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Falso Movimento XXI.2012/2013: NO di Pablo Larraìn

Riprendono col XXI film della stagione 2012/2013 gli appuntamenti del martedì di Falso Movimento con un’opera importante, NO di Pablo Larraìn, che dopo una calorosa accoglienza alla 65° edizione del Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il premio della Quinzaine des Réalisateurs, e una candidatura agli Oscar 2013 come Miglior Film Straniero, è stato recentemente acquisito dalla Sony. In Italia i diritti per la distribuzione sono stati acquistati dalla Bolero Film. Falso Movimento proporrà invece la versione originale sottotitolata in italiano martedì 19 febbraio alle ore 20.30.

1988. Il dittatore cileno Augusto Pinochet è costretto a cedere alle pressioni internazionali e a sottoporre a referendum popolare il proprio incarico di Presidente (ottenuto grazie al colpo di stato contro il governo democraticamente eletto e guidato da Salvador Allende). I cileni debbono decidere se affidargli o meno altri 8 anni di potere. Per la prima volta da anni anche i partiti di opposizione hanno accesso quotidiano al mezzo televisivo in uno spazio della durata di 15 minuti. Pur nella convinzione di avere scarse probabilità di successo il fronte del NO si mobilita e affida la campagna a un giovane pubblicitario anticonformista: René Saavedra.
Pablo Larraìn, che il pubblico italiano conosce per i suoi precedenti Tony Manero e Post Mortem, affronta in modo diretto una delle svolte nodali della storia cilena recente. L’aggettivo è quanto mai appropriato perché la scelta radicale di utilizzare una telecamera dell’epoca offre al film una dimensione del tutto insolita. Il passaggio dal materiale di repertorio (dichiarazioni di Pinochet e cerimonie che lo vedono presente così come interventi dei rappresentanti dell’opposizione dell’epoca) alla ricostruzione cinematografica diviene così inavvertibile. Il pubblico in sala si trova nella situazione di chi sta compiendo una full immersion nel passato.
Tutto ciò all’interno di una ricostruzione che mostra, attraverso il personaggio di Saavedra, come la repressione fosse stata forte e come il regime fosse convinto che fosse sufficiente accusare qualsiasi avversario di ‘comunismo’ per poter vincere. Non manca però anche di sottolineare come tra i sostenitori del NO non fossero pochi quelli che non avevano compreso quanto fosse indispensabile impostare una campagna di comunicazione che andasse oltre la riproposizione delle pur gravissime colpe del dittatore per approdare a una proposta che parlasse di vita, di gioia, di speranza nel futuro e non di morte. E’ in questo ambito che il personaggio impersonato con grande understatement da Gael Garcia Bernal si trova a muoversi consapevole, inoltre, della difficoltà di contribuire alla riuscita di un fondamentale cambiamento del proprio Paese partendo dalle proprie basi di eccellente imbonitore. Pronto, una volta ottenuto l’esito sperato, a tornare a promuovere telenovelas.

 

