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[#NerdReview] Live-action Il Re Leone: flop o nostalgia?

A 25 anni di distanza dall’originale animato, Il Re Leone è tornato al cinema vestito da live-action. Avrà convinto?

Da quando mamma Disney si è lanciata nel genere del live-action, riecheggia una domanda: cosa aspettarsi da quello che si va a vedere? Qualcosa di nuovo? Un fedele adattamento di ciò che già conosciamo? La risposta non è mai universale. Tuttavia, più live-action vengono sfornati, più appare chiaro che – anche per per guadagnarci, certo – ciò a cui si mira è sfondare la barriera emozionale di chi guarda. A qualunque costo (semicit. involontaria, giuro). Ciò vale soprattutto per Il Re Leone.

IL PASSATO PUÒ FARE MALE

Era il 1994 quando noi “grandi” di oggi e piccini di allora abbiamo conosciuto Simba, Mufasa e Scar. Abbiamo pianto alla morte del Re della Savana e ruggito di gioia quando un nuovo sovrano si è affacciato dalla Rupe dei Re. Sono passati tanti anni e, in preda alla mania selvaggia del rifacimento in live-action, Disney ha pensato bene di farci rivivere (e traumatizzare un’intera nuova generazione) un rito di iniziazione nel mondo degli adulti in maniera crudele: la perdita di un genitore, la fine dell’infanzia per giungere ad una forte crescita personale.

Guardando il cartone con occhi da bambini, forse, non avremo avvertito appieno il carico di emozioni che una semplice pellicola d’animazione portava con sé, ma questa è la filosofia Disney: “divertiti con questo leoncino ingenuo e un po’ goffo ora che sei bambino, poi da adulto imparerai la lezione“. E forse Disney proprio questo cercava: risvegliare nel bambino ormai cresciuto quelle stesse emozioni maturate assieme a lui.

Ma un live-action con animali parlanti riesce davvero a mirare al cuore?

Conosciamo tutti la storia de Il Re Leone e mente chi almeno una volta non si è commosso di fronte al piccolo Simba che cerca invano di svegliare Mufasa dal suo sonno di morte. Ciò che, però, davvero aveva colpito nel classico d’animazione di 25 anni fa, oltre alla storia di formazione narrata e agli insegnamenti che ha donato, è l’intensa espressività degli animali della savana. Animali, in tutto e per tutto ferini, che ridono e si commuovono come fossero degli esseri umani, dotati di capacità di parola e di un volto emozionalmente antropomorfo che sa esprimere la gioia e il dolore, la paura, il coraggio e la brama.

NATGEO E ANIMALI PARLANTI

Il Re Leone non è stato il primo classico Disney con protagonisti degli animali parlanti. Chiunque, nell’approcciarsi alla pellicola, si sarà chiesto quanto il realismo della rappresentazione potesse inficiare l’emozione che invece tradisce uno sguardo “umano”. In una pellicola di questo tipo, realizzata con la tecnica della computer grafica e che puntava a una rappresentazione più realistica possibile, non ci si poteva aspettare di vedere il sopracciglio sollevato di Scar in segno di disapprovazione o l’espressione corrucciata di Simba nel sentirsi dire di essere solo un cucciolo.

Il “punto debole” della pellicola, se così vogliamo definirlo, è proprio questo: l’espressione degli animali è così “dal vero” che, per quanto si possano scorgere un accenno di sorriso o uno sguardo famelico di chi è pronto ad agguantare la preda dall’ombra, perde in carica emotiva e non riesce a raggiungere il risultato del classico animato. Sì, Il Re Leone versione 2019 è un mirabile lavoro di computer grafica. Ogni scena del film, ogni animale della savana, dal primo pelo all’ultima zanna, è realizzato digitalmente in modo così “naturalistico” da sembrare vero.

Infatti, quanti di voi sono riusciti a riconoscere l’unica inquadratura “dal vivo” del film? Il campo lunghissimo appena all’inizio, col tramonto che cala sulla savana africana, in cui non appaiono animali: ecco, questa è l’unica ripresa vera e propria. Tutto ciò che vediamo da questo punto in poi è creato digitalmente a regola d’arte, così bene che, se non fosse per il fatto che gli animali effettivamente parlano, sembrerebbe di guardare un documentario di National Geographic. Chi è cresciuto col cartone animato ha azzardato senz’altro un paragone e, probabilmente, un vago senso d’incompiuto sarà rimasto appena sotto pelle ma… come non sentire un brivido lungo la schiena quando Rafiki solleva in alto quel cucciolo di leone appena nato e le musiche che tanto amiamo risuonano nelle orecchie?

TRA FEDELTÀ E IPERREALISMO

Tuttavia, accanto ai nostalgici che hanno accolto la pellicola con favore, c’è chi ha puntato il dito contro la non proprio sottile operazione commerciale messa in atto da un film che è l’esatta copia di un classico che non aveva bisogno di revisioni o rimodernamenti in altre tecniche. Più volte, prima dell’uscita, il regista Jon Favreau si è trovato a dover smontare le polemiche. Questa versione de Il Re Leone è, a tutti gli effetti, un adattamento fedele rispetto a quella del 1994, ma parlare di copia carbone sarebbe riduttivo. Senza entrare nel merito di se e come i live-action debbano prestare fedeltà rispetto agli originali, i cambiamenti ci sono stati, siano essi narrativi o stilistici.

