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Giovanni Nicotera, patriota e uomo politico criticato. Orgoglio calabrese ed italiano.

Nasce a Sambiase nel 1828. Aderì alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini; combatté a Napoli il 15 maggio 1848 e quindi insieme a Garibaldi durante la Repubblica Romana nel 1849. Dopo la caduta di Roma si rifugiò in Piemonte, dove organizzò la fallita spedizione di Sapri con Carlo Pisacane nel 1857. Nicotera, gravemente ferito e arrestato, fu portato in catene a Salerno, dove venne processato e condannato a morte. La pena fu tramutata in ergastolo solo per l’intervento del governo inglese che guardava con crescente preoccupazione la furia repressiva di Ferdinando II. Prigioniero a Favignana, fu liberato nel 1860 per l’intervento di Garibaldi. Inviato per conto di questi in Toscana, formò un corpo di volontari per tentare di invadere lo Stato Pontificio, tuttavia esso fu costretto al disarmo e allo scioglimento da Ricasoli e Cavour. Nel 1862 fu al fianco di Garibaldi sull’Aspromonte e quindi, nel 1866, comandò il VI reggimento volontari nella Terza guerra d’indipendenza contro l’Austria. L’anno seguente entrò in territorio pontificio da sud ma la sconfitta di Garibaldi a Mentana pose fine all’operazione. Fin dal 1860 aveva anche intrapreso una attività politica, pubblicando articoli su un giornale, Il popolo d’Italia, al quale collaborava anche Aurelio Saffi; per un decennio fu su posizioni di estrema opposizione; dal 1870 iniziò tuttavia ad appoggiare le riforme militari di Ricotti-Magnani. Con l’arrivo al governo della Sinistra storica, nel 1876, divenne ministro dell’Interno nel primo governo Depretis, incarico che esercitò con particolare fermezza. Fu costretto alle dimissioni nel dicembre 1877; formò quindi la pentarchia. Tornò al governo, sempre come ministro dell’Interno, nel 1891, con il primo governo di Rudinì. Durante questo incarico reintrodusse la circoscrizione uninominale, si oppose alle agitazioni socialiste e propose invano l’adozione di severe misure repressive contro le banconote false stampate dalla Banca Romana. La sua permanenza al governo terminò con la caduta di Rudinì, nel maggio 1892. Morì a Vico Equense il 13 giugno 1894. Fu seppellito a Napoli.

CURIOSITÀ

• Nella storia della politica italiana, pentarchia fu il nome dato all’opposizione moderata di sinistra durante il cosiddetto trasformismo sotto i governi di Agostino Depretis. È così chiamata perché fu guidata da cinque capi: Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli, Alfredo Baccarini, Benedetto Cairoli e Giovanni Nicotera.

• La circoscrizione uninominale è riferita al sistema elettorale che prevede la presenza di un solo candidato per partito in ogni collegio e l’elezione di un solo rappresentante.

• Fu aspramente criticato dai suoi vecchi colleghi della sinistra per i tratti autoritari e repressivi della sua politica.

• Giovanni Nicotera fu il nome di un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana, varato nel 1926 e ritirato nel 1940.

• A Sambiase gli venne innalzato un monumento in piazza Vittorio Emanuele. Sui quattro lati del piedistallo, è compendiata in magnifica sintesi tutta la vita del grande Italiano:

Calabria, Roma, Sapri,
Aspromonte, Tirolo, Mentana,
Il suo nome con orgoglio ricordano.
Di Carlo Pisacane compagno
All’eccidio provvidenzialmente
Scampò di Sanza
E continuò l’opera redentrice d’Italia.
Nelle battaglie patrie strenuo soldato
Del popolo amico e moderatore, ne propugnò
I diritti in tutte le Legislature.
Ministro dell’Interno, ridonò al Paese
Tranquillità e sicurezza
Alla Dinastia Sabauda
Più vivo l’affetto del popolo
Per provvide leggi.
In tanta gloria gl’invidi dispregiò
Con alterezza Calabra.

 

Alcmeone, filosofo e medico del VI secolo a.C. Colui che pose il cervello al di sopra di tutto.

Conosciuto come Alcmeone di Crotone, nacque nella suddetta città nel 560 a.C. In greco Ἀλκμαίων,è stato un medico e filosofo greco antico ed è considerato il padre fondatore della medicina antica dando origine al metodo della ricerca scientifica basato sull’analisi reale delle cose, operata con la selezione dei corpi umani, fondamentale per il suo studio sull’anatomia. Scoprì che il cervello è il centro motore delle attività umane, mentre fino ad allora si era creduto che l’organo fondamentale fosse il fegato o il cuore. Studiò attentamente i nervi e il sistema nervoso, intendendone le funzioni motorie, fu lui che probabilmente scoprì le trombe di Eustachio e il nervo ottico. Aveva una concezione democratica del sapere e non classista come Pitagora. Studiò attentamente il corpo umano e lo interpretò in analogia con il funzionamento della politica : per lui, infatti, malattia e salute corrispondevano a due situazioni politiche. La salute corrispondeva alla democrazia, la malattia alla monarchia. Come nel corpo si ha salute quando c’è equilibrio tra gli organi, così nella politica c’è democrazia quando tutte le parti sono in equilibrio. E dati recenti studi americani che affermano che la predisposizione politica derivi dal cervello, comprendiamo come Alcmeone avesse visto, già allora, molto lontano.

