non ho registrato troppi casi di evidenti lacune grammaticali. Invece, ho dovuto verificare un drastico impoverimento tanto del repertorio lessicale degli studenti quanto della cosiddetta ‘cultura generale’. Il fenomeno deriva, in tutta evidenza, da una più articolata e complessa dinamica sociale, che coinvolge pure quella minoranza fortunata di giovani che ancora può iscriversi all’università: la sempre più rara familiarità delle persone con la lettura (con la lettura in senso lato, compresa quella di un semplice quotidiano). Il contesto generale da cui provengono e in cui continuano a muoversi i nostri studenti è quello di un Paese in cui, come riportano i dati e le statistiche, aumenta in modo esponenziale il cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, ed in cui, come attesta l’Istat proprio in questi giorni, il 26% dei giovani tra i 15 e i 30 anni non studia né lavora ( in Calabria questa percentuale già scabrosa sale ad un drammatico 35,6%), mentre solo il 42% delle persone raggiunge il diploma di scuola media. Del resto, di queste dinamiche i nostri giovani sono le vittime, non i protagonisti. Si tratta, a ben vedere, di una autentica e perversa ‘involuzione antropologica’ che ha investito il nostro Paese a partire da almeno gli anni Ottanta del Novecento, col diffondersi dei modelli culturali imposti dalle televisioni commerciali: una involuzione che ha stravolto il nostro sistema di valori, innescando una deriva consumistica ed edonistica che ha spazzato via, tra le altre cose, anche il rilievo e l’importanza che prima (fino a tutti gli anni Settanta) si annetteva all’istruzione e alla cultura, quindi alla lettura, ai saperi e alla loro condivisione. Chi abbia innescato e a chi abbia giovato questa ‘mutazione’ delle ‘strutture profonde’ della mentalità, del comune sentire e dei nostri valori mi sembra chiaro: definirlo genericamente ‘Potere’ può bastare. L’argomento è essenziale, ed ovviamente in questa sede non mi ci posso soffermare (l’ho trattato, però, più diffusamente nelle dispense del mio Laboratorio). Posso solo far notare come non solo il Potere, nella sua essenza, sia fatto esso stesso di linguaggio, ma anche come le Istituzioni del Potere (Governi, Stati, organismi sovranazionali) abusano quotidianamente e sistematicamente del linguaggio che ci circonda, attivando le prassi più bieche ed ingannevoli della peggiore propaganda. In questo senso, è sono prima di tutto le Istituzioni che ‘violentano brutalmente’ l’italiano. Oppure, semplicemente quanto perfidamente, lo rinnegano, adottando termini e formule stranieri. Per esempio, uno squallido anglismo come Jobs Act non rappresenta soltanto un oltraggio alla lingua di Dante e alla nostra identità culturale, ma cercando di evocare una sensazione di moderna efficienza anglosassone, aziendale e tecnocratica, serve a nascondere una ben più cruda verità: l’ennesimo attacco ai diritti dei lavoratori. Un attacco che comincia appunto con un atto supremamente linguistico.

– Uno fra gli scrittori presi a modello di riferimento dai giovani d’oggi è Moccia piuttosto che Leopardi, D’Annunzio, Montale, scrittori della Letteratura italiana che tradizionalmente si studiano a scuola. È d’accordo con questa affermazione? E se sì, pensa che si tratti di un’evoluzione o di un’involuzione? Se così fosse, pensa vi siano soluzioni?

D: Il modello di riferimento non per tutti è solo Moccia, la percentuale di giovani che non hanno letto nemmeno Moccia è abbastanza alta, tuttavia, tra i giovani che leggono c’è anche chi legge Montale e altri Autori. Bisognerebbe riportare i giovani alla lettura. Non so indicare soluzioni che non appaiano banali; forse la Scuola può agire, cercando di far amare agli studenti ciò che viene insegnato.