La scelta di realizzare la pellicola con la tecnica dell’animazione digitale fotorealistica e l’esigenza di ricercare il realismo ha determinato dei piccoli scarti nella narrazione e, quindi, l’eliminazione di alcune scene del cartone: si è notata l’assenza del fantasma di Mufasa, un elemento che viene accennato ma non esplicitamente mostrato. E qui ci ricolleghiamo alla questione della mancanza di espressività: privilegiando il realismo, gli animali sono stati privati delle loro caratteristiche antropomorfe e ciò ha comportato un ridimensionamento della loro carica comica fisica nonché delle modifiche a livello di look. E a tutti sarà saltato agli occhi come lo Scar del live-action sia diverso rispetto a quello originale, ma comunque facilmente distinguibile da Mufasa, non solo per la cicatrice ma anche per la sua magrezza e la quantità esigua del pelo della criniera. Allo stesso modo, si è sentita la mancanza del bastone di Rafiki, che compare solo sul finale, e del suo famoso discorso a Simba sull’importanza dell’imparare dal passato.

GAG E RIFLESSIONI: UN DELICATO EQUILIBRIO

Oltre che da modifiche a livello stilistico, la pellicola è stata interessata da alcuni aggiornamenti in chiave contemporanea. Si è voluta ampliare una parentesi “etica” che ben si sposa con la politica Disney e con i nostri tempi. Ad esempio, il facocero Pumbaa diviene pretesto per accennare il problema del body shaming: è infatti definito in maniera dispregiativa non “maiale” bensì “ciccione”.

Certo, rimane l’ironia di fondo che aveva già caratterizzato il film originale, ma a questa si associa, più forte, un impianto “riflessivo”, fatto di veloci momenti che non inquinano la godibilità spensierata della pellicola. Lo stesso aggiornamento riguarda i villain: le motivazioni dietro le azioni di Scar sono approfondite, venando la semplice invidia di una vera e propria brama di potere, che lo aveva già indotto a sfidare apertamente il fratello per il trono. Le iene perdono un po’ della loro comicità nell’essere dei semplici galoppini al seguito di Scar, acquistando un ruolo più serioso e meno sciocco.

Sempre nell’ottica di una strizzata d’occhio alla contemporaneità, è stata aggiunta una scena che rivela la volontà di dare un maggiore spazio ai personaggi femminili, non sottomesse ma leonesse che ridono in faccia al pericolo. Da qui, la fuga della giovane Nala dopo aver visto Scar maltrattare Sarabi e la resistenza di quest’ultima alle avances del nuovo Re usurpatore (un elementro tratto, per altro, dallo spettacolo teatrale, mitigando però la scena delle molestie). Inoltre, sul finale è proprio la compagna di Mufasa a intuire che è stato il cognato a determinare la morte del marito. Molto carina la scena metacinematografica in cui, invece di imbastire il balletto per distrarre le iene, il suricata Timon si mette a parlare in francese improvvisando Stia con noi e omaggiando, così, La Bella e la Bestia.

VECCHIE MELODIE

Come per gli altri live-action realizzati da Disney, anche per Il Re Leone si è scelto di adottare le canzoni originali. Addirittura, nel caso de Il cerchio della vita è stato mantenuto in parte l’audio del 1994, cioè la strofa introduttiva in zulu cantata da Lebo M., che affiancò a quel tempo Hans Zimmer per quel che riguardava la componente africana delle musiche.

Tuttavia, ciò non ha impedito di porre mano ad alcuni brani, riarrangiandoli: è il caso, ad esempio, di Hakuna Matata, in cui il pezzo sui problemi intestinali di Pumbaa non è stato simpaticamente censurato da Timon. Ancora, Il Leone si è addormentato è stata allungata per mostrare in scena altri animali della foresta in cui vivono il facocero e il suricato e un rimaneggiamento è toccato a Sarò Re, da una parte modificando la parte del testo in cui Scar insulta le “vuote espressioni” delle iene, dall’altra per esigenze di fotorealismo nella rappresentazione degli animali – cosa che, del resto, ha comportato il ridimensionamento degli altri inserti musicali -, escludendo, così, anche la rappresentazione squadrista delle iene e la volontà totalitarista di Scar.

Due nuove canzoni sono presenti: Quando il destino chiamerà, cantata in originale da Beyoncé, che accompagna la scena in cui Nala e Simba tornano ad affrontare Scar, e Never too late, scritta e cantata da Elton John (che firmò le canzoni nel 1994), in corrispondenza dei titoli di coda.

… E VOCI NUOVE

Quanto al doppiaggio, le voci sono state rinnovate. A interpretare i due protagonisti, nella versione adulta, compaiono i cantanti Marco Mengoni ed Elisa, cui sono state affidate non soltanto le parti cantate ma anche quelle parlate. Una scelta particolare, per alcuni discutibile, quella di affidare il lavoro a due doppiatori non professionisti. Del resto, per quanto l’impegno profuso sia comunque apprezzabile, l’orecchio ha percepito la loro incertezza.

Al contrario, il lavoro di Mengoni ed Elisa nelle parti cantate è stato eccellente: la loro versione di L’amore è nell’aria stasera è bella quanto l’originale, forse perfino di più. Ottimo il lavoro, nel doppiaggio e nel canto, di Edoardo Leo e Stefano Fresi, già rodata coppia cinematografica, rispettivamente nei ruoli di Timon e Pumbaa. Menzione d’onore, sebbene scontata, a LucaWard che con la sua voce roca assai riconoscibile ha trasmesso la saggia profondità di Mufasa. Infine, un plauso a Massimo Popolizio ( l’Avada Kedavra di Voldemort vi dice nulla?) che col suo timbro graffiante ha ha reso perfettamente l’insinuante ingannevolezza del viscido Scar. Entrambi non hanno fatto rimpiangere Vittorio Gassman e Tullio Solenghi.

