“Dig & Play”, la sepoltura dei giochi Atari

Nell’anno del 45esimo anniversario dall’uscita della console Atari 2600, ripercorriamo insieme la storia di uno degli avvenimenti più controversi e discussi della storia dei videogiochi.

spazzatura retrogame

Avvenuta nel 1983, la sepoltura dei videogiochi Atari è una delle storie più affascinanti dell’ambiente video ludico e affonda le sue radici nella profonda crisi che colpì il colosso statunitense nel 1982.

Atari ha avuto il suo grande e scoppiettante periodo di crescita tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli 80, arrivando ad aggiudicarsi oltre l’80% del mercato dei videogiochi di allora, con un fatturato che superava abbondantemente i 2 miliardi di dollari. Nonostante gli ottimi presupposti con cui era partita, Atari iniziò un lento e inesorabile crollo, sia a causa delle mosse sbagliate dell’allora amministratore delegato Ray Kassar, sia a causa dei fallimenti registrati nella produzione dei videogiochi.

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Atari, infatti, era famosa per aver portato nelle case dei gamer quei titoli che normalmente potevano essere goduti solo nelle sale giochi come Space Invaders e Asteroids, perciò decise di puntare tutto sulla conversione del popolare gioco Pac-Man per Atari 2600, arrivando a produrne una quantità esorbitante di cartucce, circa 12 milioni, quando in tutto il mondo erano state vendute “solo” 10 milioni di console. Mossa azzardata? Molto probabilmente sì: in casa Atari ci si basava sulla convinzione che i videogiocatori avrebbero fatto carte false pur di poter giocare contro i fantasmini direttamente dal divano di casa propria e che avrebbero acquistato la console anche solo per aggiudicarsi questo privilegio.

Ma le cose non andarono come sperato

La versione per Atari 2600 non venne accolta in modo positivo dal pubblico, che lo giudicò poco giocabile, macchinoso, insomma molto meno fluido rispetto all’originale che teneva i ragazzini incollati ai cabinati di bar e sale giochi. Nonostante tutte queste critiche, Atari vendette una buona quantità di cartucce, circa 7 milioni, ma se ne trovò quasi altrettante, 5 milioni, sul cosiddetto groppone.

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Ma il vero e proprio fallimento doveva ancora arrivare. Nel 1982, infatti, Atari concentrò tutti i propri sforzi nella produzione dell’adattamento a videogioco del film E.T l’extra-terrestre, affidando il compito a Howard Scott Warshaw, già creatore de I predatori dell’arca perduta. Di nuovo si cercò di cavalcare l’onda del successo e si decise di produrre 5 milioni di cartucce, sfruttando il periodo natalizio come banco di prova. Gli sforzi non vennero premiati, perché E.T. non solo vendette poco più di 1,5 milioni di copie, ma fu massacrato dalle critiche per un sistema di gioco senza fantasia, ripetitivo e decisamente poco appetibile, arrivando ad essere considerato come peggior gioco mai prodotto (a tal proposito, se non ci avete mai giocato o non lo avete mai visto, googlatelo e potrete farvi un’idea). Buona parte della colpa fu proprio di Atari che pretese la creazione e la programmazione del gioco in poco più di un mese: Warshaw riuscì a completare il lavoro, ma i tempi così stretti pregiudicarono quello che altrimenti sarebbe stato un buon prodotto.

La fretta, si sa, è cattiva consigliera.

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Tutti questi insuccessi spinsero il grande pubblico ad allontanarsi sempre più da quella che era stata una delle console più amate ed apprezzate, le vendite colarono a picco e Atari si ritrovò con milioni di cartucce e prodotti invenduti.

È a questo punto della storia che si inserisce la sepoltura dei videogiochi, per anni vista come leggenda metropolitana ma definitivamente accreditata nel 2014.

Facciamo ancora un passo indietro, torniamo di nuovo al 1983, anno in cui Atari scaricò una quantità di materiale indefinita nella discarica di Almogordo, nel Nuovo Messico.


Perché proprio nel Nuovo Messico se i magazzini di Atari si trovavano El Paso, in Texas?


Semplice: Atari voleva che la questione passasse in sordina, non voleva certo far sapere al mondo che era stata costretta a buttare via milioni di copie invendute e la discarica di Almogordo, con il suo divieto di scavo e con il suo sistema di smaltimento notturno dei rifiuti, si presentava come la perfetta soluzione. Ma tutto quel movimento fu comunque notato dalla cittadinanza e dalla stampa locale e Atari fu costretta ben presto a trovare una giustificazione al via vai dei suoi rimorchi, ammettendo di aver smaltito le cartucce, ma solo perché difettose e quindi, di fatto, non vendibili. Nessuno credette a questa versione e anzi per anni si speculò sulla natura del materiale scaricato da Atari, ma si tendeva a concordare sull’idea che ad Almogordo fossero finite proprio quelle 10 milioni e più di cartucce invendute.

Dopo 30 anni di dubbi e smentite, il 26 aprile del 2014 il mistero è stato finalmente svelato. Grazie al documentario “Atari: Game Over” di Zak Penn, incentrato proprio sulla vicenda degli anni 80, è stato possibile procedere allo scavo della zona in cui era stata indicata la sepoltura del materiale e, dopo ore e ore, sono venute alla luce più di 700.000 cartucce, alcune delle quali vendute all’asta, altre ammirabili al VIGAMUS di Roma.

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La vicenda Atari ha comunque generato una grande quantità di teorie, speculazioni e ricerche estenuanti da parte degli appassionati.

Ci sono voluti 30 anni per giungere a un risultato definitivo e chissà quanto materiale ancora si trova sottoterra e quanto è ormai andato irrimediabilmente perduto.

Noemi Antonini

 

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