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Adele Cambria, figura centrale nella cultura pre e post ‘68. Femminista e icona del nostro tempo.

Nata a Reggio Calabria, 1931, è una giornalista, scrittrice e attrice italiana. Figura centrale nella cultura italiana pre e post-Sessantotto con Camilla Cederna ed Oriana Fallaci, vicina alla sinistra progressista e al Partito radicale di Marco Pannella è stata fin dagli albori una sostenitrice del movimento femminista. Ha collaborato e collabora a giornali e riviste ed ha pubblicato diversi libri. Si è laureata in giurisprudenza all’Università di Messina, avvicinandosi al giornalismo nel 1956 dopo essersi trasferita a Roma, dove risiede tuttora. Come giornalista ha esordito nel 1956 scrivendo sul quotidiano Il Giorno, quando era stato appena fondato da Gaetano Baldacci, ed ha collaborato a Il Mondo di Mario Pannunzio. Con Il Giorno è poi tornata a scrivere nuovamente fra il 1985 ed il 1997. Ulteriori collaborazioni giornalistiche dal 1963 con la RAI, realizzando fra il 2000 e il 2003 per Rai Sat trentanove trasmissioni sull’immagine televisiva della donna; è stata poi autrice di Trittico meridionale, tre trasmissioni sul meridione d’Italia dedicate rispettivamente a Ernesto De Martino La terra del rimorso, Maria Occhipinti La rivolta dei non-si-parte, Reggio Calabria Dalla rivolta al professore. Per Rai Sat album ha poi firmato nel 2003 il numero zero di una serie televisiva dedicata alla storia del gossip. È autrice anche di testi teatrali.

OPERE LETTERARIE

* Maria Josè (Longanesi, biografia e diari inediti dell’ultima regina d’Italia, 1966)

* Dopo Didone (Cooperativa Prove 10, romanzo, 1974)

* Amore come rivoluzione – La risposta alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci (Sugarco, contenente le lettere delle tre sorelle Schucht, la minore della quali, Giulia, fu moglie di Gramsci, 1976)

* In principio era Marx (Sugarco, 1978)

* Il Lenin delle donne (Mastrogiacomo, 1981)

* L’Italia segreta delle donne (Newton Compton, 1984)

* Nudo di donna con rovine (Pellicanolibri, romanzo, 1984)

* L’amore è cieco (Stampa Alternativa, racconti, 1995)

* Tu volevi un figlio carabiniere (Stampa Alternativa, scritto con il figlio Luciano Valli, 1997)

* Isabella. La triste storia di Isabella Morra (Osanna Venosa, 1997)

* Storia d’amore e schiavitù (Marsilio, 2000,)

* Nove dimissioni e mezzo (Donzelli editore, 2010)

TEATRO

* Nonostante Gramsci, rappresentato in prima nazionale al Teatro della Maddalena il 25 maggio 1975.

* In principio era Marx – La moglie e la fedele governante, prima italiana al Teatro Bellini di Napoli, 1980, Premio Fondi La Pastora 1979.

* La regina dei cartoni, 1985-2001, rappresentato all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles dal Collettivo teatrale “Isabella Morra”.

FILMOGRAFIA

* Comizi d’amore, di Pier Paolo Pasolini (1965)

* Accattone, di Pier Paolo Pasolini (1961)

* Teorema, di Pier Paolo Pasolini (1968)

* Teresa la ladra, di Carlo Di Palma (1973)

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Suor Elena Aiello, «‘a monaca santa», serva di Dio e del popolo.