COSA ASPETTARSI DAL LIVE-ACTION?

Tirare le somme dopo la visione di una pellicola simile non è compito semplice. Si parla del rifacimento di un film, in sé già perfetto, attraverso l’uso di una tecnica di animazione fotorealistica. La verità, come dicevo più su, è che siamo ancora tutti molto confusi su come affrontare quest’ondata di live-action che Disney sta elargendo, a prescindere dalle motivazioni economiche risiedono in quest’operazione. Se il remake è troppo fedele, manca originalità. Se prende le distanze dall’originale, si è messa in atto una brutale violenza. In che modo, quindi, approcciarsi a un lavoro simile? Per quanto i film originali esercitino una forza attrattiva irresistibile, trascinandosi dietro un carico di emozioni e ricordi legati all’infanzia e al momento della visione, occorre non lasciarsi sopraffare e sforzarsi di vedere i rifacimenti con altri occhi, come fosse la prima volta.

Il Re Leone di Jon Favreau è una pellicola imponente, figlia dei nostri tempi. Fedele all’originale, punta anch’essa al cuore dello spettatore, ma sceglie di farlo in una maniera differente. Favreau ha riprodotto rispettosamente le scene chiave del cartone del 1994 riuscendo tuttavia ad essere, a suo modo, evocativo. L’uso della cgi è perfetto, l’impressione di essere immersi nella savana africana è costante e coinvolgente. Le scenografie digitali sono maestose e la fotografia è una gioia per gli occhi. L’esperienza di visione è a tutti gli effetti entusiasmante.

SENZA PENSIERI

Il punto debole di questo film sembra essere, dunque, l’iperrealismo. La tecnica dell’animazione fotorealistica, per quanto faccia guadagnare in sontuosità visiva, aprendo le porte a nuove pellicole del genere, fa scemare il pathos. No, la pellicola non è piatta nè fredda: una storia di per sè toccante contornata da un apparato visivo significativo e cullata da melodie che fanno vibrare le corde emozionali è capace di toccare esattamente i punti giusti. Manca qualcosa? Sì, qualcosa manca e sono le espressioni e la comica fisicità degli animali protagonisti, impossibili da riproporre in un contesto di puntuale realismo. Ma la domanda è: in che mirusa il moto di nostalgia influenza la visione per la forza dei ricordi di infanzia?

Forse, invece di domandarsi e interrogarsi su quel che c’era prima, vale la pena concedersi la possibilità di tornare un po’ bambini per un paio d’ore e lasciarsi andare a una visione spensierata, senza pensare troppo al passato… ormai è passato. E se temete che il confronto con l’originale non regga…

chi vorrà vedrà in libertà…

Hakuna Matata!

Francesca Belsito

[#SDCC] Marvel, annunciati la Fase 4 e l’arrivo di X-Men e Fantastici 4

Grandi annunci da parte della Marvel al Comic-Con International di San Diego.

In un emozionante panel nella Sala H del Convention Center di San Diego, Kevin Feige, presidente dei Marvel Studios, ha fatto chiarezza sul futuro del Marvel Cinematic Universe.

Con Endgame come epica conclusione dell’Infinity Saga, i fan della Marvel si sono posti moltissime domande su cosa sarebbe accaduto nel MCU. Inoltre, con l’acquisizione della Fox da parte di Disney sono arrivati i diritti per poter sfruttare appieno le potenzialità degli X-Men e dei Fantastici 4. Senza dimenticare il futuro lancio della piattaforma streaming Disney+ che segnerà il debutto degli eroi del Marvel Cinematic Universe nel mondo delle serie tv. Tanti personaggi e tante storie ancora da raccontare, ma a San Diego, questa notte, sono arrivate le prime, entusiasmanti risposte.

In un’ora e mezza di panel sono saliti sul palco attori, registi e produttori, volti noti e volti nuovi, tra sorprese e gradite conferme. Marvel celebra il grandioso passato, gli scorsi 10 anni di successi ed emozioni, ma guarda avanti. Si lancia in una nuova fase, la Fase 4 e rivela una line up ricchissima per i prossimi 2 anni e anche oltre.

Vediamo gli annunci nel dettaglio.

BLACK WIDOW

Già confermato e in fase di realizzazione, Black Widow, stand-alone dedicato alla Vedova Nera di Scarlett Johansson. La pellicola, diretta da Cate Shortland, vedrà nel cast anche David Harbour (Hopper in Stranger Things),  Florence Pugh, O-T Fagbenle e l’attrice Premio Oscar Rachel Weisz. Il film sarà un prequel e vedrà Taskmaster come villain principale. Tuttavia, non si escludono, sulla base dei fotogrammi mostrati a porte chiuse nel corso del panel, rimandi e riferimenti agli accadimenti successivi.

L’uscita è fissata per il 1 maggio 2020.

THE FALCON AND THE WINTER SOLDIER

Anche qui un progetto già annunciato che ha ricevuto conferma. Si tratta della prima serie tv targata Marvel Studios che vedrà la luce sulla prossima piattaforma streaming Disney+. The Falcon and the Winter Soldier sarà diretta da Kari Skogland (The Handmaid’s Tale) e nel cast dovrebbero figurare, oltre a Sebastian Stan e Anthony Mackie, che riprenderanno i loro ruoli di Bucky Barnes e Sam Wilson, anche Daniel Bruhl e Emily Van Camp, nei ruoli di Zemo e dell’Agente 13. Zemo inoltre molto probabilmente indosserà finalmente la sua iconica maschera viola da Barone Zemo. La serie sarà composta da 6 episodi e sarà ambientata dopo i fatti di Avengers: Endgame e probabilmente vedremo Falcon raccogliere il testimone lasciato da Capitan America.