Falso Movimento: CROCEVIA PER L’INFERNO di John McNaughton/a cura di F.F.Guzzi

Il nono appuntamento de ‘La Versione’, in programma domenica 17 febbraio alle ore 20.30, pone all’attenzione del pubblico di ‘Falso movimento’, una pellicola poco conosciuta, del regista John McNaughton(che più ricorderanno per la regia di “Henry, pioggia di sangue” in cui indagava, in modo davvero sorprendente e sconvolgente, il tema della violenza).
Con “Crocevia per l’inferno” (“Normal life” nel titolo originale), McNaugthon indaga invece la follia; quella vera e autentica, della instabile Pam, e quella indiretta e riflessa di Chris, poliziotto dai sani principi che affascinato dalla bellezza unica e travolgente di Pam, se ne innamora fino a sposarla.
Il film si sviluppa in due tronconi, in due fasi ben distinte e separate. Nella prima (breve, di trenta minuti), viene descritto l’incontro dei due, l’innamoramento (di Chris), il progetto di vita, il matrimonio. Nella seconda c’è la virata verso il tema che interessa al regista, ovvero la discesa negli inferi della follia, la quale tutto trascina e travolge dietro di sé, secondo uno schema/archetipo in cui il ‘più forte’ è sempre il folle. L’instabilità di Pam, infatti – a cui si associano la dipendenza dall’alcol e dalla droga – farà vacillare tutte le certezze del marito Chris, il quale, pur di tenere stretta a sé l’amata, rimetterà in discussione i suoi principi, precipitando in un’odissea di amore/disperazione, rapine, omicidi, in una parola: l’inferno.
La tematica non è nuova. Penso a Natural born killer (di Oliver Stone), a Una vita al massimo (di Tony Scott), ma soprattutto al capolavoro di Terrence Malick, La rabbia giovane; tutte pellicole in cui viene trattata la follia omicida vissuta in coppia. Crocevia per l’inferno, rispetto ai titoli citati, è però più asciutto ed essenziale; non c’è la spettacolarizzazione della violenza e della follia, non c’è un sovraccarico narrativo; e sta proprio in queste (mancate) componenti, la sua intrinseca forza. Senza fronzoli e capriole stilistiche, McNaughton consegna allo spettatore un quadro crudo, spietato, desolante e terribilmente vero, di una giovane e bella coppia, all’interno della quale l’elemento instabile e analogico spariglia le carte (la nevrosi scaccia la virtù), facendo tabula rasa dell’amore, della gioia, delle emozioni vere a cui aspira l’altro, il cui amore profondo – quando non riesce ad accettare la perdita o l’impossibilità di avere la persona amata – diventa un’avventura nella pervicace follia (anche Orfeo, il genio che commuoveva la natura con la bellezza del suo canto cercò di salvare Euridice dall’inferno, ma fallì per una debolezza finale; e la sua vita di predestinato all’ammirazione di tutti, proseguì verso una nuova caduta agli inferi: dopo la morte di Euridice prese ad odiare le donne ed il matrimonio e venne ucciso da donne Tracie che vollero punirlo per l’offesa).
Il film proposto prosegue nel percorso de ‘La Versione’ che dà spazio alla provincia americana (v. Lupo solitario) – Normal life è appunto un magnifico esempio di spaccato della provincia americana – alla follia (Drive, The Hurt Locker, Two lovers, e ancora, Lupo Solitario), alla alienazione (v. The Brown Bunny, Shame) e, più in generale, ad un approccio stilistico sempre essenziale, crudo, radicale e inesorabilmente (e, forse) fin troppo vero.
Crocevia per l’Inferno sembra un film minore, sconosciuto e poco acclamato, eppure è di una infinita potenza nel descrivere la lotta tra uomo e donna, bene e male, apollineo e dionisiaco, sogni di una vita migliore, fallimento e caduta in un mondo che è senza redenzione nè vincitori.

