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CRITICANDO: Italo Svevo, Una Lotta: analisi e commento

Il racconto venne pubblicato per la prima volta nel 1888 a puntate nell’elzeviro dell’ “Indipendente” (giornale triestino fondato  nel 1877), che consentì all’autore un immediato inserimento nelle cerchie letterarie dell’epoca.

Il  testo analizzato è uno degli esperimenti incipitari del giovane Svevo, risalente al periodo in cui ancora soleva usare lo pseudonimo Ettore Samigli (denota interesse la scelta di nomi che solevano avere come iniziale la lettera S, a mo’di rimando al suo cognome reale,  Schmitz ).

Il titolo del racconto allude ad uno scontro in campo amoroso: Arturo Marchetti, celebre poeta, e Ariodante Chigi, cultore dello sport, si contendono l’amore della bella Rosina che nell’epilogo deciderà di fuggire col secondo pretendente dopo che questi aveva percosso il povero poeta .

Dal punto di vista cronotopico Svevo ambienta la scena in una anonima città “N.”, contrariamente ai successivi scritti in cui Trieste assume la costante di sfondo, analizzata e contestualizzata in base alla trama da trattare. Nel racconto L’assassinio di via Belpoggio (1890) la città è il labirinto in cui Giorgio, dopo l’omicidio cerca di nascondersi e apparire inosservato.  Nel romanzo Una Vita (1892) Svevo annuncia il malessere del protagonista Alfonso Nitti che non riesce ad inserirsi nello sviluppo industriale del luogo.  In Senilità (1898) invece riscontriamo un ambiente che fa da sfondo alla tormentata storia amorosa tra Emilio e Angiolina, in cui l’autore svariate volte descrive dettagliatamente i luoghi dei loro incontri segreti;  nella Coscienza di Zeno (1923)  Trieste assume importanza sociale, è l’espressione della borghesia avanzante, degli affari e del commercio.

Il tempo del racconto non è ben scandito: dopo alcune visite nel salotto della fanciulla i due rivali si scontrano e lo sfortunato poeta, in seguito allo svenimento, si ritrova nella sua stanza dove apprenderà da alcune lettere la sua triste sconfitta.

Arturo è l’unico personaggio a tutto tondo e la vicenda è quasi totalmente esposta dalla sua ottica. Ariodante e Rosina invece sono focalizzati in maniera alquanto repentina.

Svevo definisce a grandi linee il loro aspetto fisico: Rosina era una “bella biondina” che camminava  un po’ curvata. Ci  appare come una figura marginalmente abbozzata e approfondita solo nel suo secondo romanzo con il personaggio di Angiolina; di Ariodante conosciamo solo le sue doti fisiche e la virile bellezza.

Arturo, “fornito di due occhi azzurri espressivi quanto la sua parola”, sviluppa nella lotta amorosa una mediazione del desiderio, di invidia narcisistica nei confronti del rivale (considerato paradossalmente inetto) che crede di poter sconfiggere con le sue consolidate doti intellettuali e una sorta di bramosia di possesso che gli faranno corteggiare e credere di amare una donna solo per la soddisfazione di legarla a sé, dimostrando una perdita di spontaneità dei sentimenti amorosi tipici della narrativa ottocentesca. Il possesso tanto agognato, infondato e illusorio non farà altro che collocarlo nel girone degli inetti che, sognatori e affabulatori, non sono capaci di creare un percorso vitale stabile da seguire e molti di loro avranno anche un triste epilogo: si pensi a Giorgio l’assassino di via Belpoggio che, credendo di far tacere il proprio senso morale, seminerà ovunque  prove della sua colpevolezza tanto da venir subito arrestato; Alfonso Nitti, incapace di integrarsi nella società triestina industriale e titubante nelle proprie decisioni amorose, si lascerà morire per annichilire un’esistenza da ignavo.

Tra dimensione onirica e realtà Arturo fonde la propria vita amorosa con la letteratura, presentandosi in maniera altamente bovaristica: è dal suo bagaglio culturale che idealizza e crea una donna da introdurre nella sua vita quale musa ispiratrice che in realtà non possiede doti artistiche, infatti così scrive Svevo: «questa donna sognata e sognata sua doveva essere un essere del tutto speciale e doveva avere una testina degna di portare la corona d’alloro che egli voleva applicarvi»; ma Rosina è una semplice fanciulla «che vive sola e che riceve liberamente uomini in casa». Subito dopo aver cristallizzato la perfezione della donna quale antica figura stilnovista , il poeta scivola nella sfera della mondanità pensando alla fanciulla come una giocattolo con cui divertirsi: « voglio almeno divertirmi; se trovo di meglio la lascio, altrimenti ne faccio il romanzo della mia vita» echeggiando i propositi di Emilio Brentani che, vivendo con mente senile un amore giovane, ma soprattutto frivolo e di poco conto con una donna di facili costumi, si lascia incatenare da un’inettitudine sfociante in gelosia e incapacità di adempiere ai propri doveri familiari.

L’espressione “scrivere il romanzo della mia vita” è quasi topico in Svevo : Alfonso Nitti tentò di vergare con la sua amata Annetta Maller un romanzo a quattro mani in cui avrebbe riversato le proprie vicende sentimentali, allo stesso modo tentò  di fare Emilio Brentani, ma il sentimento malato per Angiolina non gli permisero di portare a termine il progetto, così anche Zeno Cosini sotto la prescrizione del suo psicanalista scrisse  la sua “inattendibile” autobiografia.

L’approccio letterario di tutti questi personaggi  è indice di autobiografismo, infatti Svevo più volte dichiarò di non riuscire a pensare se non con la penna in mano. Ciò nonostante l’autore svilupperà sin da questo suo primo racconto una sorta di distacco con la sorte del protagonista adottando una narrazione non empatica.

La dimensione onirica del protagonista del racconto non fa altro che aumentare la gelosia nei confronti del rivale, tale tematica è fondamentale ancora una volta in Senilità, tanto che questo breve racconto sperimentale della narrativa sveviana rappresenta una sorta di cartone preparatorio per il secondo romanzo, un canovaccio in cui sintetizza temi che affronterà e perfezionerà solamente in seguito.

La lotta amorosa condotta da Arturo appare quasi unilaterale: assumendo un atteggiamento di sfida e ironico nei confronti di chi non può competere fisicamente, perderà nello scontro finale decisivo con Ariodante; ma in realtà Arturo sfida se stesso, le proprie convinzioni e, malato di attitudine onirica perde il vero contatto con la realtà degenerando conseguentemente da contemplatore in senso shopenaueriano a  inetto.

Alessandra Pappaterra 

CRITICANDO: Tra Svevo e Pirandello, esercizi di onnipotenza

Sempre tenendo presente che hanno valenza relativa i paragoni tra testi che si trovano in diversi stati di compiutezza, si può dire che la somiglianza del dono soprannaturale e assassino che caratterizza i due protagonisti è, comunque, interessante.
La prima affinità nei due racconti è proprio la scoperta, da parte dei personaggi, della capacità di uccidere in maniera semplice, invisibile e per di più totalmente irrazionale (perciò non “scopribile”); si potrebbe supporre che l’elemento sovrannaturale inserito in un contesto prettamente borghese (come si trova, simile ma non identico, nei due testi) sia di per sé un fattore significativo, specie per autori come Svevo e Pirandello, ben abituati a smontare le meccanico delle relazioni Io-Società.
Una seconda affinità è la consapevolezza della suddetta capacità, che già differenzia i testi perché affrontata dai protagonisti in maniera diversa – seppure collegata, vedremo, alla terza affinità. In Soffio il personaggio può e vuole verificare di non essere pazzo, e di essere effettivamente diventato potentissimo; ne Il malocchio Vincenzo rimanda la presa di coscienza, e i tentativi di verifica della sua abilità cominciano solo dopo la morte della madre. C’è un approccio diverso alla natura del dono, in un caso verificata immediatamente, in un altro ponderata e, tutto sommato, maggiormente temuta. Contando che i due testi si risolvono in archi temporali ben diversi, e che in Pirandello la coscienza della potenza si svela in modo repentino (epifanico?) mentre in Svevo è necessario più tempo, si potrebbe anche sottolineare una maggiore capacità di adattamento del protagonista pirandelliano, opposta ad una sostanziale inettitudine – e quando mai, direbbe qualcuno – del Vincenzo sveviano, che avrebbe finalmente un mezzo per affermarsi come tanto crede di desiderare ma su cui non ha effettivo controllo.
Il terzo punto è infatti il controllo del dono, che se in Soffio è perfetto, per Vincenzo è sostanzialmente impossibile; più volte si dice che il malocchio non sottostà all’arbitrio del protagonista e che è piuttosto legato alle pulsioni del suo animo. È forse questo il punto cruciale della differenziazione. Il soffio mortale induce il protagonista a rifiutare la propria stessa persona e a identificarsi con il sospiro, il fiato che è la morte; «la morte ero io», «ero l’epidemia, e tutte le larve, ecco, tutte le larve, le vite umane che un soffio portava via». In linea con la crisi dell’Io propria della poetica pirandelliana, la nuova qualità del personaggio lo estrania totalmente (già in distacco con la società: «Non l’avrei fatto per odio di nessuno non conoscevo nesso. Come la morte»,) spersonalizzandolo e, alla fine, allontanandolo del tutto dal limite umano per sprofondarle in un delicato e assoluto panismo. L’uomo diventa epidemia, e incontra la sua vera natura – essere morbo, una qualità autentica forse non solo per il solo individuo, ma per tutto il genere umano.
Il dono di Vincenzo, invece, scatta involontariamente (ma, a un certo punto, non inconsapevolmente dato che egli sente letteralmente qualcosa muoversi nel suo occhio e sa riconoscere quando sta per partire il “colpo”) a partire da motivazioni che sono sì reali, ma su cui non ha potere né propriamente coscienza – e  cioè l’orgoglio e l’odio profondo verso chi è in grado di realizzarsi, di imporsi, di affermarsi in quella maniera che vorrebbe fosse anche sua e che invece non è. Il fastidio verso l’attività (gli aeronauti sul dirigibile) e l’orrore di vedersi attaccato nell’intimo (come fa la madre deridendolo per il suo desiderio di assomigliare a Napoleone), si condensano in colpi che il suoi inconscio proietta come reazione all’esterno. L’inadeguatezza dell’inetto reagisce, ma senza consapevolezza, ancora una volta senza merito diretto del protagonista.
Ribadendo che un confronto tra un testo compiuto e uno incompleto può essere fuorviante, ci asteniamo dall’esprimere giudizi qualitativi più diretti. Senz’altro i due racconti sono rappresentativi delle rispettive tendenze degli autori e si inquadrano bene nei loro schemi tematici, nonostante l’argomento apparentemente “strano”. Ennesima dimostrazione delle capacità del fantastico, mai realmente svincolato dal contesto culturale e sociale e, in fin dei conti, occasione per “mettere alla prova” la potenza di idee e valori.