L’uscita è fissata nell’autunno 2020.

THE ETERNALS

Il primo titolo annunciato è The Eternals, su cui molto si era già vociferato. Il film di Chloe Zhou riguarda gli Eterni, esseri sovrumani creati da Jack Kirby nel 1976. Manipolati geneticamente dagli enigmatici Celestiali, con abilità fisiche e mentali superiori a quelle degli umani, gli Eterni sono in lotta con le loro controparti, i Devianti. Nel cast del film troviamo: Angelina Jolie che sarà Thena, Richard Madden (Robb Stark in Game of Thrones e Cosimo de’ Medici nella serie I Medici) nei panni di Icarus, Kumail Nanjiani che vestirà i panni di Kingo, Lauren Ridloff come Macary, Brian Tyree Henry in PhatosSalma Hayek che interpreterà Ajax, Lia McHugh nei panni di Sprite, Don Lee nel ruolo di Gilgamesh.

Niente Keanu Reeves come rumoreggiato e, tra i nomi, non compare neppure quello di Millie Bobby Brown che aveva comunque messo un freno alle voci. Della sceneggiatura si occuperanno i fratelli Matthew e Ryan Firpo.

L’uscita è fissata al 6 novembre 2020.

SHANG-CHI E LA LEGGENDA DEI 10 ANELLI

Shang-Chi, il Maestro del Kung-Fu, creato da Steve Englehart (testi) e Jim Starlin (disegni) nel 1973, poi unitosi agli Avengers, avrà una pellicola a lui dedicata e sarà il primo protagonista asiatico del Marvel Cinematic Universe: Shang-Chi e la leggenda dei 10 anelli. Il titolo del film e i 10 anelli ci svelano che nella pellicola vedremo tornare il vero Mandarino, nei fumetti acerrimo nemico di Ironman e di cui già ci era dato sapere qualcosa in Ironman3, interpretato da Tony Leung. Il protagonista sarà, invece, interpretato da un volto poco noto: Simu Liu, a cui i Marvel Studios hanno concesso una grande opportunità. Nel cast troveremo anche Awkwafina, già scritturata dalla Disney per il live-action de La Sirenetta. A dirigere la pellicola sarà Destin Daniel Cretton.

L’uscita è fissata al 12 febbraio 2021.

WANDAVISION

Oltre che al Marvel Cinematic Universe, Marvel Studios ha pensato di rimpolpare anche la programmazione di Disney+. Da qui, l’annuncio di WandaVision, serie tv dedicata a Wanda Maximoff (Scarlet Witch) e Visione. Questa serie sarà collegata al sequel relativo a Doctor Strange in cui il personaggio di Elizabeth Olsen avrà un ruolo primario. Nel cast, ovviamente, troveremo la stessa Olsen, Paul Bettany e la new entry Teyonah Parris. La serie, che ci permetterà di conoscere più a fondo questi personaggi, sarà ambientata dopo i fatti di Avengers: Endgame, il che ha sollevato, da parte dei fan presenti al panel, numerose domande circa la presenza di Visione, domande che sono state sviate.

L’uscita è fissata nella primavera 2021.

LOKI

Come già trapelato in precedenza, Marvel Studios hanno confermato la serie tv Loki. A interpretare il dio dell’inganno tornerà ancora una volta l’amato Tom Hiddleston. Kevin Feige ha ribadito che non vedremo il Loki “migliorato” di Endgame, bensì il Loki del primo Avengers, quello manipolatore. Finalmente, per rispondere ai dubbi dei fan, la serie spiegherà cos’è accaduto dopo che il dio si è impadronito del Tesseract nella scena indietro del tempo di Endgame. Lo stesso Hiddleston ha scherzato col pubblico e ha dichiarato: “Avete visto Avengers, giusto? È ancora quel tipo… E giusto ieri sera è stato preso a botte da Hulk. C’è ancora un bel po’ di evoluzione psicologica da fare! Kevin Feige mi ha mostrato i piani generali, non posso parlarvene ma posso dirvi che è una delle migliori opportunità creative che mi siano mai capitate. È un nuovo territorio, un nuovo mondo”.

L’uscita è fissata nella primavera 2021.

DOCTOR STRANGE IN THE MULTIVERSE OF MADNESS

Anche qui un titolo previsto, considerato il successo del primo capitolo, ma è il sottotitolo quello che veramente è accativante, così come il fatto che accanto allo Steven Strange di Benedict Cumberbatch troveremo la Wanda Maximoff di Elizabeth Olsen. Scott Derrickson, riconfermato alla regia, ha promesso che: “Sarà il primo cinecomic terrificante dell’Universo Cinematografico Marvel!”. La presenza di Scarlet Witch e il fatto che la pellicola sia collegata alla serie WandaVision potrebbe forse spiegare con la teoria dei Multiversi il ritorno di Visione che, come ricordiamo, è stato ucciso da Thanos in Infinity War.

L’uscita è fissata per il 7 maggio 2021.

WHAT IF…?

What if…? sarà la prima serie animata prodotta da Marvel Studios ed è destinata alla piattaforma Disney+. Come il titolo suggerisce, e come i fumetti ci insegnano, la serie tv esplorerà storie alternative dell’Universo Marvel.