G: Probabilmente tra i giovani in età scolare o tra quelli che non intraprendono studi universitari quanto Lei afferma è vero. E certamente si tratta di un’involuzione, visto lo scarso livello di scrittori come Moccia. Le soluzioni dovrebbero essere cercate in primo luogo a scuola, ma servirebbe anche l’influenza di una società colta, di una società di lettori, che l’Italia non ha e che rischia di avere sempre meno, in questo momento di grave crisi.

P: Non so se il modello di riferimento dei giovani sia Moccia o Leopardi. Certo, una generazione di adolescenti e di giovani chiusa negli orizzonti svenevoli ed auto-referenziali di un autore come Moccia rappresenta esattamente la realizzazione di uno dei più intensi desideri del Potere: avere a che fare con una generazione il cui senso critico è disinnescato a monte, il cui potenziale ‘impegno’ sociale e politico è inibito in partenza, e la cui attenzione è distratta rispetto ai veri problemi della società, pertanto è facilmente suggestionabile e manovrabile. Esattamente come gli adulti, a loro volta distratti e impauriti dalle stringenti necessità della mancanza di lavoro e della ‘crisi’ (una crisi indotta a tavolino e innescata da politiche monetarie europee, come l’introduzione dell’euro). Insomma, è chiaro che un popolo di ignoranti è più facile da controllare, e che Moccia è parte integrante del rincretinimento generale in atto.

– Ritiene che i criteri per iscriversi al Tfa siano validi e sufficienti?

D: Non conosco bene i criteri in questione, penso, però, che i TFA dovrebbero garantire l’accesso a chi ha già delle conoscenze specifiche.

G: Condivido l’idea che si possa accedere al Tfa solo dopo una laurea superiore. I processi di selezione affidati ai test, invece, non mi sembrano validi, perché non selezionano i candidati migliori.

– Cosa ne pensa dei corsi di laurea in Lettere che prevedono nel piano degli studi un solo esame di Letteratura italiana? Secondo lei come dovrebbe essere strutturato un Corso di Laurea in Lettere?

D: Il mio corso di laurea in Lettere Classiche, allora quadriennale, prevedeva due esami di letteratura italiana, due di letteratura greca, due di letteratura latina, per non parlare delle filologie, della storia ecc. Questi esami imponevano, oltre ai diversi corsi monografici, anche lo studio di una vasta scelta di autori ed opere: non basta un solo esame! È durante gli anni universitari che si approfondisce la conoscenza della disciplina studiata, quando altrimenti? Quindi, bisognerebbe riproporre un piano di studi strutturato in maniera simile a quello vecchio, quadriennale.

G: Ormai esistono moltissimi corsi di laurea, e in molti, secondo me, non serve più di un esame di Letteratura italiana. In generale credo che al centro della formazione universitaria odierna, nei percorsi di laurea in Lettere, dovrebbe essere posta la scrittura. Si dovrebbe scrivere molto, dal primo all’ultimo anno, perché oggi, come ho già detto, solo una minoranza esigua degli studenti mostra di saper scrivere in modo corretto.

P: Naturalmente, un corso di laurea in lettere che preveda un solo esame di letteratura italiana è inconcepibile. Quanto a come dovrebbe essere strutturato un corso di laurea in Lettere, non mi esprimo nel dettaglio. Posso solo dire che il mio ideale percorso formativo umanistico include categoricamente, in una prospettiva il più possibile interdisciplinare, studi di Letteratura italiana, latina e straniera, di Storia, Geografia, Storia dell’arte, Storia della filosofia, Storia del cinema, Antropologia culturale e Storia delle religioni.

– Studiare in modo approfondito tutti gli autori della Letteratura italiana sarebbe, purtroppo, impossibile, per mancanza di tempo. Quali sono gli autori, secondo lei, la cui conoscenza è imprescindibile per poter dire di conoscere la nostra Letteratura? Ritiene davvero che gli studenti dovrebbero leggere tutti i componimenti del Petrarca, come auspica la Carminati?