Francesco Corigliano

CRITICANDO: Lady Susan, fra gli scartafacci di Jane Austen

Già dopo qualche pagina di lettura, un attento seguace di Jane Austen, anche se ha fra le mani una traduzione e non il testo in lingua originale può rendersi conto di quanto questo romanzo si inserisca nella fase sperimentale e rudimentale della sua produzione. Si intravedono le tematiche e anche gli stereotipi dei personaggi che verranno limati accuratamente solamente col passare del tempo, e anche la sottile ironia e l’avversione verso alcune classi sociali della sua epoca sono affrontate in maniera blanda. 

Bisogna precisare comunque che è l’unico scritto proposto usufruendo della forma epistolare. Moda letteraria  in voga all’epoca, grazie a  Choderlos De Laclos, che nel 1782 scrisse Le Relazioni pericolose. Anzi, aggiungerei che il personaggio di Lady Susan sotto molte sfaccettature ricorda la marchesa di Merteuil di C. De Laclos, sfrenata libertina senza scrupoli, intenta solamente al pettegolezzo e a concretizzare “piani” economici brillanti.

Questa fondamentalmente è Lady Susan: spietata, priva di senso materno, arrivista, affabulatrice. Le riesce bene recitare il ruolo di “prima donna”, grazie anche alle sue doti fisiche. Nonostante sia vedova e non più nel fiore della giovinezza ( 35 anni), riesce con perspicacia ed eloquenza oratoria ad ammaliare i suoi pretendenti, molti dei quali si erano avvicinati a lei semplicemente per poter ammirare curiosi, questa donna così sicura di sé , malvista da tutti i salotti “da bene” di Londra e contee.

Lady Susan è l’unica madre dei personaggi di Jane Austen a disprezzare vistosamente la propria figlia. Nei successivi romanzi invece la figura materna, sebbene abbia come unico scopo nella vita la ricerca di matrimoni vantaggiosi per le proprie figlie, ( si noti Mrs  Bennet di Orgoglio e pregiudizio, che praticamente, essendo a conoscenza delle precarie condizioni economiche della famiglia, vive cercando di accasare le sue cinque figlie, dal momento che la legge dell’epoca, in mancanza di un erede maschio, proibiva alle donne dopo la morte dei genitori di poter ereditare possedimenti paterni, che cadevano nelle mani di qualche cugino più fortunato).

Ma tornando a Lady Susan bisogna inoltre evidenziare anche il modo in cui cerca di “accaparrare” dei pretendenti per la figlia: ossia flirtando con gli stessi, allontanandoli da altre ragazze verso cui si era resa conto che potessero mostrare interesse. Sta di fatto che decide in maniera autoritaria che sua figlia Frederica dovrà sposare Mr Martin, che sebbene sia benestante, è riconosciuto anche dagli altri personaggi del romanzo quanto sia poco socievole e ingenuo. La tematizzazione del cosiddetto “sciocco ma di buon partito”, sarà largamente diffusa nel romanzo Mansfield’s Park.

Frederica Vernon figlia di Lady Susan, sebbene inizialmente sia stata screditata a causa della cattiva aura della madre e del poco impegno che investì per la sua educazione, si rivelerà nel corso del romanzo, come la candida eroina, divoratrice di libri, per nulla arrivista. È il prototipo di personaggio che rappresenta l’aspetto più irragionevole dell’essere donna agli inizi del XIX secolo, dal momento che confida nella ricerca di rapporti umani che vadano al di là degli interessi economici, ma coltivati ed eventualmente apprezzati solo in nome di ciò che sono capaci di donare. È per questo motivo che cerca in ogni modo di allontanare Mr Martin, rifiutando la sua proposta di matrimonio sin dall’esordio della trama.

Non è un personaggio decisamente schietto e anticonformista come Elisabeth Bennet di Orgoglio e Pregiudizio, determinata nel rifiutare ben due proposte di matrimonio al fine di fare valere la propria dignità di donna, capace di andare oltre la consuetudine e disposta a voler provvedere al proprio mantenimento mediante la scrittura, attività scandalosa per il gentil sesso all’epoca e poco consigliata, dal momento che non faceva che riempire la mente di troppe idee che una buona moglie e madre di famiglia non poteva e non doveva assolutamente coltivare. Frederica è di conseguenza il cartone preparatorio dell’eroina, della futura Jane Austen che aleggerà tra le pagine e nei panni di molti suoi personaggi futuri.

Lo scenario storico dell’epoca è del tutto assente, invece nella sua produzione futura sarà bersagliato e preso di mira costantemente, con precisi riferimenti alle guerre Napoleoniche e agli eserciti britannici, così poco raccomandabili.

Altro topos assente è quello della figura paterna: nei restanti scritti aleggerà lo stereotipo del padre intento sì ad accasare le proprie figlie, ma anche troppo irretito nel suo mondo fittizio, spesso rintanato nella biblioteca di casa.

Altra divergenza con la restante produzione: il finale. E’ l’unico romanzo in cui la trama viene sciolta e portata a compimento dopo lettere e lettere, in maniera approssimativa. In poche righe si svelano le sorti dei personaggi e il lieto fine.  Anche da questo punto di vista ci si accorge di esser di fronte ad una prosa rudimentale. Tutti i seguenti lavori presenteranno lo scioglimento degli intrecci e della trama in maniera dettagliata, in cui verranno scandagliati i cambiamenti avvenuti nell’animo e nel comportamento dei protagonisti. Non è un caso infatti che Lady Susan fu l’unico lavoro rimasto inedito. Venne reso noto postumo dal nipote della scrittrice assieme ad altre bozze incompiute e giovanili.

È un romanzo a mo’ di esercizio, un cartone preparatorio, un canovaccio di idee e di tematiche sapientemente messe a fuoco negli anni a venire, e forse anche per questo Jane Austen stessa decise di non affidarlo alle stampe.

Come quasi ogni autore che si rispetti, preferì rinnegare i lavori primordiali, sebbene dai posteri saranno lodati e fondamentali per la comprensione totale della produzione e dell’evoluzione contenutistica e stilistica. In generale i ghiribizzi giovanili in molti casi venivano o ripudiati o accantonati nel dimenticatoio, poiché resi in maniera più complessa e soddisfacente in età matura. Andando a spulciare tra le opere inedite della Austen , (ma in quelle di qualsiasi scrittore o poeta), non si fa altro che lavorare sui suoi “scartafacci”, lavoro di analisi di fondamentale e concreta importanza. La critica non può avvalersi semplicemente di lavori conclusi e affidati alle stampe. E’ necessario scandagliare anno per anno, tappa per tappa i cambiamenti avvenuti nell’autore, a prescindere da ciò che lui autorizza e pubblica. Spesso le chiavi di lettura e di interpretazione più profonda sono nascoste nelle postille, nelle bozze, nelle note private. In tutto quel materiale saltato fuori postumo. Da questa digressione si accerta la coesistenza dialettica fra critica e filologismo, anche se che sotto certi aspetti sembra esserci una dicotomia netta fra le due “scienze”, entrambe sono funzionali ed imprescindibili. Ogni filologo ha in sé del critico e viceversa.

Alessandra Pappaterra

Storia di un funambolo stabile

Precarietà, fragilità. È la vita stessa, incerta, instabile. Non vi è alcuna legge, non vi è alcuna logica. Noi crediamo di camminare su forti e consolidate strade asfaltate, e invece…mille crepe, fratture, placche litosferiche in movimento che aprono vortici, essi ci risucchiano in un nulla perpetuo; la strada sotto i nostri piedi, che pare a noi così ampia, forse non è altro che una sottile fune oscillante nell’infinito spazio dell’aria. È la vita di Salvo Stabile, ma è la tua vita, la mia, di tutti noi.

Egli è un giovanotto disilluso, deluso. Ora Salvo è un “uomo senza inconscio”, ma un tempo non era così, un tempo sognava, desiderava, aspirava, viveva. La speranza, l’ottimismo sono svaniti ed egli riesce a guardare alla realtà soltanto con lo sguardo labile della nostalgia, con lo sguardo del viaggiatore prossimo al naufragio. Sognava con quella biro e un foglio di carta bianco, candido, puro eppure così irreale, illusorio. Quel foglio non gli avrebbe mai dato da vivere, ma scrivere lo rendeva libero; riempirlo, colmarlo di parole, di inchiostro, era come un rifugio, le dita s’appoggiavano a quella biro come fosse la tastiera di un pianoforte. Scrivere, una melodia.

Aveva studiato, s’era dannato, ma in concreto era riuscito a scrivere qualche storiella qui e lì, qualche esigua “cosuccia”. Quella biro non gli aveva concesso la vita tanto sognata, e neppure denaro per arrivare a domani. Un bel giorno la realtà gli sferrò un colpo troppo forte, una botta violenta che annullò in lui il sogno, la speranza, i desideri nascosti: la morte del padre.

Quel giorno fu una svolta, terribile. Salvo aveva sentito il peso del vuoto, del nulla, dietro le mille “pseudo – certezze” che la vita ci offre. Davanti all’apparente solidità del mondo, Salvo era ora solo, senza alcuna guida o supporto, non aveva didascalie o “istruzioni per l’uso della vita”, ma catapultato nel labirinto, in bilico tra vivere e guardarsi vivere. Quella biro la buttò via, lontano lontano; il foglio di carta ebbe simil sorte.

Decise di voler conseguire una laurea in Lettere poiché, in cuor suo, aveva sempre quel desiderio, in un misero cassettuccio della sua testa ripose il sogno di diventare scrittore, era sublime alle sue orecchie questa parola, aveva un suono infinito. Tuttavia doveva pur sempre pagarsi gli studi e aiutare la madre; almeno doveva provarci, a vivere. Così tra un impiego e l’altro, tra perpetue vicissitudini, la zia decise di prenderlo con sé.  Nemesi era una donna saggia, aveva vissuto una vita intera nel suo amato circo. Lì, tra i suoi funamboli e giocolieri, era una sorta di dea, una dea della giustizia, ma una “giustizia compensatrice”, distribuiva gioia al momento opportuno, era una via d’uscita, una possibilità per Salvo, di liberarsi dal suo torpore e dalla sua inerzia.

Un destino, un futuro che per Salvo era tutt’altro che stabile, e sempre meno lo sarebbe stato. S’immerse così nel mondo circense, in quei profumi e quegli odori che sembravano estraniarlo dal mondo reale. Non aveva una vita felice, non aveva una vita, forse. L’unica donna che aveva avuto con sé era sua madre, e ora la zia Nemesi, al suo fianco per indicargli un giusto equilibrio. L’equilibrio. Parola ignota a Salvo, la parola più dolce del mondo ad udirla, l’equilibrio come scopo di vita, come senso della vita stessa, forse meta irraggiungibile. Salvo scelse un’umile compagna di vita, con lei era difficile mantenersi in equilibrio, ma forse più facile che farlo con l’esistenza stessa, precaria e priva di un senso definito. La fune era la sua scelta. La fune non era né una bellissima donna, né un “posto fisso” di lavoro, e non era quella laurea in lettere (mai conseguita), ma era tutto ciò di cui aveva bisogno. Per una volta era a suo agio, era se stesso, era Salvo. Paradossalmente, su quella fune così sottile, così sul punto di cedere, era in equilibrio, in armonia, più di quanto lo fosse mai stato nella vita, su metri e metri di mattonelle e strade asfaltate. La Terra gli era sempre tremata sotto i piedi, come in un eterno terremoto, ma la fune no. Lei lo cullava, lo amava mentre deliziava la gente nei suoi spettacoli, con poche acrobazie e qualche sorriso. Talvolta cadeva, e si rialzava, cadeva, e si rialzava di nuovo. La fune l’aveva capito: era un amore, un amore precario. Come il resto, del resto. Era quello che un tempo era la biro, come il pianoforte per un pianista, la racchetta per un tennista, una semplice fune era la felicità dopo il dolore, era la fuga dal grigio quotidiano, era però un amore precario.

