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Guugliu nuuvu, considerazioni sull’olio d’oliva a Tarsia

Sono diversi i proverbi che hanno per tema l’Olio d’oliva; proviamo a ricordarne qualcuno…

I gaviti pi cogli i fichi e ri vasci pi cogli alivi. (Le donne alte per la raccolta dei fichi e quelle basse per la raccolta delle olive)

Vinu vijcchiu e guugliu nuuvu (vino vecchio e olio nuovo)

L’antico proverbio suggerisce di consumare l’olio nell’arco di un anno per gustarne intatte tutte le proprietà organolettiche.

Secondo le più diffuse credenze popolari, farlo cadere a terra porterebbe sfortuna, ”malagurio”, dicevano a Tarsia, cioè segno di cattivi presagi. Tutto ciò si può spiegare se consideriamo la preziosità dell’olio per le generazioni passate e il danno arrecato quando si sprecava o andava perso. L’olio, infatti, è da sempre considerato l’oro giallo della società contadina, il re della cucina, il condimento principale per ogni pietanza a iniziare dalle prime pappe tra cui il pan cotto con l’alloro dato ai neonati, essenziale per gustose fritture, consumato crudo sulle zuppe di legumi e fresche insalate.

Un filo di olio sul pane fatto in casa, “pani e guugliu” costituiva, invece, una merenda deliziosa e nutriente per i bambini dei meno abbienti. Molto usato anche per la conservazione di ortaggi come melanzane, funghi, pomodori secchi, ma anche salumi e persino i fiori di sambuco. Infine veniva bruciato in apposite lampade per produrre luce e rappresentava anche il rimedio per piccoli inconvenienti:  ragadi, rossori, pruriti. Messo in infusione con bucce tritate di agrumi come il cedro piretto,  diveniva cosmesi per profumare e lisciare i capelli.

In passato la produzione dell’olio è stata per Tarsia fonte primarie dell’economia, basata esclusivamente sull’agricoltura. Intorno al centro urbano colli e vallate abbondavano di piccoli ed estesi uliveti e proprio a ridosso del paese il territorio era denominato a“Liveddra, di proprietà della famiglia Curti e Gabrielli. Il toponimo richiama la grande estensione di un tempo di piante di ulivi, oggi via Olivella, per lo più edificata e perfettamente integrata nell’assetto urbano. Noti anche altri territori per le coltivazioni di olive come  “U parchi i Renne” della famiglia Rende, le Conche Galasso dei Rossi, Alboreto dei Severino, U parchi i Cavucci, Camigliano, il Feudo dei Monaci, Abenante, ecc.

Nel periodo a cavallo tra il 700 e 800, la produzione di olive doveva essere  molto abbondante considerando che, per l’estrazione dell’olio esistevano sette trappeti, (frantoi) di proprietà di ricchi massari e grandi proprietari terrieri:  Nicola Bovino alla Torretta poi passato a Curti; Pier Paolo Alessio, alla Piazza; Ferdinando Vivacqua allo Ulmo; Fabrizio Laurelli al Casalino; Giuseppe Petrellis all’Ulmo;  Alessandro Focaracci alla Piazza; Rossi al Cancello.

La raccolta delle olive iniziava a Novembre, quando le olive erano mature e nere , ed era affidata quasi esclusivamente alle donne, mentre gli uomini i “Scutulaturi” con lunghe canne scuotevano i rami per far cadere le olive, prontamente raccolte dalle donne. La mattina all’alba i folti gruppi di donne, assunte per la raccolta, la cosiddetta “partita delle olive”, si muovevano dalle loro umili case a piedi, per raggiungere gli uliveti dei padroni, a volte molto distanti  con il cesto, “u panaru” (fatto di  canne intrecciate) al braccio, dentro al quale portavano un frugale pasto da consumare nella breve pausa. La loro giornata era lunga e faticosa con la schiena piegata e con le mani nella fredda terra, sorvegliate dai “guardiani” (gli uomini del padrone) e spronate ad essere più svelte. Ma quello che toccava alle raccoglitrici era solo la quarta parte del raccolto, da cui deriva il termine “ara partita”, cioè lavoro pagato con una parte del raccolto. La molitura delle olive avveniva la sera al frantoio, con la macina di pietra fatto girare da asini o cavalli e dove avveniva il rito della degustazione dell’olio col pane tostato al fuoco (a frisa ‘mpusa all’ugliu).Le donne usavano portare l’olio a casa con contenitori di terracotta chiamati “trantine”  e poi conservato nelle “ciarre” di terracotta o “ciarruni” in ferro mentre “l’ogliarulu” serviva  per dosare l’olio in cucina. Nella zona di Tarsia si potevano trovare diverse qualità di olive per l’olio tra cui “marineddre”, “ruggianise” e “cumugnani”.

Emilia Sannuto