D: La letteratura italiana è vasta e molto articolata, se si tentasse di approfondire anche un solo secolo sarebbe già una bella scommessa! Gli Autori non possono non essere quelli già studiati nei Trienni della Scuole Superiori (Petrarca deve essere letto e in modo approfondito, sono quasi d’accordo con la Carminati ma con la necessaria attenzione a non trascurare i Contemporanei, narratori e poeti. Non è completa la conoscenza della Letteratura Italiana se non si è letto, per esempio, Calvino, Pasolini, Bertolucci, Luzi, Fo, Sciascia, Maraini, Tomasi di Lampedusa, Ginzburg……..non continuo: la lista è lunga!

G: Un canone pur ristrettissimo dei classici fondamentali non può non prevedere: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Tasso, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Verga. Per il Novecento il discorso si complica, perché il canone non è ancora del tutto formato. Tuttavia, autori come Pirandello, Saba, Svevo, Montale, Ungaretti, Gadda, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Morante, Calvino, Pasolini dovrebbero essere noti a tutti gli studenti. E però ci sono parecchi “minori” che non mi sentirei di escludere. Le mie predilezioni di lettura, per esempio, mi fanno credere che se non si conosce l’opera di Federico De Roberto, non si conoscere la letteratura italiana post-unitaria.

P: Ritengo sia necessario seguire, più che i canoni e le mode, un criterio preciso. Che è quello valido in ogni aspetto della vita. Ossia ricercare ciò che ci aiuti nel compito precipuo dell’esistenza (almeno delle esistenze più evolute): “espandere la coscienza”. Ecco: anche nella scelta degli autori cui dedicare il nostro impegno, si vada ad individuare quelli che ci aiutano ad amplificare la nostra consapevolezza spirituale e sociale. In questo senso, Dante e Tasso sono i soli Maestri della nostra civiltà letteraria che considero assolutamente ineludibili.

– È d’accordo con la frase con cui la docente chiude l’articolo “Non si può quantificare la conoscenza, e tanto meno il pessimismo.”?

D: La conoscenza è fatta di tante cose che non si possono, però, confondere con le nozioni; il pessimismo non so se si possa quantificare, non credo si debba fare.

G: Che si tratta di una frase ad effetto, su cui non c’è bisogno di ragionare troppo.

– Ritiene che davvero gli studenti dovrebbero leggere tutti i componimenti del Petrarca, come auspica la giornalista?

G: Per un esame o per una tesi su Petrarca, certamente sì. In altri casi credo che una selezione possa bastare.

– Cosa ne pensa del fatto che gli studenti leggano opere in italiano arcaico (come il Machiavelli citato dalla Carminati, ma come tanti altri) esclusivamente nella traduzione in italiano moderno?

G: Che sia come leggere Sofocle o Shakespeare o Tolstoj in italiano moderno. Non vedo quale sia il problema, a meno che non studino per diventare insegnanti di letteratura italiana.

– Cosa pensa del fatto che gli studenti utilizzano il manuale che semplifica e schematizza i pensieri degli autori invece di leggere, ad esempio, un’opera per ogni autore cardine della Letteratura Italiana? E cosa pensa del fatto che gli studenti non comprendono, fraintendono l’italiano arcaico?