Interessante il fatto che a doppiare i vari personaggi saranno proprio gli attori che ad essi hanno prestato il volto nel MCU, tra questi Killmonger (Michael B. Jordan), Dr. Abraham Erskine (Stanley Tucci), Winter Soldier (Sebastian Stan), Thanos (Josh Brolin), Hulk (Mark Ruffalo), Loki (Tom Hiddleston), Nick Fury (Samuel L. Jackson), Thor (Chris Hemsworth), Peggy Carter (Hayley Atwell), T’Challa/Black Panther (Chadwick Boseman), Nebula (Karen Gillan), Clint Barton/Hawkeye (Jeremy Renner), Scott Lang /Ant-Man (Paul Rudd), Hank Pym (Michael Douglas), Dum Dum Duggan (Neal McDonough), Howard Stark (Dominic Cooper), Kraglin (Sean Gunn), Jane Foster (Natalie Portman), Kurt (David Dastmalchian), Korg ( Taika Waititi), Arnim Zola (Toby Jones), Korath (Djimon Hounsou), il Gran Maestro (Jeff Goldblum), Yondu (Michael Rooker) e Taserface (Chris Sullivan). Ad essi si aggiungerà Jeffrey Wright (Westworld)  che interpreterà un iconico personaggio della Marvel, l’Osservatore.

Sembra che uno degli episodi vedrà Peggy Carter trasformarsi nel super-soldato al posto di Steve Rogers, altre ambientazioni sicure riguardano il mondo di Thor e Ant-Man, quello dei Guardiani della Galassia e il Wakanda.

L’uscita è fissata nell’estate 2021.

HAWKEYE

Confermata anche Hawkeye, la serie tv su Occhio di Falco. Jeremy Renner tornerà a indossare i panni (e le frecce!) di Clint Burton. L’attore è salito sul palco, visibilmente emozionato, e ha spiegato ai fan: “Ciò che farò nella serie sarà formare un nuovo personaggio, una versione migliore di me. Occhio di Falco è un supereroe senza superpoteri, e quindi posso insegnare questa cosa a qualcun altro”. Dunque, la serie introdurrà finalmente il personaggio di Kate Bishop, ma ancora non si conosce il nome dell’attrice che le presterà il volto. Dalla grafica del titolo, inoltre, scopriamo un altro dettaglio sulla serie e cioè che sarà basata sulla run a fumetti di  Matt Fraction e David Aja.

L’uscita è fissata nell’autunno 2021.

THOR: LOVE AND THUNDER

Veniamo alla conferma della notizia degli ultimi giorni: Thor 4 si farà. E a San Diego ecco svelato il titolo che sarà Thor: Love And Thunder. Questo nuovo capitolo, per cui è stato riconfermato alla regia Taika Waititi (Thor: Ragnarok), sarà basato sulla run al femminile di Jason Aaron. Assisteremo, quindi, al ritorno della Jane Foster di Natalie Portman, con una probabile sorpresa: potrebbe impugnare il martello vista anche la scenetta mostrata al Comic-Con. Nella run di Aaron, Jane Foster è diventata Thor per un breve periodo. Naturalmente, a reimpugnare Stormbreaker e Mjolnir tornerà Chris Hemsworth, affiancato dalla Valchiria di Tessa Thompson.

L’uscita è fissata per il 5 novembre 2021.

BLADE

A sorpresa, quasi alla chiusura del panale, il presidente di Marvel Studios Kevin Feige ha annunciato un film del tutto inaspettato: Blade. Marvel aveva finalmente ottenuto i diritti per sfruttare il personaggio, ma nessuno dei fan pensava che sarebbe accaduto così presto. Il personaggio del cacciatore di vampiri era stato già portato al cinema con una trilogia da Wesley Snipes. Questa volta il ruolo di Eric Brooks sarà affidato al due volte Premio Oscar Mahershala Ali (Moonlight, Green Book). Non si conoscono ancora ulteriori dettagli.

Non è ancora stata fissata una data d’uscita.

X-MEN E FANTASTICI 4

Altra sorpresona alla fine del panel in Sala H: Marvel Studios è ufficialmente al lavoro sui film dedicati ai Fantastici 4 e agli X-Men, dopo l’acquisizione dei diritti da parte di Fox. Non sono stati rilasciati ulteriori dettagli su come e quando questi iconici personaggi entreranno a far parte del Marvel Cinematic Universe, ma una cosa è certa: accadrà.

FILM NON CONFERMATI MA IN SVILUPPO

Nel corso del panel, tuttavia, sono mancati annunci relativi a pellicole che erano state date per certe all’interno di questa Fase 4. Kevin Feige stesso ha citato questi film, sostenendo che il tempo a disposizione per poterne parlare fosse poco. Molto probabilmente, sono sorprese che resteranno in serbo per il prossimo D23 Expo di agosto. Le pellicole in lavorazione, oltre alle citate, sarebbero:

  • Black Panther 2
  • Capitan Marvel 2
  • Guardiani dela Galassia Vol. 3
  • Un film sui Fantastici 4
  • Un film sui Mutanti (X-Men come tutti si aspettano o Nuovi Mutanti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[#NerdReview] The Sinking City, l’orrore di Lovecraft su schermo

The Sinking City è il nuovo titolo della Frogwares ispirato alle opere horror di H.P. Lovecraft.

Prima di The Sinking City, le trasposizioni dell’orrore lovecraftiano non hanno mai avuto molta fortuna. Se consideriamo i primi Alone In The Dark, Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth, Eternal Darkness: Sanity’s Requiem e gli altri nessuno era riuscito a incarnare appieno la natura orrorifica e al contempo emozionale e psicologica dell’autore di Providence.

The Sinking City si muove su di una strada differente dai suoi predecessori, cerca di spostare l’attenzione dai soliti mostri, ormai quasi mainstream, alle storie dietro e dentro di essi.

Frogware si pone questa meta ma riesce a raggiungerla?