Federico Francesco Guzzi

“Con gli occhi della meraviglia”: un viaggio sensoriale nel cinema di Ron Fricke

Ron Fricke torna a stupirci 19 anni dopo l’uscita del film cult Baraka, e lo fa con questo Samsara in programma all’AcquarioBistrot venerdì 1 febbraio alle ore 21.00 con cui si inaugura una miniretrospettiva in collaborazione col cineforum Falso Movimento di Rovito dedicata al regista e direttore della fotografia statunitense, considerato un maestro della fotografia con tecnica time-lapse (fotogrammi ad intervalli di tempo superiori rispetto alla norma).
Come già avvenuto per il suo Baraka anche Samsara stordisce per la bellezza dell’immagine. È nuovamente la pellicola da 70mm a garantire il doppio della definizione rispetto ai normali film che popolano le nostre sale. La nitidezza è massima, i colori brillano come scintille e il contrasto magnifico. Ogni scena dona naturale profondità ai luoghi filmati con il risultato di una mimesi percettiva che sa scalzare senza rimpianti i nuovi fasti del cinema in 3D. Fricke mantiene così la bidimensionalità di ciò che non può essere che tale, assicurando una visione cristallina, scevra dalla quasi totalità di disturbi visivi affinché lo spettatore, pur consapevole d’essere di fronte a uno spettacolo cinematografico, possa sottomettersi ad esso e subire coscientemente la sacralità che il regista stesso vuole trasmettere.
Se in Baraka era il rapporto tra uomo e natura a essere indagato, in Samsara, come suggerisce il titolo stesso, è la circolarità della vita a catalizzare la carica comunicativa delle immagini. Dalla vita, alla morte, alla rinascita.
«La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna».
Così sentenzia il Sapiente in Qohèlet 3, 19-20 e così inscena Fricke che dalla polvere del deserto sahariano ritorna alla polvere del deserto sahariano e dalla polvere colorata di un mandala ritorna alla polvere colorata di un mandala.
Le musiche, appositamente create, sostengono perfettamente le immagini senza prevaricarle e al contempo senza sottostarne passivamente. Da questa interdipendenza tra immagine e suono ne emerge vincente assoluto un montaggio ineguagliabile, fantasticamente attento a trasformare con mimesi puntualissima un ambiente in un altro, un oggetto in un altro, offrendo visivamente allo spettatore la vera idea di trasformazione delle cose in un unicum che muta tutto, non mutando nulla.
Samsara è dunque il nuovo capolavoro di Ron Fricke, riprendendo cinematograficamente quel medesimo discorso che da quasi vent’anni attendeva d’essere rinsaldato e integrato.

Falso Movimento presenta Ombre Sonore #3: LA VOCE STRATOS

Oggi, 29 gennaio alle ore 20.30, presso il teatro comunale di Rovito, verra’ proiettato La voce Stratos, film-documentario sulla vita e sulla figura artistica di Demetrio Stratos. Introduce Ugo G. Caruso.

A più di 25 anni dalla sua morte la voce di Stratos continua a suscitare entusiasmi ed emozioni. Il corpus del suo lavoro mostra un’eterogeneità unica, estendendosi dai territori della musica commerciale a quelli del rock, del jazz, della musica contemporanea e dell’avanguardia più radicale, sempre a livelli insuperati. Per estensione ed intensità il carattere del suo lavoro assume l’inafferrabilità del mito, mito che egli realmente è stato per quegli anni, dei quali la sua voce rappresentava al massimo grado la volontà di cambiamento, di creazione del nuovo e di distruzione del dogma.
Demetrio Stratos nasce in Egitto da genitori greci e arriva in Italia negli anni ’60, per iscriversi all’Università. Inizia a cantare – per caso, si dirà – e diventa la voce dei Ribelli, gruppo di punta del “beat italiano”: un cantante greco!
Negli anni ’70 è tra i fondatori degli Area, uno dei più provocatori ed innovativi gruppi di pop sperimentale. Gli Area portano la ricerca musicale direttamente nelle strade e nelle manifestazioni oltre che su disco e nei concerti. Le loro influenze spaziano dal rock al jazz alla musica contemporanea, dalla musica etnica all’elettronica. Un salto quantico, per un cantante-per-caso di soul e rhytm’n’blues.
A partire dal lavoro sperimentale con gli Area, parallelamente ad esso, Stratos inizia a studiare la voce come puro strumento musicale e sonoro, realizza dischi per sola voce e lavora con artisti del calibro di John Cage. Le registrazioni e le misurazioni effettuate nei Centri di Fonologia testimoniano che oltre ad avere una gamma di esmissione amplissima ha la capacità di emettere due e anche tre suoni di frequenza diversa in contemporanea.
Le sue ricerche rimangono feconde per chi si occupa della voce come strumento musicale, le sue sperimentazioni insuperate. La ricerca di Stratos sulla voce ha segnato un punto di non ritorno nell’esplorazione della voce umana come strumento musicale, nell’abbandono del linguaggio verbale come forma unica e privilegiata di espressione musicale legata alla voce.
Nel marzo ’79 Demetrio viene ricoverato dapprima a Milano poi al Memorial Hospital di New York per una grave forma di aplasia midollare. Demetrio Stratos muore a New York il 13 giugno del 1979, proprio alla vigilia di un concerto organizzato per raccogliere fondi per le costose cure.
Il concerto all’Arena civica si tramutò in un colossale tributo all’artista e all’uomo. Sul palco si alternarono un centinaio di musicisti di fronte ad un pubblico di oltre 60.000 spettatori. Un pubblico di massa per un artista che non era mai stato “di massa”.
Il film è ulteriormente arricchito da registrazioni vocali inedite di Demetrio Stratos, gentilmente concesse per il documentario da Claudio Rocchi, filmini super8 inediti dei Ribelli forniti da Gianni Dell’Aglio e dalle foto di Silvia Lelli e Roberto Casotti.

