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Pubblicati i discorsi di Mancini «Politico tra i più insigni»

ROMA – Un “eretico della prima Repubblica”, che “ha vissuto fino alla fine in piedi”. Un uomo “coraggioso”, difensore “testardo” dei diritti. Giacomo Marramao, Claudio Martelli ed Emma Bonino hanno ricordato Giacomo Mancini in occasione della pubblicazione, a cura della Camera dei deputati, dei discorsi parlamentari pronunciati dal leader socialista nell’arco di dieci legislature. Tra i ricordi, anche quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in un telegramma ha evidenziato l’importanza dell’occasione per parlare di «uno dei dirigenti più autorevoli del Partito socialista» e avere «nuovi stimoli sulle radici della nostra cultura». Il capo dello Stato ha proseguito parlando di un «dirigente politico appassionato e coraggioso», dal «forte sentimento antifascista che lo portò a scegliere la resistenza». Un uomo di governo, tra le personalità più insigni, ha proseguito il capo dello Stato, «la sua figura resta legata al meridione e il vincolo con la sua terra di Calabria si strinse ancora di più con la scelta di concludere la sua esperienza politica come sindaco di Cosenza». Mattarella ha concluso sottolineando l’originalità del suo pensiero e il valore della sua testimonianza, elementi con cui risulta prezioso confrontarsi. Emma Bonino ha spaziato, sovrapponendo ricordi personali («l’ho conosciuto da ragazza, non mi sono mai sentita guardata dall’alto in basso») a eventi vissuti in prima persona e diventati pagine di storia del Paese: «Ad una conferenza organizzativa, con Gianfranco Spadaccia arrestato e io e Adelaide Aglietta con mandati per associazione a delinquere, ci scrisse per dire che Radicali e socialisti sul piano della lotta per i diritti civili e di libertà non possono prescindere gli uni dagli altri. Un legame con non si sfilacciò negli anni di piombo, anni «in cui si era andati ben al di là, c’era una tendenza giustizialista e giacobina. Resistere a quello non fu affatto facile», ha proseguito la Bonino ripercorrendo poi il periodo della battaglia per Enzo Tortora. Per la ex Commissaria Ue: «La storia di Mancini, quello che sarà ricordato, ci dovrebbe insegnare qualcosa. Sulle autonomie, sul carro dei vincitori. La sua capacità di tenuta dovrebbe far riflettere gli attuali protagonisti del nostro tempo». Marammao ha parlato di Mancini come di un grande eretico della prima Repubblica, quando «gli uomini del fare erano quelli che hanno fatto la Repubblica con un lavoro di modernizzazione tra gli anni ’50 e ’60 che ha fatto diventare l’Italia un Paese importantissimo». Il filosofo ha insistito sull’idea di Mancini di una democrazia moderna, che si apre sempre di più alla logica dei diritti in un processo dinamico. Poi ha concluso: «Io penso a lui non come qualcuno che mi sta alle spalle, ma come un grande politico accogliente che mi viene incontro dal futuro».  Infine, sempre sospeso a metà tra privato e pubblico, il lungo intervento di Claudio Martelli in cui l’ex Guardasigilli ha ripercorso tutti gli anni da protagonista di Mancini: «Un uomo attento ai fatti che sentiva la responsabilità di rappresentare innanzitutto chi non ha quasi niente, perché in Calabria non c’erano fabbriche, promotore di un meridionalismo eretico perché non era piagnone». Martelli ha rivissuto una storia a tratti esaltante: «Giacomo ha combattuto fino alla fine, è morto in piedi, sul banco di lavoro e per noi ragazzi socialisti era un mito, perché offriva una via d’uscita tra la sinistra socialista e un’interpretazione ministerialista della nostra politica. Era animato da un fuoco, una tempesta, ma si portava anche un dubbio permanente sul comportamento dello Stato. Al Midas fu il coach dei 40enni, quelli della congiura dei riformisti. E poi fu il primo che si accorse che, come disse De Mita su Craxi, si erano allevati una tigre». Martelli ha chiuso con Tangentopoli: «Quando annunciai le dimissioni da ministro, fu il primo ad arrivare: voleva convincermi a ritirarle. Usò tutti gli argomenti, politici e personali. Mi disse: Guarda che io sono un grande avvocato, la prendo io la tua difesa al processo». Per l’ex ministro, Mancini ha rappresentato «la dignità della politica fatta stando in piedi, sfidando tutto e tutti».

