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La Storia dei Deportati Etiopi Confinati a Longobucco

Ras Immirù con dei bambini (1943)

Sbarco, conquista, occupazione, liberazione; furono questi i principali termini che campeggiarono sulle testate dei quotidiani italiani e internazionali nell’estate del 1943. Dalle dimissioni «di sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini», il 25 luglio 1943, alla proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre, da parte del nuovo capo del governo Pietro Badoglio, gli italiani vissero uno dei momenti più critici e tragici della loro recente storia unitaria. Quei momenti furono vissuti in maniera diversa e contrastante in correlazione alle posizioni ideologiche, politiche e culturali assunte durante il Ventennio.
Lo sbarco angloamericano in Calabria, il 3 settembre 1943, assunse un significato rilevante non solo per l’apertura del fronte bellico anche sul territorio peninsulare, ma anche per la liberazione del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia e del paese-campo di Longobucco dove erano stati confinati dal 1937 un gruppo di deportati etiopi. La maggior parte dei sudditi etiopi confinati a Longobucco apparteneva alla classe dirigente etiopica di etnia amarica vicina all’imperatore deposto Hailè Sellassiè. Il maresciallo Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, riteneva proprio questi esponenti della classe dirigente etiopica responsabili del grave attentato che lo coinvolse il 19 febbraio 1937 ferendolo gravemente. Tra il 1937 al 1939 furono deportati in vari centri italiani circa 500 sudditi etiopi accusati di destabilizzare il governo italiano nei territori dell’A.O.I.
Tra i deportati erano presenti nomi illustri della politica etiope come Habtè Micael Fassicà (ex ministro dei lavori pubblici), Ubiè Mangascià (ex ambasciatore a Roma), figli e parenti di esponenti di spicco del regime negussita. Dal 4 dicembre 1942 si aggiunse agli altri deportati ras Immirù Hailè Sellassiè, cugino dell’imperatore deposto, una personalità politica e militare che con la sua resistenza agli invasori italiani «turbò i sogni di Mussolini». Proprio ras Immirù con una lettera al generale Dwight David Eisenhower comandante del Governo militare alleato dei territori occupati (A.M.G.O.T.) segnalò la loro presenza a Longobucco.
Gli anni di confino per i deportati erano passati tra molti disagi e sofferenze, dovute sia al regime di isolamento, ma anche alle ristrettezze economiche e a causa del clima molto freddo che creò non pochi malanni agli etiopi. Questi, nonostante tutto, riuscirono a mitigare il regime di confino con la partecipazione a recite, lotterie o prendendo lezioni di musica, studiando la lingua italiana e coltivando anche qualche “storia di amore di confine”. Il già citato Mangascià da una di queste storie, ebbe anche un figlio (che negli anni Sessanta riconobbe come legittimo erede) appassionando con questa storia scrittori e giornalisti.

Anni Sessanta, Antonio Scigliano (secondo da destra) poi riconosciuto come figlio

Gli etiopi, grazie agli assegni elargiti dalle autorità italiane, seppure sostenevano «poco bastevoli» al loro sostentamento, erano gli unici in paese durante il periodo bellico a permettersi l’acquisto di merci in scatola, commissionare abiti e comprare giornali. I ruoli di comando e di governo che avevano ricoperto durante l’impero del Negus, ora da deportati, si rivelavano utili per chiedere aiuti e sussidi a ministri, gerarchi, a Pio XI e allo stesso Mussolini. La Santa Sede agì in maniera diretta per favorire un regime di confino meno duro attraverso una serie di pressioni esercitate dalla Segreteria di stato alle autorità italiane o dal superiore dell’istituto della Consolata di Torino mons. Gaudenzio Barlassina. Il 18 novembre 1942 il Sostituto alla segreteria di Stato vaticana, mons. Giovvanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) interessava le autorità italiane a favore del figlio dell’ex ministro etiopico a Londra Martin.
Il deportato Haddis Alemayehou in un’intervista rilasciata l’11 dicembre 1943 al «The Ethiopian Heral», (l’intervista di Haddis Alemayehou è tratta da «The Ethiopian Heral» consultabile su http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=46), quindi pochi mesi dopo la liberazione, dichiarerà: «Noi [etiopi] per esempio fummo lasciati nel sud Italia, in Calabria, in un paese chiamato Longobucco, che significa “Lungo buco”. Longobucco è circondato da catene di alture, in inverno c’è la neve accumulata fino a un metro, da novembre fino alla fine di maggio. Durante quel periodo il paese diventa triste e desolato, gli abitanti chiudono le loro case e scendono sulla costa. Ma noi, poveri diavoli, solo noi dovevamo stare lì, dovevamo sopportare quel freddo terribile. Oh! fu veramente terribile». Haddis Alemayehou sentenziava, nella stessa intervista, che la loro unica speranza per essere liberati risiedeva nella: «partecipazione dell’Italia alla guerra; poiché sapevamo che nello stato italiano c’erano due diverse tipologie di abitanti con due diversi modi di vivere e con idee diverse – i fascisti e i non fascisti. I primi opprimevano, disprezzavano e sfruttavano i secondi completamente. I secondi, sottomessi, oppressi e torturati dai primi, li odiavano considerandoli come colonizzatori e non come compatrioti. In breve, tra queste due classi c’era un’aria di ostilità e discordia percepibile da tutti». L’intervista terminava con un duro bilancio degli anni di deportazione in Italia: «dopo 7 anni di offese e umiliazioni, dopo 7 anni di patimenti fisici e morali, siamo liberi, grazie agli eserciti alleati che hanno rotto la spina dorsale di quel mostruoso bruto-fascismo, siamo liberi e abbiamo visto la terra etiope libera».

 

Giuseppe Ferraro