P: Posso iniziare a rispondere a queste due domande – strettamente interconnesse – citando proprio l’articolo della Carminati, che giustamente rileva come sia un problema il fatto che tanto nelle scuole quanto nelle università i docenti insistono troppo sulla “critica” e sui manuali (la “bibliografia secondaria”) rispetto alla lettura diretta dei testi (la “bibliografia primaria”). Questo scompenso è assolutamente pernicioso. Messi troppo poco a confronto con i testi, gli studenti non sono adeguatamente allenati ad operare in senso filologico, quindi a praticare la comprensione letterale dei testi e la loro parafrasi (la ‘traduzione’ dal loro italiano in quello corrente). E in effetti, fu anche per ovviare a queste mancanze che, come sanno i miei ex studenti, proprio la comprensione e la parafrasi di testi in prosa e in versi erano parte del programma del Primo Livello del mio Laboratorio di Italiano Scritto. In effetti, ritengo che nell’insegnamento della letteratura italiana si dovrebbe seguire sempre il metodo di cui ho potuto usufruire come studente della Facoltà di Lettere dell’Unical. La parte monografica dei due corsi di Letteratura italiana da me seguiti, tenuti dal prof. Roberto Mercuri, era dedicata alla Divina Commedia. Le lezioni consistevano principalmente in una puntuale e mirata disamina filologica dei canti sui quali era maggiormente concentrata l’attenzione. Il testo era analizzato parola per parola, verso per verso. Quindi si procedeva alla sua corretta comprensione letterale e alla sua parafrasi. Solo a questo punto si passava al disvelamento dei livelli semantici del testo, inclusi i suoi più profondi significati simbolici e allegorici, ricollegandoli al complesso della cultura filosofica e teologica dell’autore e al contesto generale della civiltà medioevale. Ebbene, penso che un corso di Letteratura italiana vada sempre tenuto in questo modo. E ciò vale prima di tutto per il metodo: qualunque sia l’autore trattato, gli studenti vanno messi a diretto rapporto con i testi, prima che con la critica, e vanno guidati nell’analisi filologica, quindi nella comprensione letterale e nella parafrasi. Ma il discorso riguarda anche il merito del testo su cui operare: sono convinto che almeno uno dei due corsi di Letteratura italiana essenziali per una laurea in Lettere debba essere categoricamente destinato alla Divina Commedia, opera fondamentale della moderna civiltà letteraria occidentale, unico capolavoro della letteratura italiana che il più grande critico vivente, Harold Bloom, ha inserito nel suo The Western Canon. E vale giusto la pena ricordare come il capolavoro di Dante sia al tempo stesso eterno e attualissimo. Eterno come solo un classico universale può esserlo, nella misura in cui conferisce al lettore saperi e significati di ordine metafisico (in questo senso la Divina Commedia è un testo che rientra pienamente nella Tradizione, nell’accezione che alla Tradizione assegnava René Guénon). Attualissimo per come resta pertinente e all’ordine del giorno la sua critica di fondo alle degenerazioni della ‘civiltà borghese’. Per esempio, a fronte del degrado sociale e morale indotto nel contesto globale dal dominio plutocratico esercitato dall’élite finanziaria, i versi che nell’Inferno Dante dedica al peccato di usura, di cui denuncia la dimensione oltremodo oscena e contro-natura, restano illuminanti e, appunto, di pregnante attualità. Infine, relativamente alla parte della domanda in cui Lei fa riferimento al fatto che i nostri studenti dovrebbero leggere almeno una delle opere maggiori dei nostri più importanti autori, ricordo che solitamente, a prescindere dallo studio delle parti monografiche, il resto dei due esami di letteratura italiana consisteva appunto nella lettura di buona parte dei capolavori della nostra tradizione. Laddove oggi così non fosse, si tratterebbe di un clamoroso errore di impostazione.     

– Ha mai riscontrato questi “equilibri di potere” di cui parla la giornalista all’interno delle Università?