Falso Movimento XIX/2012.2013: IO SONO LI di Andrea Segre

Mercoledì, 15 gennaio alle ore 20,30, presso il Teatro Comunale di Rovito, verrà proiettato il film IO SONO LI di Andrea Segre, con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston.

Miracolo in laguna, miracoli del cinema – L’argomento del primo film di finzione di Andrea Segre, fin qui ottimo documentarista, sta in poche righe: giovane immigrata cinese vive uno strano, casto e impossibile amore con un anziano pescatore slavo di stanza a Chioggia, pure lui immigrato ma ormai assimilato a quel microcosmo durissimo. Il film dura 96 minuti e li vale tutti. A differenza di lavori che vantano sceneggiature alte come l’elenco del telefono e dopo 20 minuti sono già spompati. Questione di tempi, di volti, di luci, di atmosfere. In breve di densità. E di quella semplicissima «magia» che si chiama non detto. Se Io sono Li ci incanta, pur sapendo (quasi) tutto dall’inizio, è perché gli attori sono meravigliosi, in testa Zhao Tao e Rade Serbe Dzija, dunque esprimono mille sentimenti muovendo si e no due muscoli dei viso. E perché Segre, con la complicità determinante di Luca Bigazzi, estrae dalla laguna un piccolo poema per immagini (con assoluta sobrietà, senza mai cadere nel pittoresco). Dosando con accortezza le parole e le poche scene madri per dare vita a un sottotesto (i due poeti, il gioco di rimandi fra la Cina e Chioggia, l’amore per il figlio lontano) semplicissimo e struggente. Un piccolo miracolo d’altri tempi. Che va al cuore del nostro presente. Fabio Ferzetti – Il Messaggero

 

 

Falso Movimento XVIII/2012.2013: Pietà di Kim Ki-duk

Oggi, 15 gennaio alle ore 20,30, presso il Teatro Comunale di Rovito, verrà proiettato il film Pietà di Kim Ki-duk.

Gran parte delle (perlopiù sterili) polemiche che hanno fatto seguito all’ultima Mostra del Cinema di Venezia hanno ottenuto un effetto spiacevole, quello di spostare l’attenzione dall’effettivo valore del vincitore. Vale la pena di ribadirlo: Pietà è uno straordinario, meritatissimo Leone d’Oro, arrivato giusto con qualche anno di ritardo dopo la seccante sequela di argenti nei festival di mezzo mondo; è il film che chiude la lunga crisi creativa e psicologica di Kim, quella che ha prodotto lo sperimentale, autobiografico Arirang; ed è quello che vede tornare nel pieno della sua forma, al suo diciottesimo titolo, uno dei più grandi registi asiatici in attività. Ambientato in un mondo letteralmente inghiottito dal capitalismo, dove i palazzi moderni incombono sui quartieri ai margini della società e in cui il denaro è “l’inizio e la fine di tutte le cose: amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia, vendetta”, Pietà è una parabola sconvolgente, insieme poetica e terrena, violenta e definitivamente umana, sulle conseguenze devastanti dell’avidità che utilizza il noto meccanismo narrativo, vorticoso e inarrestabile, della vendetta per parlare di dolore e sacrificio in un mondo privato della misericordia, trovando in Jo Min-Soo l’interprete formidabile di un castigo che nella sua estrema determinazione risuona quasi come l’ultimo grido, l’ultimo pianto soffocato di un’umanità sconfitta. Un grande racconto morale in cui ritroviamo anche il gusto geniale del regista per la composizione visiva; più in generale, una clamorosa potenza espressiva: e il film si chiude con una delle immagini simboliche più forti di tutto il portentoso, sbalorditivo, imperdibile cinema di Kim Ki-duk.

