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Porto di Cariati, sequestrati 5 km di reti illegali. Multe per 12.000 euro

CARIATI (CS) – Nell’ambito del Piano nazionale per il controllo delle reti derivanti, lo scorso martedi è stata effettuata un’operazione di contrasto all’uso delle reti comunemente note come “spadare” in quanto finalizzate principalmente alla cattura del pesce spada.

Con l’obiettivo di contrastare questo fenomeno personale della Guardia Costiera di Corigliano Calabro e di Cariati ha proceduto a serrati controlli a bordo di pescherecci ormeggiati nel porto di Cariati, controllando 3 diverse unità e operando il sequestro di 3 reti da posta derivanti tipo spadare ciascuna lunga oltre 1 chilometro e mezzo; una volta calate in mare avrebbero coperto una superficie pari a oltre 40 campi di calcio.

A seguito dell’attività operativa effettuata sono stati inoltre elevati 3 verbali amministrativi ciascuno per 4.000 Euro a carico dei Comandanti dei 3 pescherecci, per un totale di 12.000 Euro incassati dall’Erario.

Le Spadare sono reti da posta derivanti, cioè non fisse, usate per la cattura di grossi pesci pelagici, soprattutto pescispada da cui prendono il nome. Sono reti lunghe anche fino a 20 chilometri e larghe fino a 30 metri che provocano il cosiddetto “effetto muro” catturando tutto ciò che vi finisce dentro: oltre alle specie bersaglio anche le tartarughe, i delfini, i capodogli, le balenottere, gli squali.
Questo tipo di pesca, essendo non selettiva, arreca danno anche alle specie di interesse commerciale soprattutto per la cattura di pescispada immaturi o sotto misura. Contro questo tipo di pesca vi è stata prima la risoluzione 44/225 del dicembre 1989 delle Nazioni Unite, seguita dal Regolamento CEE n. 345/92 del 28/10/1991 e successivamente dal Regolamento 894 del 29/4/1997 che dispone la messa al bando delle spadare a partire dal 1 gennaio 2002 nei Paesi dell’Unione Europea, mentre dal 2005 sono vietate in tutto il Mediterraneo.

Un Orto Salva

L’orto che era orto-giardino, simbolo del Paradiso perduto. L’orto che era “dei semplici” e curava la salute, sosteneva la scienza. L’orto che era sempre in fiore, perché produceva tutto l’anno domando le bizze delle stagioni. L’orto attraversa la storia dell’umanità con diversi usi, simbologie, funzioni; dall’Egitto antico, passando per la Mesopotamia fino al Medioevo, e poi oltre. L’orto dei nostri nonni contadini, che gli offriva di che sostentarsi e inconsapevolmente ha permesso di preservare varietà locali di frutta e di verdura. «Coltivare orti di civiltà», mi ha detto una volta Ermanno Olmi, parlando del ritorno alla terra dei giovani. Ecco, oggi l’orto ha nuovi significati, simbolici ma anche pratici. L’orto educa, nelle scuole o anche fuori. A partire dall’idea dell’edible schoolyard di Alice Waters nelle periferie di San Francisco, fino ai 480 Orti in condotta che Slow Food Italia ha realizzato nelle scuole del nostro Paese. Questo forse è uno dei più grandi progetti educativi nazionali mai realizzati per l’alimentazione dei nostri ragazzi. L’orto nelle scuole sincronizza i bambini con i ritmi della natura, li rende edotti sui prodotti che può esprimere il loro territorio, con il suo clima e le sue varietà autoctone. Insegna loro a coltivare ma anche a raccogliere, con rispetto, consci di un limite naturale che andrebbe sempre rispettato: questa è sostenibilità. E poi insegna loro a mangiare i prodotti, quando è il momento giusto, e che caratteristiche devono avere, come si cucinano, magari secondo tradizione.  L’orto in città è anche un fattore di sicurezza alimentare, fornisce cibo fresco e buono: contrasta ad esempio i food deserts che ci sono in molte metropoli statunitensi; a New York in periferie più degradate non si trova cibo fresco per chilometri. Un orto salva.  Quante cose può fare un orto, anche sul balcone di casa. Vedere un bimbo che pianta un seme per la prima volta e ne segue la crescita, fino a mangiare cosa produce, è qualcosa che – anche se i detrattori sostengono non sfamerà il mondo – non ha pari per valore educativo e forma nuovi uomini e donne, è scuola di civiltà, ci insegna a stare al mondo un po’ meglio. «Orti di civiltà» dicevamo, dove crescere non soltanto frutta e verdura, ma un nuovo umanesimo che non ha nulla di poetico o di utopistico, diventa concreto sotto i nostri denti, potente per i semi, veri o metaforici, che sa rigenerare.