P: Già da studente mi resi conto che l’Università non è il “tempio del sapere”, il luogo d’elezione di una nobile congrega di sapienti che ritenevo fosse. Comunque, vorrei rispondere in parte riprendendo un articolo che dedicai tempo fa all’argomento. L’Università è un luogo “del” Potere per il fatto stesso di essere una Istituzione: come la Scuola, le caserme, le banche e le carceri. Ora, noi abbiamo imparato dal Foucault di Sorvegliare e punire che il Potere svolge un doppio ruolo: “reprimere” e “produrre”. Ed il Potere “produce” innanzi tutto se stesso, determinando, mettendo in atto e dispiegando l’immateriale “impalcatura culturale” che lo sorregge. In altri termini, il Potere “produce” il sistema di valori che lo legittima, la visione del mondo condivisa dalle persone, il linguaggio che lo rappresenta (propaganda, slogan). In ultima analisi, ancora ha ragione Foucault: il Potere “produce” le persone, attraverso, si intende, la trama di condizionamenti (culturali, linguistici, mediatici ed etici) che mette in campo. Per questo la sua funzione repressiva è perfino secondaria: quando il Potere reprime, lo fa nei confronti di persone che sono già, in buona parte, sue emanazioni. Così, laddove la “caserma” (il comparto poliziesco-militare) reprime e il carcere punisce (la punizione senza redenzione della galera), l’Università è luogo “del” Potere in quanto è lì che il Potere “produce” e ribadisce se stesso attraverso la propria “rappresentazione” in termini di idee e concezioni del mondo. Più precisamente, l’Università è luogo “del” Potere perché in definitiva ne è un logo . Proprio come un logo o un brand “raccontano” e manifestano una azienda o un prodotto, così l’Università “narra” il Potere, giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, nella misura in cui procede alla “grande narrazione” o “meta-narrazione” (la definirebbe Lyotard) della Kultur occidentale, raccontando e letteralmente “pubblicizzando” (nel senso di presentare – ed imporre – ad un pubblico: gli studenti) il prodotto di se stesso: l’impalcatura ideologica che lo riafferma e giustifica, legittimando la “realtà” così com’è. Insomma: alle persone che sono in larga misura già un suo “prodotto”, il Potere offre la “struttura” (inverto volutamente la terminologia marxiana) dei valori e delle credenze che esso stesso “produce” e che simultaneamente lo identifica, nel senso che gli conferisce la sua identità, attraverso la quale si fa riconoscere e si impone al mondo. In ogni caso, la “grande narrazione” della “cultura ufficiale” accademica si offre e ci offre l’immagine di un “mondo così com’è” conciliato con se stesso, congruo, auto-fondato, coerente. Quindi giustificato e legittimato culturalmente in ciò che è: la versione moderna dell’inesausto Imperialismo dell’Occidente. Ma l’Università non è solo una Istituzione “del” Potere. Essa stessa è intimamente costituita “di” Potere. Come tutto ciò che è fatto da e di relazioni umane. Perché il Potere non consiste solo nelle Istituzioni che lo incarnano e rappresentano. Piuttosto, come ancora vuole Foucault, esso è (anche) una sorta di aura immateriale: è ovunque, impersonale e anonimo; si «esercita a partire da innumerevoli punti e nel gioco di relazioni diseguali e mobili» (La volontà di sapere). Questa dimensione del Potere, la più sottile e subdola, nell’Università si respira assieme all’aria, appunto perché vibra nelle relazioni interpersonali: trionfa nel sussiego superbo di uno sguardo; dilaga nell’autocompiacimento intellettuale mal dissimulato di certi discorsi; si distende in un sorriso di superiore accondiscendenza; giace nella deferenza subalterna di qualcuno; si scuote nelle gratuite impennate autoritarie di altri; insiste nelle prassi nepotistiche; si palesa nel mobbing e nel bossing quotidiano; si dispiega nelle stanze, negli uffici e negli studi. Insomma, vive nella struttura gerarchica stessa che costituisce l’accademia. E che poi questo Potere si manifesti in forma di torbidi giochi ed “equilibri di potere” (per i quali a volte persino qualche corso o qualche Laboratorio viene fatto scomparire), ciò è purtroppo inscritto nella natura stessa dell’Università, che riflette problemi e contraddizioni di ogni ambito di una società in crisi: in crisi etica, prima che economica.

Angela Francesca Mandarino

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