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Il romanzo deve divertire, appassionare e fare arrabbiare, intervista a Claudio Dionesalvi

COSENZA – Qualche giorno fa è stata presentata l’ultima fatica letteraria di Claudio Dionesalvi “B.D.D. – Romanzo degli anni zero”, edito da Coessenza, uno spaccato di vite che stentano a campare pienamente perché costrette a fare i conti con la precarietà, soprattutto quella esistenziale, ma con ancora il sangue bollente che schizza nelle vene fatto di entusiasmo che si mescola all’indignazione che da loro l’audacia di affrontare le contraddizioni che minacciano speranze e possibilità. Una generazione che vince o che perde ma sempre a testa alta ammettendo i propri errori senza provare a nasconderli, che si sporca le mani nel fango per dissotterrare la verità perché non vuole essere più ingannata e non vuole ingannare.

Una generazione che rifiuta le convenzioni di questo tempo che portano alla dispersione dei sentimenti e alla loro incomunicabilità, che volta le spalle alla realtà per crearne una alternativa fatta di incontri, di contaminazioni e di scontri contro tutti gli apparati di subordinazione e di sottomissione, una realtà che sia sua e non quella che un qualsiasi sistema di potere gli obbliga a vivere.

Per te lo scrittore ha una responsabilità nei confronti del lettore oppure il suo ruolo è semplicemente quello di raccontare delle storie in grado di suscitare emozioni e reazioni?

Sì, ha una responsabilità. Perché non deve illuderlo, annoiarlo, deprimerlo, vomitargli addosso tutte le proprie frustrazioni, le ansie, i desideri di vendetta. Il romanzo è una cosa che deve servire a divertire, appassionare e fare arrabbiare sia chi lo scrive sia chi legge. Ma la vera responsabilità è nei confronti della storia narrata e delle esistenze che in essa si celano. Non si può scrivere una storia sul presente, senza viverla in prima persona, senza condividerla con chi quel presente lo vive”.

Nel momento in cui cominci a dare forma a una delle tue storie immagini una tipologia di lettori a cui rivolgerti?

No, al contrario, provo a misurarmi con la totalità dei potenziali lettori. Ho la fortuna e il privilegio di trascorrere la maggior parte della mia giornata con bambini: a scuola, a casa con mia figlia, per strada. È un vantaggio, perché quando si parla con i più piccoli, se non si è giocosi e affettuosi, ma soprattutto se non si impara a calibrare e restringere il proprio repertorio lessicale, quelli non ti capiscono. Per questo motivo, inseguo l’oralità, ed evito qualsiasi linguaggio specialistico. Non si tratta di banalizzare la scrittura, bensì di renderla accessibile a tutti. Che è un dovere, qualsiasi cosa si scriva o si racconti”.

Il tuo romanzo “B.D.D. – Romanzo degli anni zero” ci porta tra le pieghe di un momento storico all’interno del quale un gruppo di amici nel calvario del movimento continuo e senza bussola non riesce a riconoscersi, premettendo che è difficile sottrarsi agli stereotipi che ancora oggi intrappolano Cosenza, come si può trovare un punto di equilibrio tra l’attesa e la ricerca di aspettative future?

I protagonisti di B.D.D. sono cresciuti in una città diversa da quella odierna. Però non provano nostalgia verso il passato. È naturale che gli stili di vita cambino. Sai che noia se linguaggi, consumi, relazioni e interessi fossero sempre gli stessi! Inoltre, sono tipi che anche in età adolescenziale, e oltre, hanno elaborato un autonomo modus vivendi. Quindi in un certo senso sono abituati ad andare ‘contro la corrente che va controcorrente’. Quello che proprio non riescono ad accettare dello spazio-tempo in cui si ritrovano a vivere, è il diffuso senso di rassegnazione, la rottura dei legami umani, la subcultura della sottomissione al Potere. Non c’è un possibile punto d’equilibrio. Per la B.D.D., quindi anche per noialtri, l’unica alternativa alla condizione alienante in cui viviamo, è l’autonomia, la capacità di entrare in conflitto con il Male, costruendo, qui e ora, luoghi e momenti alternativi, pezzi di Altra società”.

I protagonisti del romanzo, tra realtà e illusione, vengono raccontati nella loro quotidianità e nell’ardua impresa di sciogliere il mistero di un “delitto” spinti dalla loro stessa natura a cercare la verità, credi che questa generazione confusa e dai confini vaghi abbia realmente voglia di conoscere tutta la verità, tutti gli errori e orrori del passato e soprattutto di superare tutti quei luoghi comuni e quelle ipocrisie che bloccano un reale rinnovamento?

Non so cosa abbia in mente oggi la generazione dai 18 ai 30 anni. So solo che noi, quando avevamo quell’età, ci divertivamo da matti. E che nonostante i nostri 40 anni, ‘ni scialamu’ anche oggi, pur tra mille difficoltà di andare avanti nella giornata quotidiana. Costruire reti sociali, alterità, sfuggire al neoliberismo, combatterlo attraversando i movimenti sociali che a tratti si originano spontaneamente, è divertente, meraviglioso. Dunque per stare meglio con se stessi e col resto del mondo, qualsiasi sia la propria condizione economica o esistenziale, basta essere ancora ribelli, non restare soli, consumare il meno possibile, studiare, vivere in armonia con la natura, fare l’amore e, come recitava venti anni fa uno slogan a noi caro, cercare di essere “vivi e diretti, allegri e combattivi”.

Lo stadio San Vito, il posto attorno al quale si sviluppa il romanzo, diventa il simbolo di una generazione che non si limita ad esistere e a piangersi addosso, perché hai scelto proprio lo stadio come simbolo emblematico della rivendicazione?

Perché per me è un luogo magico, il tempio dei cori, del gioco e dei colori. È lì che ho stretto legami con gli affetti più cari della mia vita, è lì che ho imparato ad amare la mia città, è lì che ho praticato per la prima volta il conflitto con i poteri costituiti, insieme a tanti ragazzi che, come me, lo rendevano un luogo di incontro tra le anime più variegate, uno spazio liberato dal dominio dello Stato, dalle sue divise, e da ogni forma di perbenismo. Gli stadi erano ben altro, rispetto al presente. Niente a che vedere con le aride arene funzionali al Dio Mercato, che sono diventati oggi. Eppure, ogni domenica, quando i Lupi giocano in casa, non riesco a resistere. Devo andare a occupare il mio posto. Perché ogni essere umano si lega indissolubilmente ai luoghi che gli hanno ispirato i momenti più cari e simbolici della sua esistenza”.

Gaia Santolla