Alfano: “Io non sapevo nulla”. L’Italia è il covo delle tre scimmiette

 

Be kind rewind. “Siate gentili, riavvolgete il nastro”, titolava uno dei film più brillanti di Michel Gondry. Anche questo serve, se si vuole chiarire e riassumere la storia di Shalabayeva e Alua per uno straniero o per una persona disattenta. Informarsi pazientemente, leggere i documenti e ascoltare bene le parole dei protagonisti. Per onestà e dovere giornalistico, va compiuto ogni singolo passo. Così facendo, si arriva ad una conclusione semplice e preoccupante.

Il nostro governo non è autorevole ed ha “la stessa spina dorsale di uno yogurt magro scaduto”, se si vuole citare il pensiero di un personaggio benniano. Dovrebbe amministrare con onore ed invece lascia che due rifugiate politiche (moglie e figlia di un dissidente scappato a Londra) siano rapite e rispedite in Kazakistan, la nazione del dittatore Nazarbaev, con il rischio di finire in carcere o in un orfanotrofio.

Davanti ad una evidente e vergognosa violazione dei diritti umani, era giusto attendersi più di un gesto responsabile: un’ammissione di colpa, una lettera di scuse messa sopra ad un’altra di dimissioni, un discorso del Presidente della Repubblica Napolitano che bacchetta chi ha infangato la propria carica politica, un’invettiva del Premier Letta contro i colpevoli, capace di risvegliare un po’ di orgoglio e di dignità nazionali. Al contrario,  abbiamo assistito al penoso siparietto del “io non sono stato avvisato e quindi non ho colpe” e chi ha davvero sbagliato (con l’eccezione del dimissionario Capo di Gabinetto Procaccini) è stato difeso e reso intoccabile.

Emma Bonino, ministra degli Esteri, era stata avvisata dalla Farnesina della presenza di Shalabayeva e Alua sul suolo italico, ha dimenticato il contenuto di un documento ufficiale e ha saputo del loro rapimento con due giorni di ritardo. Bastava che leggesse il settimanale “Oggi” per tenersi informata. Alfano, ministro degli Interni e vice Premier, ha detto alle due Camere di non saper nulla e che “nessuno potrà sostenere il contrario”.

Ma allora, se un politico non sa non bisogna colpevolizzarlo? Niente affatto. Ogni politico ha grandi oneri e grandi onori ed ignorare quando, dove e come vengono violati i diritti civili nel proprio paese, è il sintomo del menefreghismo e della superficialità dei politicanti più incapaci.

Perché non sono a quel punto intervenute le forze politiche che si professano democratiche o cattoliche? Per un motivo molto spicciolo: se la mozione di sfiducia contro Alfano (sostenuta da Sel e M5S) fosse stata votata, il PDL (che governa con il PD) avrebbe sfiduciato l’Esecutivo e il popolo italiano sarebbe dovuto tornare al voto. Alcuni esponenti del PD desideravano la testa del pupillo di Berlusconi, ma davanti all’ opportunità di compiere un atto coraggioso e doveroso, si sono adeguati alla volontà del loro storico avversario.

A pensar male in Italia non si fa quasi mai peccato e forse i nostri governanti hanno soprattutto assecondato la brama del tiranno di un paese, interessato ad usare Shalabayeva e Alua per ricattare e minacciare un avversario politico, con il quale abbiamo succulenti rapporti commerciali. Per la nostra classe politica è meglio vivere cento giorni da pecora che uno da leone, anche a costo di rovinare la vita di due o più esseri umani. Tutto questo, stranieri e disattenti hanno il diritto di saperlo.