Elena Aiello nasce a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, il 10 aprile 1895 da Pasquale Aiello, sarto rinomato, uomo probo e retto, e Teresa Paglilla, casalinga, moglie e madre esemplare. Elena cresce terza di dieci figli in una famiglia profondamente religiosa. Sin dall’infanzia mostra particolare trasporto per la preghiera e manifesta subito una viva intelligenza. A sei anni, nel 1901, viene mandata dalle Suore del Preziosissimo Sangue per frequentare le scuole elementari. All’età di otto anni, vedendo la sua preparazione nella conoscenza del catechismo,le suore dell’istituto la portano con loro affidandole il compito di insegnare ai più piccoli la dottrina cristiana. Nel 1905 perde precocemente la madre. Durante la Prima Guerra Mondiale intensi sono gli sforzi di Elena nell’aiutare i sofferenti: passa le sue giornate assistendo le vittime dell’epidemia di Spagnola. Il 18 agosto 1920 fa il suo ingresso nell’Istituto delle Suore del Preziosissimo Sangue ma, a causa di precarie condizioni fisiche, la durata della sua permanenza in tale Istituto è brevissima: non pochi anni dopo, infatti, all’Ospedale Civile di Cosenza, le viene diagnosticato un cancro allo stomaco. Da tale male Elena guarisce completamente rivolgendo una fervida preghiera a Santa Rita, il 21 ottobre del 1921. Il 2 marzo 1923 si manifestano per la prima volta le stigmate: nel pomeriggio di quel giorno, le appare il Signore vestito di bianco con la corona di spine che la invita a partecipare alle sue sofferenze. Elena acconsente e il Signore si toglie la corona di spine e la pone sul capo di lei. Tale contatto le procura un’abbondante effusione di sangue e dopo tre ore di alterno sanguinamento il fenomeno scompare. Il secondo venerdì di marzo, esattamente alla stessa ora, si ripresenta lo stesso fenomeno mentre nell’ultimo venerdì di marzo Elena soffre le piaghe della Crocifissione. Per tutti questi fenomeni Elena è conosciuta dal popolo come «’a monaca santa». Nel 1928, all’età di 33 anni, fonda l’ordine delle Suore Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Il 3 ottobre 1949, all’età di 54 anni, riceve i voti da Monsignor Aniello Calcara, Arcivescovo di Cosenza. Nell’istituto da lei fondato, suor Elena si occupa dell’educazione dei figli del popolo e dedicando la sua vita all’accoglienza, in particolare dei bambini abbandonati a causa di guerre e qualsiasi altra circostanza. La fama di santità della «monaca santa» è tale da interessare vivamente e attivamente anche Benito Mussolini e famiglia. Suor Elena Aiello muore il 19 giugno del 1961 nell’ospedale San Giovanni in Roma.

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Leonida Repaci, poeta, pittore e letterato calabrese dall’animo ribelle e bellicoso. Ideatore di premi e vincitore di onorificenze.

Nato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, il 5 aprile 1898, ultimo di dieci figli e presto orfano del padre, Leonida Repaci trascorse un’umile infanzia nella sua città fino al catastrofico sisma del 28 dicembre 1908 che devastò Messina, Reggio e le zone limitrofe. Il sisma distrusse anche l’abitazione della sua famiglia e Leonida fu allora mandato a Torino dal fratello Francesco, avvocato. Nel capoluogo piemontese il giovane Leonida poté proseguire per quattro anni gli studi interrotti ed iscriversi all’Università in giurisprudenza. Scoppiato il primo conflitto mondiale partì per il fronte divenendo ufficiale degli alpini. Per il coraggio e l’ardimento dimostrati sul Monte Grappa si conquistò una medaglia d’argento al valore militare. Entrato nei reparti