Speranza e sopravvivenza in terra straniera: la storia di Hamidi

REGGIO CALABRIA – Le coste calabresi in questi giorni d’agosto continuano ad essere teatro di approdi rocamboleschi da parte di imbarcazioni cariche di migranti e di speranze. I riflettori sono accesi sulle morti tragiche di chi non riesce ad arrivare a riva o di chi viene soccorso in condizioni sanitarie disperate. Occhi puntati e commenti contrapposti di solidarietà o di fastidio che durano il tempo di un caffé.

Su quelle stesse spiagge, forse solo poco più in là, in questi medesimi giorni d’estate si può assistere ad un altro fenomeno strettamente connesso all’immigrazione. Sono i venditori ambulanti che si destreggiano tra i bagnanti distesi al sole. Quelli che sono sbarcati magari qualche anno fa in simili precarie condizioni e che ora cercano di raccogliere qualcosa per vivere proprio in quei luoghi che li hanno strappati alla morte in mare. Vagano tra ombrelloni e teli, con il carico della loro mercanzia, come una risacca lenta e ritmata. Provengono da molti paesi, offrono prodotti diversi, ciascuno ha una propria storia e una famiglia da ricordare.

Come Hamidi, etiope, 28 anni, passo deciso, sguardo sincero, sorriso delicato. Si avvicina con garbo, rallenta passandoti accanto per darti il tempo di decidere se fermarlo o meno, se ti interessa qualcosa o meno. È in Italia già qualche anno e lo si intuisce dal modo chiaro e attento di parlare. Anche se – confessa – conosceva l’italiano già prima di arrivare nel nostro paese. Ha deciso di venire qui per studiare, approfondire i suoi studi d’informatica. “È un settore sempre in crescita che può garantire un lavoro onesto e dignitoso. Magari potrò anche tornare nel mio paese e contribuire a migliorare qualcosa lì. Abbiamo ancora tanta strada da fare”. Intanto deve darsi da fare con lavoretti stagionali e occasionali. “Con la crisi sono diminuiti i turisti e la voglia di spendere anche pochi spiccioli, ma per me è un modo onesto per mettere da parte qualcosa”. Vuole fare le cose per bene. Non nasconde una punta di soddisfazione mentre ammette di essere ora con i documenti a posto: “per iscrivermi all’università era necessario avere tutti i documenti in regola”. Ma all’inizio è stata dura.

Anche lui è uno dei tanti arrivati dopo un lungo viaggio della speranza lungo la rotta del sogno europeo: il deserto della Libia, la partenza furtiva dalla spiaggia, la pericolosa traversata del Mediterraneo su un motoscafo, la fame e la sete delle persone accalcate sul mezzo precario, il rischio di essere rintracciati, l’approdo rocambolesco, la permanenza nel centro d’accoglienza. Hamidi non trova le parole per raccontare quella disumana avventura. Non le conosce nella nostra lingua. E forse neanche nella sua. Perde per qualche attimo il suo sorriso pensando ai compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta. Un viaggio costellato di paure, di solitudine, di mancanza di diritti basilari, sempre in bilico tra la vita e la morte. “Si perde la consapevolezza di essere umano”, ci confida scoraggiato e incredulo.

Proviamo ad allontanare la tristezza dalla mente chiedendogli del suo paese e della sua famiglia. E l’espressione del suo viso si trasforma completamente. In Etiopia ha lasciato i genitori, tre sorelle ed un fratellino. Si scambiano notizie e foto più spesso che possono, ma Hamidi non vede l’ora di tornare, per riabbracciarli ma soprattutto per mostrare loro quello che è riuscito a fare in questo tempo lontano da casa. “Mi piacerebbe essere un esempio positivo per i miei fratelli e i loro amici”; uno che ce l’ha fatta costruendo la propria strada con perseveranza e onestà, senza scorciatoie.

La storia di Hamidi può essere quella di tanti altri, uomini e donne in cerca di futuro. Come la sua tante vite in fuga da conflitti e povertà manovrati da intrecci più grandi di loro. Situazioni che non capiscono e non posso cambiare. Se non con la speranza di recuperare altrove la propria dignità perduta.

 

 

Mariacristiana Guglielmelli

 

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