Federico Giovanni Rega 

Consigliati da Otto@Tales: IL MALOCCHIO di Svevo

Proseguono le proposte di lettura dalla nostra rubrica. Oggi, come già avevamo promesso, suggeriamo un racconto di Italo Svevo, l’incompiuto Il malocchio.
Il racconto affronta un tema simile a
Soffio di Pirandello, ma attraverso un approccio diverso, e concentrandosi su un protagonista che ricorda in molti tratti l’inetto “classico”, di cui tanto si parla riguardo i romanzi di Svevo. Siamo in un campo simile e allo stesso tempo diverso rispetto al testo di Pirandello. Ma del confronto tra i due testi parleremo più diffusamente in futuro.
Svevo non è estraneo alla tematica fantastica. Oltre a questo testo, si possono citare quantomeno
Lo specifico del dottor Menghi e l’interessantissimo Argo e il suo padrone, una sorta di diario “canino” che ricorda tanto le Indagini di un cane di un certo Kafka.
Ad ogni modo, ora concedetevi questo pezzo di letteratura fantastica, che nonostante l’incompiutezza rappresenta un ottimo saggio della scrittura di Svevo, e della sua capacità di destreggiarsi in contesti diversi e “strani”. Buona lettura.

 

Molti quando si trovano fra’ dieci e i quindici anni sognano una carriera grande, persino quella di Napoleone. Non era quindi strano che a 12 anni Vincenzo Albagi pensò che se Napoleone a 30 anni era stato proclamato imperatore egli avrebbe potuto esserlo qualche anno prima. Strano era invece che quell’istante di sogno fu ricordato da lui per tutta la vita. Nessuno lo sospettò perché egli non era altro che un buon ragazzo non stupido che faceva molto attentamente il proprio dovere di scolaro del Liceo e del Ginnasio. Era l’orgoglio dei suoi insegnanti per la sua bravura e anche (oh! quale occhio di lince non hanno gl’insegnanti) per la sua modestia. A casa sua egli accettava la piccola vita modesta di provincia che gli era imposta e sopportava sorridendo e commiserando l’orgoglio del padre che riteneva se stesso il Napoleone dei commercianti di vino d’Italia. Il vecchio Gerardo che in gioventù aveva lavorato con le proprie mani i campi era un uomo soddisfatto e benevolo. Egli aveva capito a un dato punto che era meglio comperare e vendere il prodotto altrui che aspettare il proprio. Era stato un grande sforzo della sua piccola mente e una buona volta riuscito Gerardo ne visse bene fisicamente e benissimo moralmente. La moglie che si vedeva concessa la domestica, due o tre vestiti all’anno ed una tavola ricca lo adorava e lo ammirava. Gerardo faceva del bene a molti e non domandava neppure riconoscenza. Camminava la via un po’ troppo pettoruto ma molti lo amavano, pochi dal suo orgoglio mite di negoziante di vino fortunato si sentivano lesi. C’era a questo mondo del posto per tanti altri orgogli altrettanto legittimi! Spesso Gerardo con un sincero accento d’ammirazione riconosceva i meriti altrui. Diceva al lustrino che stazionava davanti alla sua casa: «Tu sei il migliore lustrascarpe di questo mondo!». Alla cuoca: «Nessuno sa preparare il baccalà pannato come te!». Alla moglie: «Io so far denari e tu sai risparmiarli!». Ecco che molti erano soddisfatti di quella felicità di Gerardo.
Vincenzo invece era assorto nella contemplazione della propria grandezza futura. Il padre aveva avuta una sola buona idea ma egli doveva a quel padre e a quell’idea la felicità della propria vita. Se quel padre non avesse avuto quell’idea ecco che Vincenzo sarebbe stato attaccato da lungo tempo all’aratro accanto a qualche altro asino. Ma egli era tediato da quel piccolo orgoglio che gli sembrava strano, spropositato. Il padre troppo spesso parlava della fiducia che in lui riponevano altri negozianti o consumatori di vino. «Quando il vino passa per le mie mani aumenta di sapore e di valore». Per le mani pulite di Vincenzo invece non passava niente e per la sua testa la propria immagine convertita in quella di un grande ammirevole condottiero. Ora mentre Vincenzo per l’orgoglio del padre non aveva che un sorriso distratto e stanco, il vecchio invece si compiaceva dell’orgoglio del figliuolo altrettanto legittimo quanto quello di un buon lustrascarpe: Vincenzo era un buon scolaro. Passava trionfante traverso tutte le classi. «Io faccio denari » diceva il buon vecchio «e tu farai sicuramente qualche cosa d’altro».
I fastidi cominciarono quando Vincenzo abbandonò la scuola. Intanto volle entrare in un’accademia militare. Era la via più breve per sbalzare il re dal trono e mettersi al suo posto. Curioso come il re era lontano anche dall’Accademia Militare. Vincenzo aveva da fare con tenenti e sottotenenti i quali in complesso per molto tempo lo amarono e stimarono come avevano fatto i professori del Liceo. Poi un bel giorno Vincenzo perdette la pazienza. La lotta per la vita incombeva. Non si trattava più di apprendere, ma bisognava presto divenire. Un bel giorno perdette di rispetto nel modo più grossolano ad un tenente. Fu rinchiuso, minacciato delle più gravi punizioni e fu felice quando con l’aiuto del padre che da furbo vinaio quale era lo dichiarò mentecatto dalla gioventù in su, poté ritrovarsi a casa propria sano e salvo e spoglio della montura militare.
Vincenzo fece anche per qualche mese il mentecatto. I due provinciali temevano che l’autorità militare li sorvegliasse per riassumere il processo contro di Vincenzo se questi fosse risultato meno mentecatto. E come Vin- cenzo ricordava il suo primo sogno per cui s’era sentito chiamato a divenire un Napoleone così ricordò la impressione quasi gioconda con la quale accettava di apparire più stupido che fosse possibile. Si diceva: “Guarda che caso! Essere destinato a quello e dover fingere di essere questo!”.
A chi conosce la natura umana comune non sembrerà affatto strano che passati quel paio d’anni all’Accademia Militare chiusi con quel calcio che lo rimandò a casa sua Vincenzo non fece alcun serio tentativo per conquistare l’ambita posizione di un Napoleone. Restò a casa sua dopo un breve soggiorno in una università per il quale si convinse che gli studii non erano fatti per lui. Era vecchio oramai in confronto ai suoi compagni. Il disdegno ch’egli sentiva per tutti gli uomini diveniva grandissimo per quelli che erano più giovini di lui e gli ripugnava di vivere da eguale accanto a delle persone che realmente avrebbero dovuto essergli sottomesse. Ritornò a casa sua e il vecchio padre che non desiderava di meglio che di tenerselo accanto lo ricevette a braccia aperte. «Io t’insegnerò il mio commercio di vini che, avviato com’è, ti darà poca fatica». Per fortuna Vincenzo quella volta non tenne dentro di sé il rancore che andava accumulandoglisi nel petto ma lo sfogò. Non voleva scansare le fatiche anzi le ricercava. Voleva anzi le grandi, le eroiche fatiche ma per un uomo che aveva studiato come lui e ch’era
lui il commercio in vini era disdicevole.
Poi ebbe una grande, lunga pace perché Gerardo era un uomo che facilmente si lasciava imporre eppoi da uomo pratico non accettava altre seccature fuori di quelle che gli risultavano dal suo vino.
Lesse molto in quel tempo Vincenzo. Volumi e volumi. Molti dedicandosi alla lettura acquistano scienza, altri vi acquista buon sangue; Vincenzo invece vi trovava motivi a rancore. Lesse varie lunghe storie del Consolato e dell’Impero e restava meravigliato come un tale grande uomo avesse potuto commettere tanti errori. Leggeva anche i giornali e ogni numero confermava nel suo animo la convinzione che tutte le persone di cui vi si parlava erano indegne o deboli.
Vincenzo aveva cura del proprio aspetto; portava dei grandi mustacchi bruni cui dedicava molta cura ed in complesso nulla lo distingueva dal comune, dal comunissimo degli uomini fuorché una certa sua aria fatale che gli si appioppò sulla faccia come una maschera. Certo è che quando gli altri si entusiasmavano egli subito si ritirava leso nel proprio orgoglio. Aveva un gesto curioso allora. Metteva la mano sulla bocca come per celare uno sbadiglio ed il suo occhio diventava torvo, torvo. Le palpebre si contraevano come per coprire quell’occhio che però restava aperto tanto da lasciarvi entrare le immagini e uscirne una piccola fiamma gialla in direzione dei corpi che quell’immagine avevano prodotta. Era arrivato ad un’epoca in cui aveva spesso moti- vo di sbadigliare. Guardò con uno sbadiglio da sgangherarsi le mascelle dietro ai primi velivoli a cui rimproverava la poca stabilità. Osservazione giustissima cui seguiva subito nel suo grande animo la speranza di scoprire lui il mezzo per renderli più sicuri. I dirigibili lo affievolirono fino a dormire in piedi ma contrassero il suo occhio tanto che traverso la fessura che le palpebre lasciavano non si vedeva che il bianco coperto dalla solita luce gialla. Poi venne il premio Nobel che a lui non capitò giammai. E in fondo gli pareva un’epoca ipocrita la nostra col suo aspetto di non domandare altro che dei grandi condottieri ed in realtà evitandoli e soffocandoli.
Con tutto ciò Vincenzo nel piccolo àmbito della sua città natale era un uomo fortunato e perciò invidiato. Tutti gli dicevano ch’era nato con la camicia ed egli non lo credeva e si sentiva pieno di rancore perché gli pareva che gli parlassero così per indurlo a credere di avere più di quanto meritasse. Egli aveva tutti i denari che potesse desiderare; i genitori non domandavano altro che di dargliene. A lui non importava. Una bella e ricca giovinetta restò ammaliata dal suo occhio bruno nel quale brillavano dei riflessi gialli ed egli consentì di farla sua. Non gl’importava tanto dell’amore ma pure si sentiva bene di tenersi accanto una persona tanto ragionevole da adorarlo. Aveva tutto il tempo vuoto tanto di doveri che poteva rimpinzarlo dei suoi sogni di imperatore. Ma gli pareva che ciò gli spettasse.
La madre che anch’essa aspettava pazientemente che da tanta larva uscisse l’utile animale atteso lo spinse a prender parte alla vita politica locale. L’ambiente era piccolo, ma si poteva sperare di riuscire ad un ambiente un po’ più grande, cioè Roma… e di là… E i sogni s’animavano da quell’intenzione di fare il primo passo. E lo fece il primo passo con manifestazioni altezzose e sdegnose contro l’amministrazione locale. Fu interrotto da uno scappellotto. Ma quale scappellotto! Una mano grossa e potente aveva addirittura abbracciato una parte della sua testa tanto compassata e vi era piombata con tale veemenza che il collo cedette e non bastò per attutire il colpo. Anche le gambe cedettero e non bastò neppure, tanto che Vincenzo finì proprio col naso per terra. Lo rialzò subito e guardò il suo avversario. Egli non capiva nulla fuori che gli era stato fatto un torto enorme. Quel barbaro, in confronto suo nient’altro che un verme, aveva osato tanto! Egli lo guardò solo apparentemente inerme perché il suo odio andò ad alimentare la fiamma gialla che gli guizzava nell’occhio. Così nacque il suo malocchio. Vi contribuì il suo volere di bestia abbattuta, il suo desiderio di vendetta proporzionato al danno enorme che gli era stato fatto: Un ulteriore ritardo nella sua ascensione. Si rialzò e fu l’altro che gli rilasciò per primo il suo biglietto. A Vincenzo parve una irrisione e guardò, guardò! La guancia gli si era enfiata e un occhio divenuto piccolo s’ostinava a non chiudersi.