d’assalto lanciafiamme a Malga Pez venne ferito. Nel dicembre 1918 con l’influenza “spagnola” perdette una giovane sorella e due fratelli, il primo capitano d’aviazione pluridecorato e il secondo importante esponente politico. Tornato a Palmi con la divisa di capitano, nel 1919 ripartì per Torino dove conseguì la laurea in Legge e l’anno seguente l’abilitazione alla professione che esercitò per un biennio. L’amore per la narrativa e la poesia lo portarono ancora ventenne a scrivere, trascurando così le discipline giuridiche. Repaci s’interessò contemporaneamente di politica e si iscrisse a Torino nel partito socialista partecipando al “Movimento Operaio” e collaborando ad “Ordine Nuovo” con Gramsci che in persona lo volle collaboratore e giornalista. Dopo la marcia su Roma si trasferisce a Milano e si schiera apertamente contro il regime fascista: nel 1924 è nella prima redazione de “L’Unità” dove tradusse il romanzo fantapolitico “Il tallone di ferro” di Jack London. Nell’agosto del 1925 Repaci viene arrestato a Palmi, durante la festa religiosa della Varia, insieme ad un gruppo di socialisti come presunto assassino di un personaggio fascista. Il processo servì al regime per scardinare la roccaforte rossa e abbattere uno degli scogli socialisti più forti in Calabria. Inaspettatamente Repaci venne assolto ma l’accaduto avvelenerà per sempre di diffidenze e sospetti i rapporti con i suoi concittadini essendo diffusa la voce riguardante influenze del partito fascista sulla sua assoluzione. I testimoni falsi di quel processo alla fine o confessarono o si suicidarono e Leonida venne assolto dopo sei mesi di carcere. In quello stesso anno, dopo aver portato in teatro il racconto “La madre incatenata”, inizia la prima parte de “La storia dei Rupe” che nel 1933 gli farà vincere il Premio Bagutta e, tra varie versioni, lo accompagnerà fino agli anni settanta. Nel 1927 perdette la madre. Nel 1929 inventa insieme a Carlo Salsa e Alberto Colantuoni il Premio Vareggio, di cui sarà presidente fino agli ultimi anni della sua vita. In tale circostanza conobbe e sposò pure Albertina Antonelli alla quale rimase fedele fino alla morte di lei avvenuta nel 1984. Il dopoguerra è per Repaci un periodo di infaticabile lavoro: collaborò alla “Gazzetta del popolo” e a “La Stampa”. Dopo il secondo conflitto mondiale divenne partigiano a Roma dove fondò con Renato Angiolillo “Il Tempo” dirigendolo per nove mesi prima di passare alla direzione del quotidiano “L’Epoca”, durato soltanto 14 mesi, inventa il Premio Fila delle Tre Arti e il Premio Sila e porta avanti con grande successo il Viareggio ancora oggi uno dei premi letterari più ambiti d’Italia. Organizzò infine con Mario Socrate e Franco Antonicelli il memorabile convegno Cultura e Resistenza, a Venezia. Nel 1948, dietro insistenza degli amici, Repaci decise di candidarsi senza venire eletto al Collegio Senatoriale di Palmi nella lista del Fronte Democratico Popolare. Nel 1950 fu membro del Consiglio mondiale della Pace. Nel 1956 vince il Premio Crotone con “Un riccone torna alla terra” e due anni dopo il Premio Villa San Giovanni con “La Storia dei fratelli Rupe”. A poco a poco si allontana dall’attività giornalistica per dedicarsi alla stesura definitiva della trilogia “Storia dei Rupe”, e il secondo volume, “Tra guerra e rivoluzione”, vince nel 1970 il Premio Sila. In quel periodo la sua naturale irrequietezza lo porta a darsi alla pittura con discreto successo sia di critica sia di pubblico, allestendo personali a Milano e a Roma. La morte lo coglie a Pietrasanta, Lucca, il 19 luglio 1985.