LA STORIA, TRA RAZZISMO E ORRORE

Charles Reed è un investigatore privato che durante la Prima Guerra Mondiale ha prestato servizio in marina sulla Cyclops, nave affondata in modo misterioso. Da allora è affetto da oscure visioni e incubi. Arriva a Oakmont in Massachusetts sotto invito di Johannes van der Berg, un misterioso cittadino in completo giallo che promette una cura per la follia del protagonista. Dal suo arrivo, Charles si trova invischiato negli affari e nelle tradizioni di questa città misteriosa che non vede però di buon occhio i ficcanaso.

Oltre l’odio per lo straniero, un altro infausto cataclisma ha coinvolto la città: l’inondazione. Uno strano fenomeno che ha fatto innalzare il livello del mare al punto da rendere percorribili alcune strade solo attraverso un motoscafo. Faremo a questo punto conoscenza di diverse specie estrapolate dai racconti e romanzi di Lovecraft, come gli Innsmouther, una razza che ha subito il richiamo del mare e che è stata scacciata dal proprio paese per l’oscenità del culto di Dagon.

Come recita anche il cartello all’avvio del gioco, all’interno di The Sinking City è presente in maniera quasi opprimente il razzismo (per via del contesto storico del 1930 americano,  delle tradizioni conservatrici della città stessa e del mito per cui Lovecraft stesso lo fosse). Razzismo non per il colore della pelle – ci sono uomini e donne di diversa etnia – ma per tutto ciò che è esterno e straniero. Lo si può notare dalle animazioni delle persone per le strade, in cui i cittadini, a seconda del quartiere della città, si pongono in modo astioso con gli stranieri arrivati a causa del richiamo della follia, dai quartieri ricchi in cui vengono arrestati a quelli più poveri dove vengono rapinati, pestati o uccisi.

UN GIOCO FATTO DI SCELTE

La storia principale del gioco ci porterà a toccare ogni argomento trattato nei racconti di Lovecraft, dai grandi antichi agli abissali. È però nelle missioni secondarie che il gioco da il meglio di sé. Seppure le meccaniche siano molto simili tra loro (trovare indizi, scoprire la storia, consegnare al personaggio x, ripetere), le scene riescono a raccontare frammenti di vita dei cittadini o avventurieri della città in modo dettagliato ed emozionale tanto da sentire quella fitta al cuore nell’incontrare famiglie massacrate dalla fame, sacrificate dai culti o soggiogate da spiriti.

The Sinking city è un gioco fatto di scelte ma soprattutto di racconti e Frogwares si è impegnata in questo senso, implementando un grande quantitativo di testi di varia natura, dagli annunci pubblicitari alle cutscenes, dalle lettere ai testamenti. Tutto questo perché la maggior parte delle volte si arriva sul posto a eventi già avvenuti e senza la lettura del “racconto” ci si trova davanti scene del crimine o eventi senza senso.

IL GAMEPLAY

Parte dell’avventura risiede nell’investigazione ed è inframmezzata da combattimenti contro mostri, cultisti o esseri interdimensionali. Frogwares ha una decennale esperienza sulle spalle nelle detective story attraverso la serie “Sherlock Holmes” e la possibilità di utilizzare poteri come “l’occhio della mente” o “le visioni dal passato” hanno donato all’area investigativa uno sprint lovecraftiano. La problematica giace però nella monotonia del sistema. La meccanica investigativa è identica per tutta la durata del gioco e le scene action, a volte prevedibili, servono solo da piccola boccata d’aria dopo una lunga apnea di noia.

Le sezioni da sommozzatore sono una distrazione gradita ma di poca durata. Gli abissi intorno e sotto Oakmont sono popolati da esseri giganteschi e creature il cui solo sguardo provoca la pazzia, ma resta una sezione d’intermezzo atta a portare il personaggio solo da un punto all’altro.

La terza parte che compone il gameplay è quella dei combattimenti e della sanità mentale. All’inizio ho trovato molto difficoltoso riuscire a combattere le creature selvagge presenti in The Sinking City complice il basso numero di munizioni trovabili e creabili. Questa difficoltà si è protratta per circa 6 ore di gioco, fino a quando, una volta acquisiti abbastanza livelli, sono riuscito a disseminare di punti i 3 alberi delle abilità. Prese determinate scelte dall’albero del combattimento, uccidere i mostri diventa estremamente più semplice lasciando come unica preoccupazione la sanità mentale. Questa, anche se estendibile e ricaricante, cala in maniera esponenziale per ogni creatura aliena nelle vicinanze minando pesantemente la visibilità e aggiungendo “visioni antagoniste” che danno la caccia.

PREVEDIBILITÀ E SANITÀ MENTALE

Le IA non sono adeguate agli standard odierni, sono anzi piuttosto prevedibili e per nulla organizzate. I set di movimenti sono identici di volta in volta e l’unica cosa che cambia nei nemici sono le abilità. Infatti, in pieno stile Metroidvenia, i mostri cambiano di colore e diventano più forti man mano che andiamo avanti con la missione principale. Al contrario delle creature selvagge, gli esseri umani sono molto semplici da uccidere, basta un unico colpo ben piazzato per fare la differenza, ma molto spesso l’uccisione di umani apre la strada a un successivo pentimento attraverso righe di dialogo più aspre o video cutscene dal forte impatto emotivo.

