CRITICANDO: Il perché dell’emotivo

Uno dei problemi più attuali, riguardo la letteratura, non è tanto il “come” quanto il “perché”.
Sempre più spesso, infatti, si riconosce nella produzione editoriale contemporanea la tendenza al “romanzo di sé”, allo scritto autobiografico, all’esperienza trasfigurata in appassionante avventura dei sentimenti.
Lungi da ogni intento di questo scritto il sindacare sull’importanza dell’esperienza individuale, e anche di sindacare sulla necessità di esprimere l’esperienza in sé; ma – e questo va chiesto tanto a editori quanto a lettori – c’è davvero necessità di piazzare l’esperienza su un libro, e poi di venderlo? Perché il bisogno di diffondere, e soprattutto di vendere, un racconto della propria storia – per quanto velato, romanzato, restaurato?
La verità – e non vale soltanto nel campo editoriale – è che non tutte le esperienze hanno lo stesso valore, non tutte le produzioni artistiche o pseudo-tali hanno bisogno di essere diffuse e fruite e, semplicemente, non ogni cosa che è stata scritta e sofferta ha davvero il diritto di essere letta. Il sentimento non è garanzia di qualità.
Perché il sentimento e l’autobiografia in editoria, allora? Perché l’empatia è uno strumento rapido ed efficace per assicurare successo e vendite. Perché è semplice poter condividere quanto scritto nell’ultimo romanzo acquistato, se questo insiste su emotività semplici da comprendere e afferrare. Perché fa stare bene leggersi in qualcosa che non si è scritto da sé, riconoscersi in una rappresentazione altra e potersi dire “allora qualcuno altro la pensa uguale”.
Ma questo modo di intendere la letteratura appare figlio della percezione commerciale della rappresentazione, e della filosofia dell’estremo “hic et nunc” senza tanti problemi. In realtà la buona letteratura è quella che offre rappresentazioni del reale, sì valide, sì condivisibili, ma anche oggettive e tendenti all’universale. Come per dire, una visione sarà vera per te che l’hai, ma non per tutti gli altri indistintamente. Una buona letteratura è quella che va oltre l’emotività e sa dare un’oggettività – a volte solo una parvenza, è vero – che sappia andare oltre il valore sentimentale.
Cosa dire, allora, delle centinaia di sguardi sul mondo che l’editoria – piccola o grande che sia – mette in commercio? Ennesimo esempio della frammentazione sociale, o anche dimostrazione dell’incapacità di selezione da parte dell’industria letteraria? C’è stato un tempo in cui, sebbene il libro fosse mercificato, si aveva un’idea chiara su cosa valesse la pena spacciare e su cosa fosse, semplicemente, espressione di un secondo. Sarebbe interessante vedere cosa si sceglierebbe, oggi, se si cercasse di individuare espressioni non di un solo istante, ma anche di minuti, di ore e, perché no, di epoche intere.

Francesco Corigliano

3 commenti su “CRITICANDO: Il perché dell’emotivo”

  1. In realtà l’elemento autobiografico è uno dei motori più primordiali e antichi della scrittura. Non è nuovo. Non è neanche nuova la tendenza, da te correttamente segnalata, a sfruttare al massimo questo “motore” e il legame emotivo che si instaura col lettore per aver successo. Il punto secondo me è più banale: di letteratura di scarso valore ce n’è sempre stata, e ora che le possibilità di pubblicazione anche non su stampa sono infinite, è ovvio che l’eventuale scritto di valore anneghi.
    La domanda quindi è non tanto scegliere quegli autori migliori, e cioè costituire un canone, ma permettere a questo canone un modo per far sentire la sua presenza. Fino a quarant’anni fa era così, se qualcuno nominava Pasolini o Calvino chiunque si fermava, chiunque sapeva qualcosa e aveva anche voglia di dire qualcosa. Ora, “Cultura” è una parola sporca. E’ inutile nella pratica e sbeffeggiata nella teoria, ed è persino imbarazzante dover confessare di voler dedicarci la tua vita, o semplicemente di amarla e studiarla con piacere.
    Come? Eh, non lo so. Forse iniziando a esportare l’idea che ne serva uno, riportare antropologicamente l’idea che “Cultura” non sia una brutta parola, e che anzi ce ne sia necessità. Il caso Saviano – per chi come me l’ha visto dall’esterno, nelle sue ombre è un po’ un esempio positivo, perché nel “mito” di Saviano c’è anche il mito di cultura e letteratura come forza che cambia il mondo, come tentativo di ribellarsi alla mediocrità. Quali che siano i suoi meriti, ha fatto “leva” in moltissime persone, che sfruttano lui (e, sempre meno indirettamente, la cultura) quasi come “totem” per la loro piccola rivalsa. Appunto per questo temo che canale per questo tentativo non possa essere il libro. Il libro è troppo impegnativo, vi si può arrivare alla fine di un percorso che nasce su internet e in televisione.
    Io però, come sempre, sono ottimista. Non mi costa nulla.

  2. Insomma è un problema di ricezione e di percezione? La cultura (le culture)continuano ad esistere, e ad essere vissute e avversate,sopratutto senza coscienza. Credo che i canoni già ci siano, su varie scale, e che semplicemente non ci sia capacità di conoscerli oltre che di usarli.
    Vero senz’altro il punto sulla massiva produzione editoriale, che fa sembrare ancora più strano il caso Saviano. Significativamente, in realtà, anche attraverso un libro. Magari ci si arriva alla fine di un certo percorso, magari non ci si arriva mai, ma credo che in un movimento culturale (in senso ampio) che si rinnovi o che nasca, sia impossibile non usare il libro come strumento principale.

    1. Intendevo “cultura” nella sua accezione più utilizzata, cioè quella alta, propria delle élite culturali. Che la cultura nel senso antropologico esista ed esisterà sempre lo so benissimo. Il problema è che questa cultura, diciamo popolare, viene vissuta ma non riflettuta. Il vecchio detto che la vita o la si vive o la si scrive già basta a notare come la cultura “alta” non sia che attimo riflessivo e autocosciente (so di produrre cultura, so di produrre cultura sulla mia cultura…) di quella popolare. Ma il discorso così si fa un po’ lungo.
      Tornando a noi: Saviano è nato con un libro, ma è cresciuto tra cinema e tv. I canali di comunicazione di massa oramai sono quelli, e forse è da lì che bisogna partire (assieme a internet) per arrivare al libro. Non è che non sia più uno strumento principale di cultura: semplicemente, penso stia alla fine di un percorso piuttosto che all’inizio. E’ la meta, non il punto di inizio, tutto qui.
      E, per rispondere alla tua domanda iniziale (che temo d’aver saltato): sì, temo sia un problema di percezione. L'”Alta cultura” (giusto per distinguerla da quella ordinaria) è… neanche percepita male, ma ignorata. Non è più richiesta da nessuno e in nessun luogo, pubblico o meno che sia. Non serve a darti soldi, e quindi è come se non esistesse. Non è neanche avversata o sbeffeggiata – non sempre almeno. Più spesso è ignorata, come una mendicante.
      Quindi, ancor prima che scrivere libri, bisogna capire come fare affinché vengano letti.

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