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Francesco Cilea, compositore e talento musicale precoce.

Nacque a Palmi (Reggio Calabria) il 23 luglio 1866 da Giuseppe, apprezzato civilista e dilettante di musica, e da Felicita Grillo. A soli sette anni fu inviato a Napoli per compiervi la sua educazione ed entrò in un convitto privato dove avrebbe dovuto essere poi avviato agli studi di diritto. Fu tuttavia attratto dalla musica e non tardò a rivelare una innata musicalità oltre che straordinarie doti di improvvisazione tanto che, dopo essere stato presentato per un giudizio a Francesco Florimo, allora bibliotecario del conservatorio di S. Pietro a Maiella, fu da questo esortato a dedicarsi interamente alla musica. Superata l’iniziale opposizione dei genitori che avrebbero preferito tenerlo lontano da una carriera giudicata troppo lontana dalle tradizioni della famiglia, nel novembre 1878 entrò come convittore a pagamento nel conservatorio napoletano avendo quali maestri Beniamino Cesi e Paolo Serrao. Condiscepolo di Umberto Giordano, si distinse immediatamente tra gli allievi più dotati e diligenti e nel termine di pochi anni, grazie ai progressi compiuti, si guadagnò la stima degli insegnanti tanto da essere nominato “maestrino” della classe di contrappunto, incarico che gli consentì di mettere in luce quelle qualità organizzative e didattiche che lo avrebbero in seguito condotto alla direzione del conservatorio napoletano. Diplomatosi nel 1889, presentando per il saggio finale un’opera in tre atti su libretto di E. Golisciani dal titolo Gina, diede chiara prova del suo talento drammatico rivelando certi tratti stilistici ricorrenti nella parabola evolutiva della sua produzione teatrale. Il lavoro, da lui stesso diretto e concertato il 9 febbraio 1889 nel teatrino del conservatorio, fu accolto favorevolmente dal pubblico e riportò un lusinghiero successo da parte della critica rappresentata per l’occasione da Roberto Bracco che in un suo articolo sul Corriere di Napoli del 13-14 febbraio preconizzò per il giovane compositore un brillante avvenire. Conseguito il diploma nel conservatorio in cui, attraverso un decennale e severo tirocinio, aveva maturato la sua personalità musicale, vi fu immediatamente chiamato con l’incarico di professore straordinario. L’impegno assunto presso la gloriosa istituzione, ove rimase fino al 1892, non gli impedì di dedicarsi alla composizione e di dare libero sfogo alla sua vocazione teatrale. Volle cimentarsi in una nuova opera e l’occasione si offrì allorché, presentato all’editore Edoardo Sonzogno da Paolo Serrao, gli venne affidato un libretto da musicare, La Tilda, di Angelo Zanardini. La vicenda, ricca di situazioni drammatiche di ambientazione tipicamente verista poco si adattava alle aspirazioni romantico-decadenti del giovane compositore che tuttavia, preparandosi al lavoro e stimolato anche dalla fiducia in lui riposta dal celebre editore, lo portò a termine in breve tempo. L’opera, diretta da Rodolfo Ferrari, andò in scena il 7 aprile 1892 al teatro Pagliano di Firenze e in altre città fra le quali Palmi e al Teatro dell’Esposizione di Vienna riportando un ottimo successo di pubblico e critica. Tuttavia, nonostante il successo di pubblico e i riconoscimenti della critica, un profondo senso di auto critica e la consapevolezza di aver affrontato un genere di teatro musicale troppo lontano dalla propria sensibilità, indussero Cilea a ritirare lo spartito contro il parere dello stesso editore che tuttavia continuò a sostenerlo e a credere nelle sue possibilità creative. Lasciato l’insegnamento nel conservatorio napoletano per dedicarsi completamente alla composizione trovò nell’Arlesiana di A. Daudet il soggetto che andava cercando. Affidata la stesura in versi a Leopoldo Aiwenco si accinse alla composizione dell’opera che, iniziata nel 1896 e portata a termine nel 1897, fu rappresentata al Lirico di Milano il 27 novembre dello stesso anno. Accolta con esito lusinghiero l’opera subì poi vari rimaneggiamenti  e Cilea fu costretto suo malgrado ad impegnarsi in una nuova stesura dell’opera che, rinnovata in tre atti, fu rappresentata con miglior fortuna, ma senza il previsto successo, ancora al Lirico di Milano il 22 ottobre 1898. In una nuova versione con varie aggiunte l’opera fu poi ripresentata con esito favorevole il 28 marzo 1912 al teatro S. Carlo di Napoli e approdò infine alla Scala di Milano ove l’11 aprile 1936 riportò un vero trionfo grazie anche alla partecipazione di interpreti di altissimo livello come M. Carosio, G. Pederzini, T. Schipa e M. Basiola. Frattanto nel 1896, quale vincitore della cattedra di armonia nell’istituto musicale di Firenze, Cilea aveva ripreso l’insegnamento senza tuttavia trascurare la composizione cui, dopo le amarezze seguite alle disavventure dell’Arlesiana, destinata ad essere per molto tempo incompresa, tornò a dedicarsi con rinnovato entusiasmo. L’occasione gli fu ancora una volta offerta dal Sonzogno che gli propose di musicare l’Adriana Lecouvreur un’opera in quattro atti su libretto di Arturo Colautti ambientata nel Settecento francese e basata su una pièce di Eugène Scribe. L’opera, diretta da C. Campanini, fu rappresentata con grande successo al Lirico di Milano il 6 novembre 1902 con una eccezionale compagnia di canto formata da E. Caruso, A. Pandolfini, G. De Luca, E. Ghibaudo, iniziando da quel momento il suo trionfale cammino nei maggiori teatri del mondo e rivelandosi indiscutibilmente come il suo lavoro teatrale più riuscito dopo una prima clamorosa affermazione internazionale sulle scene del teatro dell’Opera di Buenos Aires. L’opera tra il 1903 e il 1906 apparve tra l’altro al Covent Garden di Londra, al teatro Imperiale di Odessa, al teatro dell’Opera dì San Francisco, al teatro Sarah Bernhardt di Parigi, a Pietroburgo e poi nel 1935, in una edizione in lingua francese, fu presentata al Grand Théâtre di Bordeaux. L’ultima opera di Cilea, rappresentata al Teatro alla Scala di Milano la sera del 15 aprile 1907 sotto la direzione di Arturo Toscanini, è la tragedia in tre atti Gloria, ancora su libretto di Colautti, basata su una pièce di Victorien Sardou. Quest’opera mostra il notevole aggiornamento compositivo di Cilea rispetto ai suoi contemporanei ma fu proprio questo lato di per sé interessante e notevole a rendere l’opera difficile per il pubblico. Nonostante il suo grande valore e una buona serie di successi nel complesso il risultato totale poté definirsi un insuccesso. L’insuccesso di quest’opera fu tale da spingerlo ad abbandonare definitivamente il teatro d’opera. Il compositore calabrese continuò invece a comporre musica da camera, vocale e strumentale e musica sinfonica. Al 1913 risale un poema sinfonico in onore di Giuseppe Verdi su versi di Sem Benelli, eseguito al Teatro Carlo Felice di Genova. Cilea morì il 20 novembre 1950 a Varazze, comune ligure che gli offrì cittadinanza onoraria e nella quale trascorse gli ultimi anni della sua vita.