 

 

 

Falso Movimento presenta Shame di Steve McQuenn

In questo ottavo incontro de ‘La Versione’, di apertura del nuovo anno – in linea con la politica di ‘Falso movimento’ tesa a non appiattirsi su temi concilianti, puntando invece a porre interrogativi (più che a dare risposte) – ho pensato di osare… e così di sottoporre all’attenzione del pubblico del cineforum (sempre interessato e sensibile ai temi forti e disturbanti) una pellicola che non lascerà indifferenti, e della quale nella scorsa stagione (in talk show e salotti della tv generalista) se n’ è parlato in maniera fuorviante.

Si tratta di Shame – secondo lungometraggio del regista Stevie McQueen – il quale non è un film scandalo sul sesso (semmai, paradossalmente, sulla sua mancanza) , e non è neanche un film sul narcisismo del trentenne bello e ricco, bensì è un film sull’assenza, sulla solitudine, la disaffezione, l’alienazione.

Il regista, anziché spiegare le mancate emozioni (come farebbe un presuntuso maestrino), ci fa invece vivere, in una New York patinata ma sempre luminosa e affascinante, il senso di vuoto e di mancanza del protagonista, attraverso la forza e potenza visiva delle immagini e della fotografia, in una parola: il cinema (a cui si associano le incantevoli e consequenziali Variazioni di Goldberg di J.S.Bach).

L’attore feticcio di McQuenn (un perfetto e alienato Michael Fassbender, fratello putativo di Bud Clay di The Brown Bunny, incontrato nel nostro primo appuntamento de ‘La Versione’) è Brandon, un giovane e benestante, con un lavoro trendy, un super-attico a Manatthan; veste bene, è bello e affascinante, fa jogging, frequenta ristoranti e locali di lusso.

L’atmosfera (adattata ai giorni d’oggi) sembra quella di “American Psycho” dello scrittore Bret Easton Ellis , in cui Paul è uno yuppie, che veste Armani, va in palestra, si cura con creme, ma è alienato e solo.

I tempi sono cambiati, è l’era di internet, che da formidabile strumento di comunicazione e conoscenza, è diventato, specularmente, un mezzo di alienazione, che Brandon sfrutta appieno, passando ore (sia a casa che al lavoro) su siti porno, scaricando di tutto e di più.

Il suo mondo è caratterizzato dal sesso sui siti; e quando passa dal virtuale al ‘reale’ lo fa con delle prostitute o con rapporti occasionali.

McQueen ci consegna dunque l’archetipo dell’individuo post-moderno, il quale, privo di basi culturali solide (Brandon infatti non si interessa a nulla) e di fiducia nel mondo, è incapace di vivere sentimenti reali.

Brandon è appunto uno zombie, che vive la sessualità nel suo aspetto più tragico, in un interscambio tra virtuale e reale volto a determinare solo disaffezione, e mai appagamento (sia fisico sia spirituale); vaga per la città, agisce meccanicamente, non dialoga, non comunica, non ha amici, nè interessi; esemplificativa è la scena di mancato sesso con una affascinante collega: non essendo virtuale e non essendo una prostituta, c’è la possibilità/rischio di aprirsi all’altro… e Brandon quindi fugge, così come fugge dal rapporto con la sorella Sissy (la Carey Mulligan di Drive, la ricordate?), che irrompe nella sua vita, chiedendo ospitalità.