Prima che s’arrivasse al duello il suo avversario ammalò per una puntura d’insetto e pochi giorni appresso morì.
Vincenzo veramente non aveva la più lontana idea di averlo ucciso lui. Sapeva darsi l’aria di rimpiangerlo e senza grande fatica. Vincenzo non era un cattivo uomo e per creare quel suo malocchio cui il suo destino d’inerte ambizioso aveva create le premesse era bensì occorso il suo volere il suo malanimo. Ma questo malanimo c’è in tutti coloro che ricevono un ceffone, solo che negli altri esso si manifesta con altrettanti ceffoni e pugni. Al povero Vincenzo invece esso creò l’unica arme ch’egli sapesse maneggiare. Un’arme che doveva ferire tanti e anche lui stesso.
Poco dopo sposò la fanciulla che lo amava. A lui parve di sacrificarsi da quel buon figliuolo che era per far piacere a suo padre, a sua madre e alla stessa fanciulla che lo voleva. Già, non volendo bene, il matrimonio non è poi quell’impedimento ad alte imprese come generalmente si crede.
E fu nei primi mesi del suo matrimonio ch’egli sospettò quale potenza infernale fosse insita nel suo occhio. Camminava solo per i campi poco fuori della piccola cittadina in cui si riteneva esiliato. Voleva essere solo per ritrovarsi. L’affetto della giovine sposa lo tediava. Aveva bisogno di essere solo. In tasca teneva l’ultimo volume del Thiers nel quale Vincenzo si compiace- va di leggere come il Titano aveva accumulato errori su errori che ora lo schiacciavano. Titano cieco! Aveva visto funzionare un modello di ferrovia e non aveva capito il partito che avrebbe potuto trarne per signoreggiare il mondo!
In quella vide una grande folla uscire dalla cittadina facendo uno schiamazzo di gente entusiasmata. Gli uomini avevano levato il cappello e lo agitavano salutando verso l’alto; le donne agitavano dei fazzoletti. Anche Vincenzo guardò in alto. A qualche centinaio di metri d’altezza e contro vento camminava un dirigibile. Nel sole meridiano brillava come un enorme fuso di metallo. Gli scoppi regolari del suo motore riempivano l’aria. Era l’evidenza stessa di una grande vittoria e Vincenzo guardava, guardava e pensava ai difetti di quell’ordigno, in primo luogo vedeva il pericolo di quell’enorme quantità di gas accensibile che lo sosteneva. La folla applaudiva e in alto si videro alcune piccole figure minuscole sporgersi dalla navicella e rispondere ai saluti che venivano loro dai campi e anche dalle colline più lontane. “Credono di trionfare!” pensò Vincenzo torcendo la bocca dal disgusto. E fu allora ch’egli s’accorse che dal suo occhio era partito qualche cosa che poteva somigliare a un dardo che abbandona l’arco teso. Questa partenza egli la sentì chiaramente. Si passò le mani sugli occhi per proteggerli, gli era parso che il suo organo fosse stato ferito da oggetti pervenuti dall’esterno. Presto non poté più aver dubbi. Lassù ed in immediata corrispondenza alla sensazione da lui provata si produsse un fenomeno ben altrimenti importante. Una fiammata enorme avvolse il sigaro volante e la navicella di sotto. Poi più tardi si sentì lo scoppio immane e le urla della folla terrorizzata. In aria non restò che una forma di nebulosa che continuava a salire, in giù venne a precipizio la navicella che subito si vide ingrandire carica del motore e degli aeronauti. E quando questa raggiunse il suolo si sentì lo schianto. Il primo istinto di Vincenzo lo avrebbe portato sul luogo del disastro ch’egli non aveva voluto; poi si fermò perché sapeva di averlo provocato e temeva che altri avrebbe indovinato la realtà della sua coscienza. Corse a sua moglie che, prossima al parto, era rimasta in casa. Le raccontò dello spettacolo terrificante cui aveva assistito ma raccontandolo spesso s’interruppe confuso, mutando di colore. La sua agitazione che gli chiudeva la gola non era prodotta dal compianto per le povere vittime come la moglie credeva; egli vedeva se stesso, perverso e malvagio. Aveva dapprima cercato di dare un’idea alla moglie della sua ammirazione alla vista del portento. Ma subito la sua lingua più sincera del suo proposito parlò delle imperfezioni di quella macchina. Ad onta del disastro già avvenuto e del compianto sincero ch’egli sentiva per le povere vittime, al descrivere la magnifica vittoria umana sentiva rinascere tutto il suo rancore e capiva che se il disastro non fosse già avvenuto il suo occhio avreb- be scattato di nuovo. Finì che non sopportando la visione così esatta della propria malvagità, interruppe il racconto e si gettò singhiozzando sul letto premendo i suoi terribili occhi con le mani. La moglie piena di compassione per tanto nobile dolore lo assistette amorevolmente. Poi, tutto fu da lui negato a se stesso e poi facilmente dimenticato. Era stata una sua immaginazione. Se avesse voluto farlo credere ad altri non ci sarebbe riuscito. Perché avrebbe avuto da crederci lui? Lui che sapeva di essere stato sempre tanto buono da quella persona superiore ch’egli realmente era? Scacciò da sé il brutto sogno e ritornò ad immaginarsi portato al trono che lo attendeva. E quando parlava del disastro cui aveva assistito trovava le più nobili parole di rimpianto. Evitava però di dire ch’egli aveva prevista la sventura data l’imperfezione della macchina. E una volta che se ne parlò in presenza della moglie e che costei per ammirarlo meglio volle far sapere a tutti ch’egli aveva capito che una macchina fatta così non poteva reggersi egli negò e si schermì. Tutti oramai sapevano che al mondo c’erano tanti dirigibili che volavano sicuri. Il problema per macchine tanto delicate era di star lontane da influenze malevoli.
Ma poche settimane dopo l’occhio di Vincenzo scattò di nuovo e andò a colpire la persona ch’egli aveva creduto di amare più di tutti a questo mondo. Sua madre era una donna ambiziosa e avrebbe voluto spingerlo di nuovo nelle competizioni locali. Il paese era sossopra per le vicine elezioni politiche ed essa avrebbe voluto ch’egli cedesse al desiderio di varii amici e candidasse. Vincenzo non ne voleva sapere e per la fiducia che aveva nell’affetto della madre le lasciò capire ch’egli si considerava troppo alto per degnarsi di lottare in un simile misero ambiente. Essa naturalmente prima aveva creduto che le cose stessero proprio così e per lunghi anni aveva atteso di vedere il suo lioncello lanciarsi alla conquista del mondo. Poi aveva capito che il mondo era troppo vasto per lui e quando aveva visto come al primo scontro Vincenzo s’era ritirato nel suo guscio da vigliacco a continuare i suoi beati ozii, il suo giudizio su Vincenzo fu fatto. E cominciò col parlarne col marito che, occupato com’era, non aveva tempo di occuparsi di quello che avveniva intorno a lui: «Sa tanto e non ha voglia di far nulla; come finirà?». Poi ne parlò alla nuora: «Perché permetti che tuo marito passi le giornate senza far nulla? Non vedi che cominci a metter dei figliuoli al mondo e lui non se ne dà per inteso?». Gerardo alle parole della moglie aveva dato piccolo peso e presto s’era ribaltato in letto dall’altra parte per mettersi a russare. La moglie amante invece si ribellò: Vincenzo era un uomo che pensava e studiava e non aveva bisogno che nessuno lo sferzasse per farlo lavorare. Ai denari ci aveva pensato a sufficienza il padre e sarebbe stata una vigliaccheria di voler accumularne degli altri. Ora Vincenzo pensava e studiava.
La madre che aveva dedicata tutta la vita a quel figliuolo si sentì ferita al trovare qualcuno che voleva difenderlo contro di lei e divenne violenta. Fu sventura che capitasse allora Vincenzo, ciò che eccitò vieppiù la vecchia donna che si trovava davanti all’odiosa coalizione del figlio e della nuora. E allora essa disse i peggiori giudizii sul figlio. Voleva ferire e lo poteva facilmente perché era la sola cui fino dall’infanzia Vincenzo avesse rivelato l’intimo desiderio: «Continua, continua a studiare la vita di Napoleone. Così quando t’imbatterai in qualcuno che lo somigli, potrai ottenere da lui il permesso d’allacciargli le scarpe». Nell’ira essa manifestava l’intimo disprezzo per il vanesio ch’essa tanto intimamente conosceva e che in altri istanti, pur sempre vedendolo fatto così, avrebbe saputo compatire e consolare.
Vincenzo si sentiva soffocare dalla sorpresa e dall’ira. Nessuno aveva mai osato parlare in tale modo con lui. E in presenza di sua moglie! Cercò parole e non le trovò! Come trovarle? Egli non poteva mica dichiarare di sentirsi capace di somigliare a Napoleone! La sua stessa inerzia gli aveva sempre impedita la vanteria! La sua morbida ambizione trapelava da qualche pertugio, dai piccoli occhi ma non dalla grande bocca! Negare la sua ambizione a colei cui l’aveva rivelata lui stesso tante volte a bassa voce in una stanzuccia della casa paterna ove prima di coricarsi avevano sognato insieme, era cosa impossibile. Perciò e solo perciò nell’organismo tutto inerte s’accese l’occhio.
La madre se ne andò e i due coniugi restati soli piansero insieme, lei incantata di aver finalmente saputo il suo secreto: «Ah! Lo avevo indovinato da tempo! Tu mediti qualche cosa di grande!». Lui incantato che non appena aveva perduto la fede della madre aveva trovata quella di chi voleva rimpiazzarla si quietò subito.
Egli aveva sentito scattare il suo occhio ma non ci credeva più. Eppoi la madre se ne era andata erta e irata, tutta salute, non come il dirigibile che subito in seguito alla sua occhiata era rimasto infranto. Egli non pensava che il corpo umano è fatto altrimenti e che non contiene un gas accensibile. Il dardo vi produce una lieve fenditura e attraverso a quella viene attaccato il grande complesso organismo. Ci vuole qualche tempo per raggiungere la sua distruzione. “Domanderò scusa a mia madre” pensò Vincenzo che le carezze della moglie avevano rifatto buono.
Non poté mai più parlare con lei. Poche ore dopo la vecchia era stata trovata priva di sensi al suolo. Quando Vincenzo la rivide, la trovò che l’avevano già coricata; supina, immobile pareva presa da un sonno pesante dal respiro regolare ma rumoroso. Il padre gli raccontò che l’aveva vista al ritorno dalla visita alla nuora. A lui era sembrato che stesse bene. Quand’era ritornato l’aveva trovata giacente sul tappeto, proprio così come ora gia- ceva in letto e con lo stesso respiro forte e regolare. Solo la testa giaceva peggio, un po’ tendente verso la spalla. «Che abbia preso qualche sonnifero?» domandava il vecchio inquieto. Vincenzo subito – più colto – intravvide la verità e subito anche ricordò il proprio sguardo micidiale. Non volle ammetterlo! La madre doveva essere ubriaca. Non lo rivelava quel sonno calmo e plumbeo? Fu ipocrita con se stesso e con gli altri. E domandò al padre se a lui constasse che la vecchia signora fosse usa al vino. E quando il padre gli rispose ch’essa era stata sempre la sobrietà in persona, non ancora Vincenzo si rassegnò ad abbandonare la sua idea: «Tanto più effetto le avrà fatto il liquore che probabilmente avrà preso».
Ma il dottore venuto poco dopo gli tolse ogni dubbio: Trattavasi di una paralisi. Ancora Vincenzo non volle credere: Una paralisi? Con quel sonno dal respiro regolare, con quella cera… ch’era quasi la solita di sua madre. E rise, rise di un riso stridulo, voluto. Il dottore ch’era giovine non s’offese. Capiva di trovarsi di fronte ad un grande dolore e fu mite. Confermò il proprio giudizio ma aggiunse subito ch’era una malattia di cui spesso si guariva per un riassorbimento lento lentissimo. Il tempo guariva tante cose; soltanto bisognava avere il tempo. E se ne andò con questa frase sibillina che doveva scaricarlo della responsabilità che assumeva con quella promessa di guarigione.