 

CURIOSITÀ

• Dopo l’insucesso della tragedia Gloria e il successivo ritiro dalle scene teatrali, non mancano però notizie di alcuni progetti operistici successivi di cui sopravvivono parti o abbozzi di libretto come Il ritorno dell’amore di Renato Simoni, Malena di Ettore Moschino e La Rosa di Pompei ancora di Moschino (datato Napoli, 20 maggio 1924). Alcune fonti accennano anche ad un’opera del 1909, completata e mai rappresentata, intitolata Il Matrimonio Selvaggio della quale non esiste tuttavia alcun riscontro e di cui lo stesso Cilea non fa cenno nei suoi quaderni di “Ricordi”.

• Alla memoria di Francesco Cilea sono stati intitolati il conservatorio ed il teatro di Reggio Calabria, mentre il suo paese natale, Palmi, gli ha eretto un Mausoleo oltre ad una via del centro storico cittadino.

 

Umberto Boccioni, principale teorico ed esponente del movimento e dell’arte futurista in Italia.

Umberto Boccioni (1882-1916) è stato il maggior esponente del futurismo italiano. Nasce a Reggio Calabria il 19 ottobre 1882, ma trascorre infanzia ed adolescenza in varie città perché  il padre, impiegato statale, è costretto a frequenti spostamenti. La famiglia, originaria di Forlì, si trasferisce a Genova, poi a Padova nel 1888 ed in seguito a Catania nel 1897, dove Umberto consegue il Diploma in un Istituto Tecnico. Nel 1899 Umberto Boccioni si trasferisce a Roma presso una zia, dove iniziò il suo apprendistato artistico prendendo lezioni di disegno e frequentando la Scuola libera del nudo. In questo periodo il giovane pittore, dallo stile molto realista, conosce l’altrettanto giovane Gino Severini e con lui frequenta lo studio di Giacomo Balla, che in quegli anni a Roma è maestro molto famoso, per approfondire la ricerca sulle tecniche divisioniste. Dal 1903 al 1906 Umberto Boccioni partecipa alle esposizioni annuali della Società Amatori e Cultori, ma nel 1905 in polemica con il conservatorismo delle giurie ufficiali, organizza con Severini, nel foyer del Teatro Costanzi, la “Mostra dei rifiutati”. Per sfuggire l’atmosfera provinciale italiana, nella primavera del 1906 Boccioni si reca a Parigi, dove rimane affascinato dalla modernità della metropoli. Da Parigi, dopo alcuni mesi, fa un viaggio in Russia, prima di tornare in Italia e stabilirsi a Padova per iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia dove si laurea. Tuttavia l’Italia del primo Novecento, però, ha una vita artistica ancora ancorata alle vecchie tradizioni. Solo Milano è diventata una città dinamica, ed è qui che Boccioni si stabilisce al ritorno dal suo ultimo viaggio in Europa per sperimentare, sotto l’influenza del divisionismo e del simbolismo, varie tecniche. In questa fase prefuturista la pittura di Boccioni si modella soprattutto sulla lezione di Balla: la pittura dal vero e la tecnica divisionista. I soggetti dei quadri di questo periodo, soprattutto nella scelta di periferie urbane in costruzione, anticipano i successivi sviluppi del futurismo. A Milano Boccioni ha anche modo di conoscere la pittura simbolista di Previati e della Secessione viennese e la pittura espressionista tedesca dello “Sturm und Drang”. L’incontro con queste tendenze lo porterà ad attenuare i suoi interessi per il naturalismo e a ricercare una pittura più intensa sul piano psicologico ed espressivo. Nacquero così alcune sue celebri tele, quali il famoso trittico degli «Stati d’animo». Il suo interesse per la psicologia, tuttavia, non ebbe mai i toni decadenti e raffinati della pittura simbolista, ma si concentrò sui temi della interiorità dell’uomo moderno, coniugando a ciò le suggestioni più intense del futurismo. Nel gennaio del 1910 conobbe Marinetti, e l’incontro risultò decisivo per i successivi sviluppi della sua pittura. La sua adesione alle idee futuriste di Marinetti fu immediata e dopo pochi mesi firmò il primo manifesto della pittura futurista. La svolta stilistica avviene con la redazione del quadro «La città che sale» realizzato sempre nel 1910. L’anno successivo fu il principale ispiratore del Manifesto tecnico della pittura futurista. In esso si definisce più chiaramente il parametro fondamentale del futurismo in pittura: la «sensazione dinamica». La scomposizione della luce e del colore si unisce alla scomposizione dei volumi e dello spazio, portando il futurismo ad esiti molto vicini al cubismo. In breve diviene il maggior artista italiano del periodo. Partecipa a numerose manifestazioni in Italia e all’estero. La sua attività si svolge anche sul piano teorico e nel 1914 pubblica due testi fondamentali per comprendere la sua visione artistica: «Pittura Scultura Futuriste» e «Dinamismo plastico». Dal 1911 si dedica alla scultura, nella quale giunge in breve tempo a risultati eccezionali. Nel 1912 redige il Manifesto tecnico della scultura futurista, ma, più che l’attività teorica, appaiono subito straordinari gli esiti a cui giunge con la sua opera. Con la scultura «Forme uniche nella continuità dello spazio» (1913), Boccioni realizza una delle sculture più famose in assoluto di questo secolo. Indaga la deformazione plastica di un corpo umano in movimento, giungendo ad una forma aerodinamica dove il corpo, stilizzato al limite della riconoscibilità, riesce tuttavia a trasmettere una grande sensazione di forza e di potenza. La statua diviene il simbolo stesso dell’uomo futuro, così come lo immaginavano i futuristi: novello Icaro, metà uomo e metà macchina, lanciato in corsa a percorrere il mondo con forza e velocità. Allo scoppio della prima guerra mondiale viene richiamato alle armi. Il 17 agosto del 1916, all’età di soli trentaquattro anni, muore per un banale incidente mentre era nelle retrovie dei campi di battaglia. La sua precoce morte ha privato l’arte moderna di uno degli esponenti più geniali del panorama europeo di quegli anni. La sua attività di pittore si è svolta per un arco di circa dieci anni. In questo periodo Boccioni riesce ad attraversare, e far proprie, le maggiori novità artistiche del periodo, dal divisionismo al futurismo, dall’espressionismo al cubismo. E lo fa con ispirazione tale da consentirgli di produrre opere di sempre elevata qualità. Passa attraverso i territori della psicologia (notevoli sono i suoi quadri intitolati Stati d’animo), pur senza essere un decadente, così come apprende dall’espressionismo la capacità di comunicare, pur senza giungere alle esasperazioni deformistiche di quella corrente.