Ma anche con la sorella, Brandon è incapace di intrattenere un rapporto reale; la rifiuta, le ripete che non può prendersene cura, la richiama alle sue responsabilità (pur sapendo che lui stesso non si è assunto la responsabilità più importante: affrontare l’esistenza)

L’approccio dei due è nettamente differente; ad un passato ingombrante (di cui non è dato sapere) rispondono, l’uno, attraverso un tenersi tutto dentro, che sfocia nel silenzio e in un sesso compulsivo, alienante e tutt’altro che poetico; l’altra per mezzo di gesti forti, grida, richieste esplicite di aiuto e comprensione.

I mondi dei due fratelli si toccano, ma non si incontrano; esploderanno entrambi, l’uno in senso fisico, l’altro sotto il profilo interiore (esemplificativa è una delle scene finali in cui l’espressione di Brandon, in un menage a troi sulle note di Bach, è di disperazione, anziché di piacere e godimento).

Shame – come anticipato – non è un film sul sesso.

E’ invece una pellicola sulla solitudine e sulla impossibilità di provare sentimenti; i movimenti meccanici dei rapporti sessuali, la fissazione per i siti porno e per i rapporti occasionali, sono solo un veicolo, non il tema (la disaffezione); tema che procede incessantemente e inesorabilmente – per mezzo del pedinamento dei gesti piatti e routinari di Brandon nei gironi infernali dello squallore – verso il suo epilogo: la doppia esplosione (di fratello e sorella), spunto forse (e si spera), di un nuovo inizio che magari cancellerà la vergogna (Shame) di non essere capaci di provare emozioni e sentimenti.

 

FalsoMovimento XVII/2012.2013: HOLY MOTORS Di Leos Carax

Oggi, 2 gennaio 2013, presso il Teatro Comunale di Rovito, verra’ proiettato il film, inedito in Italia, HOLY MOTORS Di Leos Carax.

Ventiquattro ore nella vita di Monsieur Oscar (Denis Lavant), un personaggio molto particolare che viaggia da una vita all’altra, cambiando in continuazione identità. A capo di un’industria, assassino, mendicante, mostro, padre di famiglia: ora è un uomo, ora una donna, un giovane o un vecchio. Vive così di continuo vite in prestito, esistenze che non gli appartengono. Costretto a stare da solo, l’unica persona che gli è vicino è Céline, l’autista bionda della limousine che lo porta da un posto all’altro per le vie di Parigi. Come un assassino che si muove consapevole da un colpo all’altro, è alla ricerca di un bel gesto da compiere, di una misteriosa forza guida, delle donne e dei fantasmi di vite passate.
Enfant prodige del cinema francese negli anni Ottanta, ma noto al pubblico soprattutto per “Gli amanti del Pont-Neuf” diretto nel 1991, Leos Carax non faceva un film dalla fine degli anni Novanta. Nell’ultima edizione del festival di Cannes il grande ritorno con questo “Holy Motors”, per molti il film da ricordare, il vincitore “morale” della kermesse cinematografica.
Difficile parlare di questo film bizzarro quanto intrigante e ricco anche di trovate visive affascinanti (per esempio la parte relativa all’incarico di Oscar nel motion capture). Un viaggio metaforico nella vita, nel ruolo di attore, nel cinema. Diverse chiavi di letture che si possono dare a un film che non si preoccupa di dare precise risposte.
Protagonista non poteva che essere l’attore feticcio del regista: Denis Lavant. Straordinario nell’alternarsi di un “appuntamento” a un altro, nella trasformazione interiore e fisica imposta dal viaggio nella vita degli altri. Un film folle, dove bisogna provare a farsi trasportare da una logica onirica, surreale per non rimanerne lontani e apprezzarne la stravagante bellezza.
Nel cast, oltre a Edith Scob (l’assistente) e Michel Piccoli (che interpreta quello che sembra essere il capo di Oscar), figurano anche Kilye Minogue ed Eva Mendes.

http://youtu.be/yQJrVEgOPRk

FalsoMovimento Evento Speciale: NOTTE SCONFINATA. Una maratona Ai confini della realtà.