Nella mente di Vincenzo questa frase lentamente maturò. Dapprima corse al letto della madre a sorvegliare che fossero eseguite le prescrizioni invero blandissime del dottore. Ma quando tutti meno lui sentirono il bisogno di riposo ed egli si trovò solo dinanzi al letto della madre, egli seppe ch’essa era moribonda per la ferita ch’egli le aveva fatta. Guardava con occhio supplichevole il povero corpo abbattuto. Gli pareva che il suo occhio ridivenuto buono avrebbe potuto guarire il male ch’esso stesso aveva prodotto. Poi s’inginocchiò davanti al letto e pregò come dinanzi ad una divinità e pianse.
Verso il mattino il respiro della madre si fece un po’ più rumoroso. Qualche respirazione era omessa e una pausa era al suo posto; poi riprendeva ma la ripresa era un po’ faticosa. Il mutamento era bene o male? Non poteva essere prossimo il risveglio?
Il dottore ritornò e trovò – com’egli disse – un lieve peggioramento. Gli pareva d’aver usato abbastanza riguardia quel grande figliuolo e fosse venuta l’ora di parlare chiaro. La malattia in sé era tanto grave che diventava mortale per essersi aggravata di poco dalla sera innanzi. Ma il grande figliuolo divenne addirittura pazzo dalla disperazione e il dottore disse che non aveva mai visto qualche cosa di simile. Si strappava i capelli, si gettava per terra con un urlo ininterrotto: «Oh! povero me! povero me!». Parlandone poi con altri clienti il dottore diceva: «Curioso! La madre gli moriva e tutta la compassione di cui egli si sentiva capace, la riversava su di sé!». Nella disperazione egli accusava se stesso di una grave colpa. Ma per fortuna nessuno gli credeva.
La madre morì e fu portata via. Vincenzo parve più tranquillo. Aveva passato la giornata a guardare il cadavere della madre. Sentiva tale desiderio di rivederla viva che sperava che il suo occhio, quello stesso che le aveva dato la morte, la facesse rinascere. Cessò dallo sforzo quando la vide chiusa nella bara. Sarebbe stato terribile se ora fosse ritornata in sé.
Presto cessò anche d’accusarsi del grande delitto. Gerardo che oramai cominciava ad accorgersi della gravità della sventura che lo aveva colpito dava segno di cominciare a crederci. Aveva saputo del litigio violento avvenuto fra madre e figlio e riteneva che la congestione cerebrale di cui la vecchia era morta fosse derivata dall’eccitazione risultatale dalla disputa col figlio il quale perciò – credeva Gerardo – se ne accusasse colpevole. Vincenzo che non sapeva sopportare l’avvilimento di un’accusa simile cominciò a scolparsi. E così coperse di nuovo la sua coscienza di un denso strato sotto il quale essa si quietò ingannando tutti. Eppoi il suo occhio aveva commesso già il peggiore delitto; tutto il resto del mondo poteva oramai essere ferito da lui senza rimorso. Continuava a studiare la storia di Napoleone e sapeva che non era l’amore che a quello studio lo legava; era l’invidia e l’odio. Egli sapeva bene come fosse fatta quella speciale vita del suo occhio. Napoleone la attivava in modo straordinario. Per fortuna l’Imperatore giaceva tranquillo agli Invalidi al sicuro dai dardi di Vincenzo.
E l’unico dolore che oramai gli risultasse dalla sua strana malattia era un certo disprezzo per se stesso. Egli sapeva che tutte le cose alte di questo mondo venivano da lui abbattute; per pacificare la sua anima egli si diceva ch’egli avrebbe voluto compiere lui stesso delle cose eccelse e che essendogli stato impedito questo dal suo destino la sua grandezza s’era mutata in una potenza infernale. E il fatto che tale potenza veramente non dipendeva dal suo arbitrio non diminuiva quel disprezzo. Infatti non dipendeva da tale arbitrio. Egli guardò con occhio che volle malevolo un cane che lo assaltò; il cane poté morderlo e andarsene a vivere poi benissimo e in ottima salute. Occorreva ch’egli fosse toccato su certi punti del suo organismo morale perché l’occhio scattasse. I velivoli e i dirigibili che passavano per la sua città natale cadevano tutti. Vincenzo provava di frenare l’attività del suo occhio e guardava in alto forzandosi di pensare alle mogli e alle madri di quegli eroi per costringersi a benevolenza. Ma poi vedeva tali mogli e tali madri come aspettavano per portare in trionfo al loro ritorno i loro cari. E allora il proprio destino oscuro risorgeva nel suo ricordo e l’occhio subito diventava micidiale. Dunque non dipendeva dal suo arbitrio l’attività di quell’occhio ma era certo che la dirigeva il suo animo intimo un suo “io” che a lui pareva distante da sé. Perciò nelle notti insonni cui talvolta era condannato egli si diceva: “Io sono innocente!”. E guardava intensamente nell’oscurità per vedere meglio e più esattamente l’immagine della propria innocenza. Non la trovava in natura tale immagine! Era lui come il serpe cui il veleno cresceva nel dente senza che l’animale ne sapesse? No! Il serpe poi mordeva mentre lui guardava; la cosa era ben differente! La sua miseria intima non fu sospettata neppure dalla donna che gli dormiva accanto.
La quale fu anch’essa vittima di quell’occhio. Come aveva lui potuto ferire quella povera donna di cui tutta la vita non era altro che amore per lui? Essa aveva dato alla luce dopo sofferenze intense durate lunghe ore un bambino! Esausta guardò il marito aspettandosi le sue espressioni di riconoscenza. Egli non ebbe per lei che il solito aspetto di compatimento. Trovava vana e inutile tutta quella sofferenza. Ed essa per spiegare meglio quello ch’essa voleva, tradì l’animo suo: «Vedi! Così tu diventi importante come desideri! Io popolerò la tua casa di figliuoli che, forse, in avvenire, diverranno qualche cosa!». Il giorno appresso le si manifestò la febbre che in pochi giorni la trasse alla tomba.
La povera coscienza di Vincenzo era ancora agitata da tale delitto che l’altro suo “io” aveva commesso quando per la piccola cittadina corse voce che vi si era stabilito un vecchio celebre oculista. In poco tempo aveva fatto miracoli nella piccola città. Aveva ridata la vista ad un vecchio che aveva perduta la luce 30 anni prima. Vincenzo guardava nello specchio i suoi occhi neri e foschi: “Se tutto il male stesse lì?”. E, a dire il vero, andando dall’oculista a lui parve di fare un atto eroico: In complesso egli sacrificava una potenza che c’era nel suo corpo e la sacrificava senza domandare alcun compenso: Lo faceva per puro altruismo.
Vincenzo fu ricevuto dal vecchio dottore che gli domandò di che cosa soffrisse. Un subitaneo pudore impedì a Vincenzo di dire lo scopo della sua visita per quanto l’aspetto del dottore, un vecchio forte e barbuto dall’aspetto benevolo gl’ispirasse fiducia. Poi pensò che se il dottore sapeva guarire il malocchio lo avrebbe certo diagnosticato da sé e disse: «A me dolgono gli occhi quando guardo in alto!». «Soltanto quando guardate in alto?» domandò il dottore con un tono di voce che a Vincenzo parve ironico.
Il dottore fece sedere Vincenzo in un ampio seggiolone e lo obbligò di poggiare la testa sullo schienale. Con alcune lampadine elettriche gli illuminò l’occhio fino alla radice. Per lungo tempo guardò in quelle due piccole caverne, sede di tanta malignità, e pareva interdetto di trovare quell’occhio costruito dalla salute stessa. Poi vide e indovinò. Fu serio, accigliato, nient’affatto ironico: «Io non so guarire la vostra malattia. Io guarisco soltanto buoni occhi candidi, lagrimanti, lesi dall’infezione o feriti da altri corpi. Ma voi avete l’occhio cioè il malocchio perfetto. Sapete vedere e sapete anche ferire. Che volete di più?».
Vincenzo con isforzo mormorò: «Ma io vorrei che voi faceste in modo che il mio occhio non fosse più un malocchio. Io sono un uomo buono e non vorrei fare dell’altro male ai miei simili».
Il dottore prima di rispondere andò a prendere un oggetto che strinse fortemente in mano per essere protetto dall’occhio di Vincenzo poi parlò senza paura: «Voi non potete essere buono dal momento che avete sotto le ciglia quei due ordigni! Voi siete un piccolo invidioso e vi fabbricaste l’arme che faceva al caso vostro». L’occhio di Vincenzo scattò ma questa volta non servì a nulla perché il dottore s’era premunito. E il dottore sorrise: «Avete visto come ho potuto scaricare la vostra arme? Basta sapervi toccare in un dato punto e voi ferite! Andatevene che mi fa male vedervi».
Vincenzo volle difendersi: «Ma se sono qui pronto di sottostare a qualsiasi cura che voi aveste da impormi? Non vuol dire ciò che io non volli l’occhio che ho?».
Il dottore disse allora: «Se siete tanto buono come dite sedete su questa seggiola e permettetemi di strapparvi i due occhi malvagi». Vincenzo al sentire la proposta non stette ad ascoltare altro e si mise a correre. Fece le scale a quattro a quattro seguito dal riso ironico del dottore.
Poco dopo morì il padre di Vincenzo e quello lì proprio di morte naturale. Al suo funerale Vincenzo era sereno; egli non c’entrava per nulla in quella morte.
Seguì una settimana di una certa attività per Vincenzo. Volle disfarsi subito del commercio in vini. Così si ritrovò di nuovo privo di occupazione. A casa attendeva al bambino una donna di piena fiducia.
E così passarono degli anni. Una sera d’estate Vincenzo in attesa del pranzo sbadigliava sulla terrazza della propria villa. E la propria noia egli ammirava. “Altri si troverebbe bene di non far nulla! Io invece ne soffro!”. Anche del suo malocchio aveva trovato il modo di compiacersi e di vantarsi: “Molte grandi forze sono in natura che possono essere benefiche, e lasciate a sé producono delle calamità”. Forse avrebbe usato più spesso del suo malocchio se questo fosse stato realmente a sua disposizione e se non avesse avuto paura di essere scoperto.
Qualcuno o qualche cosa s’era arrampicato sulla sua seggiola. Era il suo bambino che oramai aveva sei anni. Si volse con malvolere e il bambino fuggì. La paura del piccolo Gerardo lo fece sorridere. Era grassoccio, bianco e biondo come la sua defunta madre. Vestito di una maglia azzurra e di brevi calzoncini che gli lasciavano le ginocchia nude, già troppo grande per quel costume dava l’idea di una grande robustezza. Vincenzo nella piccola cittadina passava per essere un buon padre. Il bambino aveva avute tutte le comodità che a quell’età si possono avere, giocattoli in quantità ed anche l’affetto di cui abbisognava perché la donna cui era stato affidato quella sì era veramente buona e dolce e gli teneva luogo di madre. Anche il bambino credeva di avere un padre molto buono, anzi – così gli era stato insegnato – il papà era il rappresentante della bontà sulla terra e quando gli si domandava: «Chi è buono?», rispondeva: «Papà».
Vincenzo richiamò il fanciullo. Con lui venne la sua tutrice che un po’ spaventata dall’avvenimento insolito, si fermò alla porta della terrazza. Il fanciullo non aveva paura. Si mise dinanzi a Vincenzo e si poggiò con le braccia sul suo grembo. Vincenzo gli sorrise e l’accarezzò. Poi pensò a quello che avrebbe potuto dirgli. Avrebbe potuto dirgli qualche cosa di grazioso, grazioso quanto 