Come dicevo, The Sinking City è un gioco di scelte. Al termine di un’indagine nelle missioni principali si  deve affrontare il palazzo mentale: un minigioco di collegamenti e deduzioni che porta a compiere una scelta (non definitiva) riguardo la vita o la morte di qualcuno. Molto spesso le vie percorribili sono 3, contraddistinte da una scelta per lo più etica e soggettiva: ad esempio la mia linea di pensiero era quella di favorire il meno possibile i culti optando per il male minore. A essere però sinceri, anche qui viene rispettato lo stile lovecraftiano: il male è ovunque e qualsiasi cosa si scelga ci si porta dietro il peso e i sensi di colpa.

Altra pecca di cui si macchia il gioco, a meno di perdere un’ora a trovare i punti di viaggio rapido fin da subito, è la grandezza della mappa. Oltre la barca che è necessario prendere per attraversare alcune strade o trovare alcune stanze, la città è troppo grande da percorrere a piedi e i punti di interesse, seppur vicini alle cabine telefoniche del viaggio rapido, fanno perdere alcuni minuti di corsa inutile. Sicuramente la corsa è allietata dalle scenografie particolari, ma dopo un po’ il continuo andirivieni annoia.

GRAFICA E SONORO

L’aspetto grafico è curato attraverso Unreal Engine 4. Troviamo infatti dei modelli umani di tutto rispetto. L’imperante pioggia crea una sensazione di umido appiccicaticcio anche da dietro lo schermo, donando molta verosimiglianza all’ambientazione. Frogwares però non è molto pratica del motore grafico, soprattutto per quanto riguarda i modelli che spesso si impantanano nelle porte o negli oggetti di scena e le animazioni delle comparse sono a volte fuori sincrono. Ulteriore pecca nell’aspetto grafico riguarda gli interni delle case, dei magazzini e delle strutture abbandonate. Tutte le case sono strutturalmente identiche per numero e posizione delle stanze. Cambiano solo alcuni inserti specifici nel mobilio per via delle missioni a esse associate.

Il comparto sonoro mi ha soddisfatto molto, alcune tracce musicali all’interno sono particolarmente orecchiabili e c’è perfino una canzone così tanto bella da far perdere la sanità mentale, una citazione al racconto La musica di Eric Zann. Il sottofondo sonoro cambia a seconda della situazione, passando su più livelli di gravità man mano che ci si avvicina a un luogo infestato o a una situazione di nervosismo.

IL PUNTO

Frogwares ha sviluppato questo titolo con uno scopo preciso: rendere omaggio a uno dei più grandi autori dell’orrore. In questo scopo riesce e le storie che racconta toccano il cuore e mettono in crisi sia dal punto di vista etico che personale. Tuttavia, le meccaniche sono noiose a lungo andare e senza una spinta personale si rischia di abbandonare la traversata. Può sembrare una stroncatura, ma in realtà quello che voglio dirvi è di approcciarvi a questo titolo partendo dal presupposto di trovarvi davanti un’avventura grafica in terza persona con inserti action.

Se poi amate lo scrittore di Portland troverete omaggi delicati e mai invasivi che vi faranno spesso sorridere.

Voto: 6.5

Daniele Ferullo

[#NerdReview] Stranger Things 3, gli anni ’80 non sono mai stati così belli

Stranger Things è ormai una di quelle serie che trascendono le immagini su schermo.

L’arrivo degli 8 nuovi episodi di Stranger Things ha infatti portato uno tsunami temporale che ci ha lasciato nella risacca con abiti, musica e luci degli anni ‘80. Oltrepassando, però, la barriera della moda ed entrando nel nostro bunker anti-bombardamento mediatico, com’è la nuova stagione della serie creata dai dei Duffer Brothers?

LA STORIA

Fin da subito saltiamo sul trampolino del tempo e ci tuffiamo negli anni’80: costumi, acconciature e atteggiamenti tipici ci accolgono a braccia aperte, mostrandoci il contesto ambientale della serie. I nostri amati protagonisti sono proprio come li avevamo lasciati ma più alti: Mike e Undi insieme, Lucas e Maxine, Dustin di ritorno da un campo estivo e così via. Tutto sembra tranquillo fino a quando i magneti di casa Byers crollano sul pavimento e Will inizia ad avere delle cattive sensazioni.

L’orrore è tornato.

una delle nuove protagoniste: Robin

La storia raccontata in questa stagione si delinea strutturalmente come le due precedenti: più storie parallele svelano il problema sotto aspetti e sfaccettature diverse. Da qui uno dei primi miglioramenti rispetto alle precedenti stagioni: le storie omaggiano i generi diversi famosi negli anni ‘80, passando quindi dall’horror del gruppo dei ragazzi al thriller di Hopper e Joyce fino alla fantascienza di Dustin e alla detective story di Nancy e Jonathan.

UN RACCONTO CORALE

Tutte e quattro le storie sono presentate perfettamente, senza una nota discordante o superficialità. Gli elementi inseriti vengono spiegati, i nodi vengono al pettine e niente è lasciato al caso o in sospeso. Una delle pecche di Stranger Things però è che sembra che non tutti i personaggi riescano a proseguire in un cammino di maturazione. Diciotto personaggi sono tanti da gestire e se anche nella storia sono tutti presenti e funzionali, singolarmente perdono di spessore o hanno parti minori rispetto alle stagioni precedenti. Mi riferisco soprattutto a Lucas Sinclair che resta identico dall’inizio alla fine senza un progresso psicologico e viene messo in ombra perfino dalla sorella che, invece, tiene banco in molte scene attraverso il suo carattere, sbocciando come personaggio dal ruolo secondario della seconda stagione a quello da coprotagonista in questa.

Altro personaggio che mi ha sorpreso è Will Byers che da bambino che ha subito il peggio nella prima stagione, in questa terza è capace di momenti drammatici e di rivelazione fino alla scoperta del segreto che tutti avevamo pensato fin da metà della seconda stagione.