“C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce. È senza limiti come l’infinito, è senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi Ai confini della realtà”.
La voce fuori campo sembrava recitare una formula magica mentre da una nebulosa reticolare si snodavano paesaggi irreali e metafisici puntualmente culminanti in un cielo stellato oltre il quale non sapevamo se ad attenderci fossero meravigliose scoperte o terrificanti minacce.
Nei primi anni sessanta, il sabato italiano prevedeva in seconda serata, dopo il consueto varietà, un appuntamento attesissimo ed irrinunciabile, quello con la serie americana Ai confini della realtà, probabilmente la migliore di sempre, di certo quella divenuta più cult tra cineasti, cinefili ed appassionati di fantascienza. La sua fortuna duratura è dovuta a quella generazione che per prima è cresciuta con la televisione, ovvero quei bambini che riuscivano a rimanere svegli fino a tardi, per eccezionale concessione dei genitori, rimanendone indelebilmente affascinati ed atterriti.
Quanti volessero riprovare quelle emozioni indimenticabili, un blend sapiente di irrefrenabile curiosità e stupefazione mista ad una angoscia sottile e persistente, potranno tuffarsi in una full immersion accorrendo all’imperdibile appuntamento fissato per venerdì 28, a partire dalle ore 16, al Teatro Comunale di Rovito e intitolato per l‘appunto “Notte sconfinata. Una maratona Ai confini della realtà” a cura di Ugo G. Caruso e Lucio Montera. La kermesse, ospitata dal cineforum Falso Movimento, prevede una selezione di quattordici episodi per sette ore di proiezione realizzata dal Movimento Telesaudadista, un sodalizio culturale che ha sede a Roma e che ha come fine la riproposizione e l’approfondimento del vecchio patrimonio televisivo degli anni del bianco e nero. Già autori di una lunga e apprezzata maratona su Carosello, replicata proprio a Rovito l’anno scorso, Caruso e Montera hanno compiuto un’operazione filologica, certosina e raffinata con cui intendono ripresentare ai loro spettatori un’antologia del serial nella versione originale sottotitolata in italiano, reintegrata delle spiritose presentazioni del suo ideatore, Rod Serling, a suo tempo tagliate dai dirigenti Rai nella versione italiana, nonché dei trailer degli altri programmi trasmessi dal network CBS, delle anticipazioni del prossimo episodio e finanche gli spot pubblicitari che come poche altre cose danno un’idea esatta dell’America di quegli anni. Sarà dunque come fare un salto all’indietro nel tempo, tornare ad un momento cruciale della società americana, quella a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e la prima metà dei sessanta, l’epoca d’oro della tivvù americana, oltre che un periodo tante volte raccontato dalla letteratura e dal cinema.
La serie il cui titolo originale era The Twilight Zone – un’espressione in uso nel gergo aeronautico per intendere il momento che precede l’atterraggio in cui l’orizzonte svanisce – fu ideata appunto dallo scrittore e produttore televisivo Rod Serling, un ebreo americano di idee spiccatamente liberal che si avvalse di un pool di autori validi ed affiatati quali Richard Matheson, Charles Beaumont, George Clayton Johnson, Earl Hamner Jr. e Montgomery Pittman. Infatti nei 156 episodi trasmessi nell’arco di cinque stagioni sono condensate tutte le ansie, le inquietudini, le manie della società americana dell’epoca: la guerra fredda, la paura della bomba all’idrogeno, le ferite della recente guerra di Corea, il maccartismo, le insidie di un consumismo ogni giorno più invadente, i limiti dell’uomo di fronte ad una scienza sempre più pervasiva, le incognite della corsa allo spazio, gli UFO, l’esistenza di altre vite oltre la nostra galassia, i salti spazio-temporali, i cambi di dimensione. I vari episodi, nella forma del racconto breve, narrano storie verosimili e proprio per questo inquietanti in cui la condizione umana viene spesso rappresentata da un’angolazione paradossale e grottesca.
Nella serie compaiono inoltre celebri star del cinema accanto ad attori ed attrici di belle speranze che lo sarebbero diventati di lì a poco: Buster Keaton, Ida Lupino, Richard Conte, Lee Marvin, Steve Cochran, Peter Falk, Robert Redford, Vera Miles, Burt Reynolds, Charles Bronson, Martin Landau, Denis Hopper, Telly Savalas e perfino Leonard Nimoy e William Shatner, futuri interpreti di Star Trek. Il record delle presenze spetta di diritto al bravissimo Burgess Meredith, protagonista dell’episodio più ricordato, quel Tempo di leggere che decretò l’improvvisa impennata della serie negli ascolti, fissandone la cifra stilistica originale nuova e soprattutto inconsueta.
Le emozioni non mancheranno di certo, tanto più che come garantiscono i curatori, ciascuno finirà col ritrovare in un episodio o nell’altro il proprio incubo ricorrente, la causa di ansie e fobie e comprenderà qualcosa in più di se stesso rintracciandone l’origine proprio Ai confini della realtà.