 

CRITICANDO: Il perché dell’emotivo

Uno dei problemi più attuali, riguardo la letteratura, non è tanto il “come” quanto il “perché”.
Sempre più spesso, infatti, si riconosce nella produzione editoriale contemporanea la tendenza al “romanzo di sé”, allo scritto autobiografico, all’esperienza trasfigurata in appassionante avventura dei sentimenti.
Lungi da ogni intento di questo scritto il sindacare sull’importanza dell’esperienza individuale, e anche di sindacare sulla necessità di esprimere l’esperienza in sé; ma – e questo va chiesto tanto a editori quanto a lettori – c’è davvero necessità di piazzare l’esperienza su un libro, e poi di venderlo? Perché il bisogno di diffondere, e soprattutto di vendere, un racconto della propria storia – per quanto velato, romanzato, restaurato?
La verità – e non vale soltanto nel campo editoriale – è che non tutte le esperienze hanno lo stesso valore, non tutte le produzioni artistiche o pseudo-tali hanno bisogno di essere diffuse e fruite e, semplicemente, non ogni cosa che è stata scritta e sofferta ha davvero il diritto di essere letta. Il sentimento non è garanzia di qualità.
Perché il sentimento e l’autobiografia in editoria, allora? Perché l’empatia è uno strumento rapido ed efficace per assicurare successo e vendite. Perché è semplice poter condividere quanto scritto nell’ultimo romanzo acquistato, se questo insiste su emotività semplici da comprendere e afferrare. Perché fa stare bene leggersi in qualcosa che non si è scritto da sé, riconoscersi in una rappresentazione altra e potersi dire “allora qualcuno altro la pensa uguale”.
Ma questo modo di intendere la letteratura appare figlio della percezione commerciale della rappresentazione, e della filosofia dell’estremo “hic et nunc” senza tanti problemi. In realtà la buona letteratura è quella che offre rappresentazioni del reale, sì valide, sì condivisibili, ma anche oggettive e tendenti all’universale. Come per dire, una visione sarà vera per te che l’hai, ma non per tutti gli altri indistintamente. Una buona letteratura è quella che va oltre l’emotività e sa dare un’oggettività – a volte solo una parvenza, è vero – che sappia andare oltre il valore sentimentale.
Cosa dire, allora, delle centinaia di sguardi sul mondo che l’editoria – piccola o grande che sia – mette in commercio? Ennesimo esempio della frammentazione sociale, o anche dimostrazione dell’incapacità di selezione da parte dell’industria letteraria? C’è stato un tempo in cui, sebbene il libro fosse mercificato, si aveva un’idea chiara su cosa valesse la pena spacciare e su cosa fosse, semplicemente, espressione di un secondo. Sarebbe interessante vedere cosa si sceglierebbe, oggi, se si cercasse di individuare espressioni non di un solo istante, ma anche di minuti, di ore e, perché no, di epoche intere.

Francesco Corigliano

Consigliati da Otto@Tales: SOFFIO di Pirandello

Otto@Tales non è solo pubblicazione dei vostri racconti, ma anche discussione e proposta di pezzi di grandi autori.
Oggi vi consigliamo la lettura di questa nota novella di Pirandello, “Soffio”, edita nel 1931. Senza anticipare troppo a chi non l’ha ancora letto, in questo testo si ravvisano alcuni caratteri tipici della letteratura pirandelliana, quali una certa vena umoristica (il saggio sull’umorismo era stato pubblicato nel 1908) e un’esaltazione del panismo.
E’ interessante notare come i temi principali del racconto si ritrovino, con opportune rivisitazioni, in tanti titoli della cultura popolare odierna – e non soltanto in letteratura: “l’uno contro tutti”, il disagio sociale, ma anche – spoiler, se non avete ancora letto il racconto fermatevi qui! – il concetto dell’uomo-epidemia, che si trova ad esempio nella serie videoludica di Prototype.
Ma adesso, basta chiacchiere. Prossimamente pubblicheremo un racconto di Italo Svevo che affronta le stesse tematiche, e proporremo un confronto tra i due testi. Nel frattempo, buona lettura. 

I

         Certe notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi, e dallo sbalordimento pare non si trovi piú modo a uscire se non ricorrendo a una delle frasi piú fruste o delle considerazioni piú ovvie.
Per esempio, quando il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m’annunziò la morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io eravamo stati a colazione, mi venne d’esclamare: «Ah la vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via»; e congiunsi il pollice e l’indice d’una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.
Vidi, a quel soffio, il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi una mano al petto, come quando s’avverte dentro, e non si sa dove, un malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal ridicolo gesto con cui, non contento d’averla detta, avevo anche voluto accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch’egli avesse avvertito, forse al fegato o al rene o agl’intestini, momentanea a ogni modo e senz’alcuna gravità. Senonché: prima di sera, mi piombò in casa costernatissimo Bernabò:
– Sai che m’è morto Calvetti?
– Morto?
– All’improvviso, nel pomeriggio.
– Ma se nel pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le tre.
– E alle tre e mezzo è morto!
– Mezz’ora dopo?
– Mezz’ora dopo. –
Lo guardai male, come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?) tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine. Ebbi come un impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss’anche fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare; e a trovare a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò dell’avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto mentr’era ancora con me.
– Ah sì? Un malessere?
– La vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via. –
Ecco, ripetevo meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l’indice della mia mano destra s’eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere, mi si levava fino all’altezza delle labbra. Giuro che non fu tanto con la coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare: trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena appena.
Bernabò era alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un po’ il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m’era venuto avanti ansimando e s’era anche portata la mano al petto per calmare il cuore e riprender fiato ora, vedendogli fare quello stesso gesto e udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?
Sull’istante, pur tutto smarrito e stravolto com’ero, mi gettai a soccorrere il povero amico piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio piú nulla; mi sentii come gelare in una attonita apatia, e stetti a vederlo sussultare su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue, sussultare non piú come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il respiro, e diventare sempre piú pavonazzo, quasi nero. Faceva leva con un piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello sforzo; come nell’incubo di un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto, arricciandosi. Sull’altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d’un color verdolino a righino rosa. Domando un po’ di considerazione per la mia carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là, tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d’occhi, o nel fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti, o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e le righino di quella giarrettiera. Tutt’a un tratto però mi ripresi, inorridito di essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.
Preferii a casa, perché piú vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la puntigliosa meticolosità con cui lo governava. Allibita, la poverina, con le mani nei capelli: «Oh Dio, che è stato? com’è stato?», e non voleva levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com’era stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo piú, con tutte le scale che avevo fatte, salendo all’indietro, col peso enorme sulle braccia di quel corpo abbandonato. «Il letto! il letto!». Pareva non lo sapesse piú nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non s’arrivasse mai. Depostolo rantolante (ma rantolavo anch’io) mi buttai con le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a raccogliermi su una seggiola, cadevo giú tutto in un fascio sul pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: «Un medico! un medico!»; ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora restavo solo con la sorella, che certo m’avrebbe aggredito con altre domande. Mi salvò il silenzio che d’improvviso si fece sul letto, cessato il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo, per il povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare, non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non potevano piú pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre chiamato, ora ch’era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva diminutivi, lo chiamasse proprio Giulietto! Giulietto! A un certo punto, scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di quel Giulietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza piú saper che fare né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch’era proprio di piú. Senonché, rinvenuta, non volle piú credere che il fratello fosse morto. «Ha sentito? Non dov’esser morto! Non può essere morto!» Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che quel brontolio non era stato nulla, un po’ di vento o non so che altro, che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch’era linda e ci teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.
Era quel medico uno di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro precoce calvizie tra la violenza d’una selva di riccioli neri che, non si sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt’intorno la testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto, piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer dipinte, guardava con tal derisoria commiserazione l’ignoranza di quella povera sorella e parlava della morte con così disinvolta familiarità, quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli potesse esser dubbio od oscuro, che alla fine un ghigno di scherno mi proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m’ero scorto per caso allo specchio dell’armadio e m’ero sorpreso con uno sguardo storto e freddo che subito m’era rientrato negli occhi strisciando come una serpe. E il pollice e l’indice della mia destra si premevano, si premevano così fortemente l’un contro l’altro, ch’eran come insorditi dallo spasimo della reciproca pressione. Appena egli a quel mio ghigno si voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di scherno nel pallore che mi aveva inteschiato il volto, gli sibilai: «Guardi», e gli mostrai le dita, «così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la morte: ci soffi su, e veda se le riesce di farmi morire!». Si tirò indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai a petto di nuovo: «Basta un soffio, creda! basta un soffio!». Lasciai lui e afferrai per un polso la sorella. «Lo faccia lei! Ecco, così!», e le portai la mano alla bocca, «congiunga due dita e ci soffi su!». La poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita tremava tutta: mentre il medico, senza piú pensare che lì sul letto c’era un morto, sghignazzava, divertito. «Non lo faccio piú io, su voi, perché già lì ce n’è uno, e due con Calvetti per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi subito, me ne scappi!»
E me ne scappai, davvero come un pazzo. Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S’era già fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall’ombra tutte le case ai lumi che s’accendevano, la gente correva per ripararsi la faccia dai guizzi di luce di tanti colori che l’assaltavano da ogni parte, fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di donna che s’allargava di contentezza al riflesso d’una luce rossa; e là quella d’un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio, davanti allo specchio d’uno sporto di bottega che ruscellava d’un getto continuo di gocce smeraldine. Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l’effetto già due volte sperimentato. Se lo producevano, chi avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io scherzavo, ecco. E mi s’era già insugherita in bocca la lingua a furia di soffiare, e non avevo quasi piú fiato tra le labbra appuntite, arrivato in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, piú d’un migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e misteriosa.
Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in tutti i colpiti, dapprima l’avvertimento d’un malessere indefinito, poi la soffocazione. Dall’autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che aveva cagionato la morte quasi istantanea.
Restai, leggendo quei giornali, in preda a uno sgomento ch’era come lo sconcerto d’una orribile ubriachezza, confusione d’aspetti indistinti che s’avventavano, si sbattevano aggirati nel volume d’una nuvola che m’avvolgeva vorticosa; e un’ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro qualcosa dentro che mi restava nero e immobile e a cui la mia coscienza, attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si rifiutava d’accostarsi, toccava e subito se ne distaccava. Non so propriamente che cosa volessi esprimere, strizzandomi con una mano convulsa la fronte e ripetendo: «È un’impressione! è un’impressione!». Fatto si è che la parola, pur così vuota, m’ajutò a squarciare d’un lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. «Dev’esser tutta pazzia», pensai, «che m’è entrata nel capo per essermi trovato jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si dichiarasse di quest’epidemia piombata così di colpo sulla città. Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le piú sciocche superstizioni e le fissazioni piú incredibili. Del resto, per liberarmene non ho che da aspettar qualche giorno senza piú ripetere lo scherzo di questo gesto. Se è epidemia, come certo dov’essere questa spaventosa mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo come è cominciata.»
Bene; aspettai tre giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu segnalato dai giornali: l’epidemia era di colpo cessata.
Eh, ma pazzo no, domando scusa, nella ossessione di un simile dubbio, ch’io potessi esser pazzo, non potevo restare; pazzo, d’una pazzia che, a dichiararla, avrebbe fatto scoppiare chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione bisognava pur che mi levassi al piú presto. E come? Rimettendomi a soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a una ripresa della epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché fino all’ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere da me. Ma intanto la tentazione diabolica d’acquistare una simile certezza, ben piú terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la certezza di sapermi dotato d’un così inaudito potere: come resistere a una tale tentazione?