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Corrado Alvaro, il profondo osservatore di fatti e costumi.

Nasce il 15 aprile 1895 a San Luca (Reggio Calabria), un piccolo paese sul versante ionico dell’Aspromonte. Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfabeti; la madre proviene da una famiglia di piccoli proprietari. A San Luca trascorre un’infanzia felice, fortemente influenzato dal padre da cui riceve la prima istruzione e gli fa conoscere profondamente la natura, gli uomini e la tradizione della sua terra. Terminate le scuole elementari è mandato a proseguire gli studi nel prestigioso collegio di Mondragone, a Frascati. Tuttavia, nella sua memoria di scrittore, il paese natale, l’ambiente umano e sociale della sua regione, con i miti e le tradizioni di una gente ancora legata a strutture economiche quasi primitive, non si cancellarono; si fissarono anzi come un elemento fondamentale d’ispirazione e formarono il più ricco sedimento di valori poetici e morali nella coscienza di scrittore dell’Alvaro.Durante gli studi superiori si dedica con grande passione alla letteratura, approfondendo soprattutto le opere degli scrittori allora più noti e ammirati quali Carducci , Pascoli e D’Annunzio e compone lui stesso molti racconti e poesie. Nel 1914 pubblica le sue prime poesie su “Il nuovo birichino calabrese”. Nel gennaio del 1915 è chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Viene ferito alle braccia nella zona di San Michele del Carso e sarà anche decorato con la medaglia d’argento. Nel primo dopoguerra collabora al “Resto del Carlino” di Bologna, pubblicandovi i primi racconti, e successivamente è assunto al “Corriere della Sera” a Milano. Nel 1922 è chiamato come redattore al “Mondo” di Giovanni Amendola. Dopo il delitto Matteotti è tra i cinquanta firmatari dell’Unione nazionale delle forze democratiche guidata da Amendola. A partire dall’estate del ’24 sulla rivista umoristica “Il becco giallo”, che non risparmia critiche al regime, si occupa con lo pseudonimo V.E. Leno della rubrica “Sfottò”. Su “La Stampa” del 14 gennaio 1927 pubblica le pagine iniziali di “Gente in Aspromonte”. E’ oggetto di attacchi da parte dei giornalisti fascisti, ma declina l’invito fattogli da amici francesi ad andare a Parigi. Alla fine del ’28 parte per Berlino e segue attentamente la vita culturale tedesca. Rientrato definitivamente a Roma continua a collaborare con “la Stampa” e pubblica le raccolte di racconti “Gente in Aspromonte”, “La signora dell’isola” e il romanzo “Vent’anni”. Fino alla caduta del fascismo, Alvaro si mantiene comunque lontano dagli ambienti del potere e riesce a continuare con una relativa tranquillità la sua opera narrativa e saggistica. Nel gennaio del ’41 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più volte a Caraffa del Bianco (Reggio Calabria) a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Nel secondo dopoguerra esce “L’età breve”, primo romanzo del ciclo “Memorie del mondo sommerso”.

Vive e lavora tra Roma, nell’appartamento di Piazza di Spagna, e Vallerano, in provincia di Viterbo, dove ha una grande casa in mezzo alla campagna. Muore prematuramente a Roma il mattino dell’11 giugno 1956, lasciando alcuni romanzi incompiuti e altri inediti vari.

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Cassiodoro, la prima università del sapere cristiano e profano d’Occidente.