La maratona sarà divisa in due tranches intervallate da un break di circa un’ora in cui i partecipanti potranno rifocillarsi presso il punto ristoro.

FalsoMovimento XV/2012.2013: Incontro con Giulia Merenda/proiezione di COME POSSO di Giulia Merenda.

Negli anni ’70, nei fumetti, un mestiere da maschi, entrava di prepotenza Cecilia Capuana, siciliana trapiantata a Roma e poi a Parigi. Il cineforum Falso Movimento ha il piacere di presentare il documentario della sceneggiatrice e film-maker cosentina Giulia Merenda Come Posso che racconta il percorso artistico e umano di una donna le cui tavole a fumetti hanno attraversato gli anni settanta e ottanta affrontando le urgenze del suo tempo. L’appuntamento è in programma domenica 23 dicembre alle ore 20.30 a Rovito nei locali del Teatro Comunale. Sarà presente l’autrice, Giulia Merenda, che prima della proiezione converserà con Ugo G. Caruso, storico del cinema, già critico di fumetti del quotidiano L’Unità per oltre dieci anni a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta.
Il documentario sarà anche un viaggio nell’epoca d’oro del fumetto italiano, come testimonia la voce di Tanino Liberatore, celebre disegnatore di Ranxerox, tra i protagonisti di quegli anni, e anche lui ora a Parigi.
E poi il capitolo sul fumetto francese, con Jean Pierre Dionnet, sceneggiatore di bandes desinées, direttore ed editore nel 1975 della rivista di Moebius, Métal Hurlant, di cui racconta la straordinaria vicenda, a suggellare il ricordo di un momento irripetibile di fermento e cultura.
I fumetti di Cecilia Capuana colpiscono perché espressione di un immaginario iconoclasta e irrequieto che rappresenta e critica la sessualità, i segni del potere e il femminile. Le sue tavole recuperano il disegno classico dal rinascimento al simbolismo di Blake e De Chirico, e approdano, proprio, nelle pagine di Metàl Hurlant, la rivoluzionaria rivista francese che pubblicò dei grandi fumettisti italiani una sola donna: Lei. Lei che ha vissuto in prima persona le istanze del femminismo, di quel femminismo dissacrante che ha dato, poi, vita alla rivista francese Ah!Nana e che ritroviamo in AlterLinus, alla ricerca di una sessualità non confezionata e di una maternità anche artistica.
I suoi fumetti danno vita con grande ironia a un immaginario, ricco, di rottura, che né il cinema né la letteratura in Italia hanno evocato con tanta potenza.
Quello di Cecilia Capuana è un fumetto imparentato con il cinema per le citazioni di cui si nutre, perché lei, fa da ponte fra Moebius e Fellini, per la stretta collaborazione con Zapponi che sceneggiava i sogni in celluloide dello stesso Fellini. Della sua contiguità con quel mondo è testimone Mario Monicelli che con la Capuana intreccia un lungo dialogo rievocando un’amicizia e inevitabilmente raccontando di sé in una delle sue ultime apparizioni.
Come Posso è prodotto da Giulia Merenda e Silvia Giulietta per iFrame.