II

         Dovevo concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova quanto piú fosse possibile «giusta». La morte, si sa, non è giusta. Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.
Conoscevo una cara bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per entrare in un altro, tutti diversi l’uno dall’altro, questo che la portava a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e poi dal mare a un paese lontano lontano, dov’era altra gente che parlava una lingua tutt’altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s’era svegliata ancora bambina a vent’anni, ma proprio bambina bambina, con uno accanto che, appena uscito dall’ultimo di quei sogni, si era subito trasformato nella realtà di un omaccio straniero, in uno stangone alto due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della bambola, s’era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un mostriciattolo perché aveva pure un visino d’angelo malato, quando la continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli deformava anche quello, orribilmente. «Morbo di…», non so, il nome di un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare seppur si scrive così (cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), «morbo di Pot» in una delle sue forme piú gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino a dieci. Eppure, non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di tregua, il povero bimbo sorrideva d’un sorriso così beato in quel suo visino d’angelo, che subito, cessato l’orrore per quei contorcimenti, la più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché avevano già dichiarato che certamente era uno del casi davanti a cui non ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d’esser legge.
Io dunque mi presentai a quella madre.
La stanza dov’ella m’accolse era invasa dall’ombra e si vedevano come lontane le due finestre velate sul livido barlume dell’ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a piè del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo, al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi sciolto d’improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il capo a guardarmi, guardò il bimbo:
– Oh Dio, che gli hai fatto?
– Niente, hai visto, appena un soffio
– Ma è morto!
– Ora è beato. –
Glielo levai dalle braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo sorriso d’angelo ancora sulla boccuccia pallida.
– Tuo marito dov’è? Di là? Ti libero anche di lui. Non ha piú ragione d’opprimerti. Ma poi tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai sogni? –
Non ci fu bisogno che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito, sulla soglia. Ma nell’esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto piú alto di lui. «La vita che cos’è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela via!». E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella sera.
Ero io, ero io; la morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato il fiato. Non l’avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno. Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta l’umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le Città? e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era possibile. E allora no, non dovevo piú nessuno, piú nessuno. Dovevo forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?
Così farneticando, m’avvenne di passare davanti al portone dell’ospedale, spalancato. Nell’androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e sulla soglia, intento a guardar nella strada, sta va col lungo camice di servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non l’avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai: «Non mi cimenti in questo momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l’ho qua», e gli mostrai di nuovo le dita congiunte, «forse nel soffio soltanto! Ne vuoi fare la prova davanti a questi signori?». Sorpresi e incuriositi, gl’infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s’erano appressati. Col sorriso rassegnato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo, questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: «Ma lei è pazzo!». «Sono pazzo?» incalzai. «L’epidemia è cessata da quindici giorni. Vuoi vedere che la riattizzo e la faccio divampare in un momento, spaventosamente?». «Soffiandosi sulle dita?». Le risa fragorose che seguirono a questa domanda del dottore mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto lasciarmi prendere dalla irritazione per l’avvilimento del ridicolo che quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m’attirava. Nessuno, fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma l’irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d’un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell’incredibile potere. S’aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: «Chi le ha detto che l’epidemia è cessata?». Restai. Non era cessata? Mi sentii avvampare di vergogna le guance. «I giornali» dissi «non han piú segnalato alcun caso». «I giornali», ribatté quello, «ma non noi, qua all’ospedale.. «Ancora casi». «Tre o quattro al giorno». «E lei è sicuro che siano dello stesso male?». «Ma sì, caro signore, sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi, risparmi il suo fiato». Gli altri tornarono a ridere. «Sta bene», dissi allora. «Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene una prova. S’assume la responsabilità anche per questi altri cinque signori?». Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei cinque: «Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto». Quelli esclamarono a coro, sghignazzando: «Ma sì, soffi, soffi, ci stiamo anche noi, eccoci qua!». E mi si misero tutt’e sei in fila davanti, coi volti protesi. Pareva una scena di teatro in quell’androne d’ospedale, sotto la lanterna rossa dei pronto soccorso. Erano certi d’aver da fare con un pazzo. Ormai non potevo piú tirarmi indietro. «È l’epidemia, caso mai, non sono io, eh?». E per esser piú sicuro, congiunsi come al solito le due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt’e sei, uno dopo l’altro, s’alterarono in viso; tutt’e sei si piegarono sul busto; tutt’e sei si portarono una mano al petto, guardandosi l’un l’altro negli occhi infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che s’abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente, che a mano a mano diventava folla, s’era intanto raccolta davanti al portone. I curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano dalla soglia e pigiavano in mezzo agli ansiosi che volevano vedere che cosa stesse accadendo in quell’androne. Lo domandavano a me, come a uno che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la curiosità, né l’ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto, d’improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi una espressione di paura e insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano intorno; fors’anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo: «Basta un soffio… così… così»; mentre da terra il giovane medico, testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: «L’epidemia! L’epidemia!». Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella gente che correva spaventata e all’impazzata, andare, io solo, a passo, ma come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai, non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita davanti alla bocca e nell’atto di soffiare «…così… così…», forse per dare una prova dell’innocenza di quell’atto, mostrando che, ecco, lo facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M’intravidi per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non sapevo piú come guardarmeli, così cavati dentro Com’erano nella faccia da morto; poi, come se il vuoto mi avesse inghiottito, o colto una vertigine, non mi vidi piú; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c’ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo piú e neanche le mani con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m’appressavo a cercarmi in esso; non c’ero, non c’era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita; e mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m’investì e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s’era imbattuto in qualcuno che doveva esser lì, e non c’era, non c’era nessuno: insorse in me allora prepotente il bisogno d’affermare che c’ero; parlai come nell’aria; gli soffiai nel volto: «L’epidemia!» e con una manata in petto lo abbattei. Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in cerca di me, s’empiva di gente che da ogni parte rampollava, strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava, vaporandosi quasi nel delirio d’un sogno spaventoso; ma pur pigiato tra quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita invisibili. «L’epidemia! l’epidemia». Non ero piú io; ora finalmente lo capivo: ero l’epidemia, e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via. Quanto durò quell’incubo? Tutta la notte e parte del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell’aria della campagna aria anch’io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo, non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or ora dal mio estremo bisogno d’un refrigerio, ed era così mio, che mi sentivo toccare in ogni filo d’erba mosso dall’urto d’un insetto che veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato, di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle cadevano lievi nell’aria come pezzi di carta; piú là, su un sedile guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d’un abito di velo celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le ciglia; pensava, sorridendo d’un sorriso che me la rendeva lontana come un’immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che una immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via! Intenerito fino all’angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile, con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il mio sguardo era l’aria stessa che la carezzava senza che lei se ne sentisse toccare.