Cassiodoro nasce a Squillace, tra il 485 e il 490. Egli apparteneva ad una potente e illustre famiglia di funzionari di origine siriana che vantava parentela con i Simmachi e con la famiglia degli Anicii. Il nome proprio che lo distinse dai suoi antenati e famigliari illustri era quello di Senatore. Cassiodoro fu avviato giovanissimo dal padre alla carriera politica. Percorse rapidamente, sotto Teodorico e i suoi successori, il cursus honorum, conseguendo in veloce successione, dal 507 al 514, le cariche di questore, corrector Lucaniae et Bruttiorum, come suo padre e di magister officiorum. Allontanato per un breve periodo dalla corte di Teodorico, fu richiamato nel 533 come prefectus praetorio Italiae, carica che tenne fino al 536. Quattro re dei Goti nel 526 – Teodorico, Atalarico, Teodato e Vitige e la reggente Amalasunta – lo ebbero come proprio ministro. Nell’ideologia e nella prassi politica era intuizione e progetto sapiente e lungimirante di Cassiodoro l’integrazione e la fusione fra l’elemento goto e quello romano cementato dalla civiltà cristiana, anticipando con ciò di quindici secoli il cammino di unificazione delle cultura e dei popoli europei. Caduto il regno dei Goti, Cassiodoro, immerso in una radicale conversione, attraverso un itinerario eccezionale e ammirevole santità, si dedico interamente all’attività intellettuale e religiosa nel tentativo di attuare un grandioso programma di educazione culturale e formativa. Fallito un primo tentativo di fondare a Roma, nel 536, con l’aiuto di Papa Agapito, un’università del sapere cristiano e profano sul modello di quelle fiorite in Oriente ad Alessandria e a Neocesarea-Nisibi, Cassiodoro riuscì nel suo intento nella natia Squillace, dove fondò tra il 554-560, a lato del fiume Pellene (attuale Alessi), il monastero di Vivarium, ove trasportò la sua ricchissima biblioteca e che si può a ragione considerare il primo esempio di università cristiana d’Occidente. Nel Vivarium, Cassiodoro realizzava in maniera altamente originale una fusione tra l’ideale contemplativo classico e quello cristiano dell’operosa preghiera per i fratelli. Lo studio imposto ai monaci, insieme alla trascrizione degli antichi codici, dava un originale ed autonomo indirizzo alla Regola Benedettina privilegiando in senso intellettuale l’obbligo del lavoro prescritto da S. Benedetto secondo uno schema che ha i suoi prodromi nella Regula Magistri, da molti attribuita allo stesso Cassiodoro. Nella piena maturità egli affidò il meglio di sé alle Istitutiones divinarum et saecularum, sorta di enciclopedia propedeutica allo studio delle lettere sacre e profane. Purtroppo, l’istituzione non sopravvisse a lungo al suo fondatore e già nel sec. VII la sua celebre biblioteca del Vivarium, vero prototipo dei centri culturali monastici dei Medioevo dove i monaci erano l’espressione più alta della lotta per l’ordine sociale e la difesa della civiltà del tempo, che aveva raccolto pressoché tutto quello che in quel tempo esisteva della cultura sacra e profana, andò smembrata e dispersa. Nonostante, Cassiodoro può essere considerato come il grande erudito che riassume in sé la cultura teologica, storica e grammaticale, soprattutto nel passaggio dalla cultura classica alla civiltà medievale. Merito di Cassiodoro è quello di avere promosso la conservazione dei manoscritti nei monasteri, contribuendo a tramandare un grosso patrimonio culturale, destinato a rivivere nell’età umanistica. Morì intorno al 580 e il 583 a.C.

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Gioacchino da Fiore, il profeta di Dio.

La più grande personalità del Medioevo che troviamo nella cittadina di San Giovanni in Fiore è senza ombra di dubbio l’abate Gioacchino da fiore. Egli nacque a Celico dal notaio Mauro e da sua moglie Gemma intorno al 1135 c.a. La sua formazione fu prettamente latina ed egli non ebbe nulla a che fare con i monaci greci, che al suo tempo avevano una posizione predominante nella Calabria meridionale, ma del tutto trascurabile in Val di Crati e nella Cosenza normanna. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza, dove spinto dal padre lavorò presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino ed infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta. Nel viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture e rientrato in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero italo-greco posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re, Dio. Visse circa un anno presso l’Abbazia di Santa Maria della Sambucina, a Luzzi, che negli anni 1152-53 passava dai Benedettini ai Cistercensi, da cui si allontanò poi per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove fu ordinato sacerdote. Secondo le fonti, nel 1177 Gioacchino venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri poiché la vera ambizione di Gioacchino non era raggiungere un titolo, ma a studiare la Sacre Scritture e predicarle alla gente. Tuttavia riuscì a convincersi. In qualità di abate compì un viaggio nell’Abbazia di Casamari, nel Lazio tra il 1182 e il 1184. Durante la sua permanenza nell’Abbazia incontrò il papa Lucio III che gli accordò la “licentia scribendi“. Le sue dottrine ed il suo ideale di vita monastica austera e rigorosa, lo misero in urto con il suo Ordine dal quale intorno nel 1188 si staccò poiché non condividevano il suo continuo girovagare così distante. Il Papa Urbano III lo prosciolse così dai doveri abbaziali autorizzandolo a continuare a scrivere. Nel 1194 Gioacchino ebbe in concessione da Enrico IV un vasto tenimento in Sila e ottene privilegi sovrani su tutta la Calabria. Profondamente convinto del suo messaggio e ritenendosi “chiamato” ad una vera e propria funzione profetica, fondò una sua Congregazione Florense alla confluenza dei fiumi Arvo e Neto, in località Fiore, dove edificò un piccolo ospizio. In seguito all’aumentare del numero dei suoi seguaci, iniziò la costruzione di quella che doveva diventare l’Abbazia Madre dell’Ordine Florense. L’Abbazia venne dedicata a S. Giovanni Evangelista, alla Vergine ed allo Spirito Santo. Intorno all’edificio iniziarono a sorgere le abitazioni di allevatori, pastori, cacciatori, raccoglitori di pece e di tutti coloro che si insediavano in Sila per sfruttarne le grandi risorse naturali. Velocemente si formò un borgo che prese il nome del santo a cui era dedicata la chiesa e del posto sul quale la chiesa fu edificata: San Giovanni in Fiore. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’abate Matteo, successore di Gioacchino, continuò l’opera ampliando le fondazioni florensi, nel periodo del suo abbaziato (1202-1234), l’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparse in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.

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