 

Il compleanno

– Allora papà? Che mi hai comprato? Che mi hai comprato?
– Io? Nooo…niente…
Cristiano saltellò ansioso attorno al padre, senza smettere di chiedere del suo regalo. La madre osservava la scena, divertita.
– Ma davvero, Cristiano – disse allegra, – il babbo non ti ha comprato nessun regalo?
– Ma dai mamma! Oggi è il sei Giugno, è il mio compleanno! Deve avermi preso qualcosa per forza.
-Beh – ribatté il padre, – forse c’è qualcosa di strano nel cortile…dovremmo controllare.
A Cristiano brillarono gli occhi. – Qualcosa di strano? Quanto strano?
– Non so. Magari qualcosa con delle zampe.
– Oh, papà, papà!
Cristiano strillò dalla gioia e schizzò fuori dalla porta, in giardino. I genitori gli corsero dietro come poterono.
– E al maneggio ti hanno raccomandato niente? – chiese lei al marito.
– Ma no, è un pony normalissimo. Un pony come Cristiano ha sempre desiderato.
– Ma non sporcherà troppo?
– Figurati. Lo terremo vicino al frutteto, ho già parlato con Maurizio.
Uscirono fuori, e Cristiano stava impalato davanti al piccolo equino che nitriva felice. Il ragazzino spalancò la bocca, estasiato, poi si girò verso il padre. – Grazie, uomo! – esclamò con voce roca, – Era tutto ciò di cui avevo bisogno!
E saltò in sella all’animale, con uno solo sapiente movimento.
Antonio restò un po’ perplesso, perché di solito il figlio lo chiamava “papà” e non “uomo”. E si turbò ulteriormente quando vide Cristiano, appena accomodatosi sul pony, crescere improvvisamente di statura. Le braccia e le gambe si gonfiarono, il petto si modellò in uno scultoreo ammasso di muscoli, strappando la felpa di Topolino che lo copriva fino a pochi istanti prima. Il pony si ingigantì appresso, scurendo il manto e rinfoltendo la criniera in una fluente chioma rossastra.
La madre storse un po’ il naso mentre i vestiti di Cristiano, ridotti a brandelli, si rimodellavano irrigidendosi e trasformandosi infine in un’orribile armatura rossa irta di punte e spine; e gemette un po’, quando nelle mani del figlio comparve con un lampo una gigantesca flamberga fiammeggiante.
Cristiano scoppiò in una profonda e lunga risata, mentre il cielo sopra di loro s’annuvolava e lontano già rombavano i primi tuoni.
Poi, puntò la spada verso i due e sbraitò: – Sia lode a voi, esseri umani, poiché avete consentito la venuta del figlio del Male!
Al che gli zoccoli del cavallo s’infuocarono, e Cristiano partì al galoppo tra le nubi, mentre nel cielo apparivano draghi e demoni scuri.
Il padre osservò la scena perplesso. Poi, senza distogliere lo sguardo, disse alla moglie: – Cara, c’è qualcosa che dovresti dirmi?
– Beh, -fece lei, un po’ nervosa, – forse dovevamo prendergli un gatto.

 

Francesco Corigliano

La torre

Ferrea si ergeva la torre, incastonata nella sua conca di scuro metallo , innalzandosi possente e monolitica. Erosa, sporca, eppure impressionante nell’aspetto e nell’imponenza, dominava la vallata d’acciaio in cui era stata posta, come fosse precipitata dal cielo, chissà quanti secoli prima. Ai confini della vallata, alte quanto l’edificio, stavano le incredibili mura, metalliche anch’esse e fuse in un’unica colata da artefici ignoti venuti da luoghi lontani. Esse cingevano la valle, proteggendola dall’esterno.
D’un tratto, qualcosa sulla cima della torre millenaria si mosse; s’udì un borbottio, un gorgogliare confuso; poi dalla sommità colò un fluido nero, denso, incandescente, striato di sinistre venature brune. Velocemente scese lungo i fianchi della torre, si riversò sulla vallata metallica, raggiunse le mura mentre dalla cima dell’altissimo obelisco continuava a sgorgare inesorabile, a fiotti. Colmò il fondo della conca, s’accumulò, aumentando di livello e prendendo a ricoprire le mura.
Velocemente il liquame saliva, saliva, e ora fumando sommergeva la torre senza ch’essa rinunciasse ad eruttarne ancora e ancora; vomitando imperterrito il pilastro condannava la vallata, il suo antico dominio.
E quando il liquido raggiunse infine la cima della torre, ormai sul punto di traboccare oltre le mura, risuonò nell’aria un unico e potente grido: – Adalgisooo!
– Adalgiso! – urlò Marisa, – ma che stai a fare lì impalato?
– Guardo la moka.
– E non vedi che il caffè è uscito di fuori?

Francesco Corigliano

Peter Pan

“C’era una volta, tantissimo tempo fa …” tutte le favole più belle iniziano proprio così, e se la mia non è stata proprio una favola io mi ci sono ritrovata. Chi ha detto poi che le favole sono solo per bambini? Spesso queste oltre a farci sognare, servono anche a farci crescere, a volte sono un po’ più tristi delle solite favole lette nei libri, ma ognuna di esse ci fa sognare, sperare, ma soprattutto capire che, se lo vogliamo, ogni vita è una favola … e ora correndo sul sentiero antico della memoria vi racconterò la mia.

La luna cresce e, da sottile, dolce scudo argenteo, illumina il gentile silenzio della notte. I vivaci colori del giorno sono stati inghiottiti dalla notte, usurpatrice del suo tributo. Aurora è una meteora, una stella filante: è una bambina autistica che cammina mettendo un piede dietro l’altro dentro ogni piastrella colorata del pavimento. Non sente le mie parole: m’ignora … poi la notte si schiude per lasciar passare il sole. Aurora vola sopra un tappeto di nuvole bianche e grigie, mentre il vento la tiene su. Balla nell’aria, senza ricadere a terra; balla sopra le scorie del suo mondo ignorato, sopra alla tristezza appiccicata al suo cuore che un sorriso non riesce a dissimulare. Ha bisogno di essere aiutata per sempre, senza possibilità di crescere. È un Peter Pan involontaria, condannata a non uscire dall’infanzia, ad avere sempre bisogno dell’ “altro”, in questo mondo che è la sua isola: “L’isola che non c’è” ignorata o rimossa con la fantasia come un incubo o un dispiacere.

A distanza di anni ricordo ancora ogni particolare del giorno della sua nascita.

Quando l’ostetrica aveva messo la bambina tra le mie braccia, l’avevo guardata senza sapere cosa dire.  Per un attimo avevo provato imbarazzo perché avevo con me mia figlia che non conoscevo fisicamente.  Ascoltavo il suo pianto simile al canto degli angeli, perché apparteneva alla stessa natura divina e creava armonia dentro la stanza silenziosa dell’ospedale. Passai la notte abbracciata a lei, la guardavo, ridevo, piangevo, pregavo per lei e per noi …. Quel momento era l’alba di un nuovo giorno, di una nuova vita e di una nuova epoca. In quel momento cominciava la sua storia dentro la nostra per vivere oltre spazi infiniti nell’eterna alba del tempo.

Quella bambina era il mio Peter Pan.

Io ho sempre creduto che sull’autismo c’è speranza e c’è magia perché questi sono i bambini delle fate.  L’ho scoperto un giorno quando anche le mie parole non avevano più fiato, e allora a quel punto lasciai parlare le emozioni.

“Aurora vieni qua, non avere paura del mio abbraccio!” le sussurrai.

L’emozione più grande era stata quando la strinsi cullandola piano nella sua aureola profumata. Una fiamma di sole ci avvolse. Aliti a melodie di brezza ci accarezzavano la pelle. Strisce di luce si pretendevano come aquiloni al cielo. Era di una bellezza effimera come quella di una farfalla che si silenziava lieve nell’anonimo profumo di un crisantemo. Sentivo il suo tepore, la testolina sulla mia spalla e le braccia scheletriche sul mio collo.  Indossava un abito che le arrivava alle caviglie, forse era di quattro o cinque taglie più grandi della sua ma voleva mettere sempre e solo quello. Aveva il collo sottile e gracile come lo stelo di un fiore. Era avvolta in un vestito di fiammeggiante colore rosso, il capo nascosto dai capelli, lo sguardo basso, impaurito e sonnolento. Con le manine nervosamente intrecciate mi rivolgeva due occhi colmi di rassegnata malinconia. Gli occhi rivelano la qualità del cuore e quelli di Aurora erano davvero speciali: trasparenti, nitidi e semplici. Belli e profondi come potevano essere solo quelli di una bambina piccola ma umanamente grande. Era impossibile non rimanere toccata e imbarazzata dalla bellezza della sua fragilità, dalla sua impossibilità di capire e dalla sua sofferenza accettata senza ribellione.

Per incanto frammenti d’emozioni nascenti morivano di là della bellezza d’infiniti arcobaleni.  Aurora schiudeva così il bocciolo del suo autismo, in una lattea fioritura di parole, sotto una luce magica di tenui riflessi.

Ero nella sua isola incantata.  Lì non era importante se Aurora non rispondeva al suo nome, se preferiva giocare da sola o se a volte sembrava sorda. Tutto era normale. Ognuno camminava in punta di piedi, allineava le cose e fissava per ore un oggetto che non aveva niente di speciale. Non esisteva nessuna realtà. Questa era

“ l’isola che non c’è”.  Un universo d’incanto e di magia.

Urlavo e non capivo il perché.

Io donna perfetta, moglie ideale e madre premurosa mi decomponevo in mille sfaccettature. Avevo una forza che meravigliava mio marito. Ho cresciuto con amore Aurora e suo fratello, sopportando le difficoltà, portando carichi pesanti, tacendo quando avrei voluto gridare. Cantando quando avrei voluto piangere. Piangevo solo quando ero felice. Litigavo per ciò in cui credevo. Non accettavo un NO come semplice risposta quando credevo che esistesse una soluzione migliore. Ero forte, affabile, mite, sapiente … e possedevo un bacio che poteva curare qualsiasi cosa. Mi curavo da sola e riuscivo a conciliare tutti i tempi con una semplice magia.

“Quanto sei morbida e soffice!” mi diceva Aurora ma m’impegnavo per essere invece resistente e tenace. Io di solito badavo a lei, e ora era Aurora a tenermi forte la mano. Scoprire, sapere di questo nuova isola era come spogliarsi, svestirsi dai pregiudizi e rompere gli stereotipi.  Essere lì era come avere a disposizione una lente sempre più grande che ingrandisce un dettaglio, un punto dentro un dettaglio, e finalmente si ha la sensazione di arrivare al centro delle cose. Io ero arrivata al centro.
Ci sono stati giorni in cui speravo che Aurora non si svegliasse più, in cui pregavo Dio che se la portasse via un minuto prima di me, in cui pensavo di farla finita. Io non sono stata in grado di aiutarla.  Qualche volta sono stata persino di ostacolo. Non capisco perché le relazioni sono tutte così complicate: quelle che si hanno non si apprezzano, quelle che si vorrebbero ci spaventano e quelle che si dovrebbero avere non si capiscono.

Questo era il viaggio della “scoperta”. Una scoperta che è stata quasi come una trattativa serrata sul mio essere donna. La scoperta del perché ti accadono certe cose. Accadono punto e basta. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. La mia invece stava correndo via veloce come un fiume torbido e malato verso confini imprevedibili. Correva dentro un rituale pendolarismo quotidiano.  Poi smisi di desiderare un’altra vita e mi accorsi che tutto ciò che mi circondava era un invito a crescere. Vivevo con indolenza dentro queste acque che con vigore e senza argini travolgeva ciò che incontrava. Aurora mi ha portato sugli argini. Investita come un sasso nel mezzo di un torrente ero miope e non vedevo di là delle apparenze.  Ero sorda perché preferivo ascoltare le menzogne al silenzio di Aurora.  La fata della misericordia è riuscita a stabilire con me un’alleanza e donandomi un’arca come quella di Noè mi hanno portato alla salvezza, oltre gli spazi infiniti, nell’Eterna alba del tempo. Strappata dalla corrente che mi trascinava sono diventata una piccola ansa e ho ritrovato la mia isola, perché oggi ho capito che Aurora, è il faro del divenire nel fiume del mio andare.  Oggi so che questo è il mio essere donna.

Sara Francucci