Come Lucas, anche Mike e Dustin hanno una crescita minima restando per lo più identici dall’inizio alla fine degli eventi e, nel caso di Mike, anche delle stagioni. Lo spazio riservato alla nostra supereroina Undi è questa volta più ampio: la ragazzina affronta le grandi mancanze della sua vita fino ad acquisire una sua personalità, maggiormente decisa e responsabile.

DEMOGORGONE, MIND FLAYER… E ORA?

Le nemesi di questa stagione sono impegnative e danno parecchio filo da torcere ai protagonisti e ai comprimari. Resta la struttura a doppia nemesi con un “esterno” e un “interno” come nelle due stagioni precedenti, ma questa volta si pone in maniera adulta senza cadere nel trash. Questo può essere un fattore positivo o negativo a seconda dello spettatore. La perdita del tipico trash da film di serie B fa decadere quell’aspetto paradossale e comico delle vicende, ma credo che i Duffer questa volta abbiano voluto puntare su di un lavoro più maturo e memorabile e ci sono riusciti a pieni voti.

ATMOSFERE ANNI ’80 TRA MUSICA E LUCI

i molteplici campi lunghi sono meraviglie della fotografia

Quando Netflix decide di sostenere un progetto attivamente con cospicui investimenti, le sue opere riescono a crescere esponenzialmente e Stranger Things ne è un esempio. Il comparto tecnico è migliorato in tutti i campi: dalla computer grafica al montaggio, tutti i settori hanno fatto tesoro delle esperienze passate arrivando a un livello eccellente.

Quello che ci salta subito all’occhio è la fotografia. Nelle altre stagioni era curata, ma a volte le scene avevano dei problemi con le luci dando una sensazione di “finto”. Grazie a un maggiore realismo, alle luci al neon e alle ambientazioni, la fotografia ha subito in questa stagione un’impennata qualitativa, resa poi ancora più mirabile dalle scelte di montaggio che deliziano con transizioni e suspence.

La colonna sonora di Michael Stein e Kyle Dixon si riconferma iconica per la sua esecuzione e pertinente alle scene. Allo stesso modo le scelte delle canzoni da citare da parte dei Duffer Brothers che ci allietano con pezzi come Material Girl di Madonna e Wake Me Up Before You Go Go dei Wham!.

Per quanto riguarda gli easter eggs, ce ne sono e sono ancora più complessi delle altre stagioni. Oltre alle molteplici scene di film nel cinema, abbiamo citazioni a Terminator, La storia infinita, Gremlins, Shining, a volte con un poster altre con riproduzione di scene ed omaggi più diretti.

IL PUNTO

Questa stagione di Stranger Things mi ha tenuto allo schermo dall’inizio alla fine. È un binge-watching caleidoscopico che racconta ogni fase in maniera eccezionale e fruibile. Il miglioramento dalla seconda stagione si percepisce subito e anche se l’interpretazione degli attori della prima è forse migliore (come anche il tempo a loro dedicato), questa terza è riuscita ugualmente nell’ardua missione di innovare e sorprendere.

Insomma, al momento è forse una delle serie più riuscite di questo 2019!

Voto: 9

Daniele Ferullo

https://youtu.be/XcnHOQ-cHa0

[#NerdGames] BloodStained: Ritual of the night, degno successore di Castlevania?

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.

Così avrebbe esordito Zio Ben con Koji Igarashi, una volta saputo della decisione di avviare il kickstarter per BloodStained: Ritual of the night. Il potere di chi ha dato alla luce la pietra miliare dei Metroidvenia Castlevania: Symphony of the night è un’arma a doppio taglio: da una parte ha la fiducia dei fan del genere che lo seguono, dall’altra il peso di un franchise che non sta dando il suo massimo da diversi anni.

Quanto può essere ben riposta questa fiducia indomita?

Il mondo del crowdfunding, qualche anno fa, è stato invaso da giochi indie di tutti i tipi: Dead Cells, Hollow Knight, Psychonauts 2 e tantissimi altri. Tra questi c’era anche Bloodstained, presentato da Koji in persona come il successore del vero spirito di Castlevania. Niente spin-off strambo né clone, ma qualcosa di nuovo che potesse soddisfare una volta per tutte la voglia dei fan di innovazione e nostalgia.

BloodStained riesce in parte a soddisfare questo bisogno.

UNA BUONA STORIA O FAN-SERVICE?

La storia è ben costruita, raccontata bene e con i giusti tempi, seppure si senta moltissimo l’impronta di Igarashi nella scelta delle ambientazioni e dei mostri. Ha riciclato quasi tutti i biomi dei vecchi Castlevania donando un mash-up piuttosto citazionistico ai fan del franchise Konami.

Abbiamo una protagonista molto simile a Shanoa di Order of Ecclesia, con la capacità di apprendere l’abilità dei nostri nemici tramite dei cristalli; degli aiutanti che avranno base nel villaggio e ci faranno da shop come in Dawn of Sorrow; un personaggio con una storia parallela alla nostra e così via… Insomma, gli elementi di un Castlevania ci sono tutti e anche di più, ma si sente una nota stonata: si avverte quella sensazione di bootleg nei mostri (che hanno forme simili, mosse simili ma nomi diversi), nelle armi che hanno quella vocale o consonante diversa ma forma e animazione simile, a cui si aggiunge una tendenza estetica al fan-service sulla protagonista a cui potremmo cambiare colore di capelli e del vestito come fosse una bambola di porcellana.

warning: attenzione ai gattini e cagnolini demoniaci

GAMEPLAY, TRA VECCHI TRICK E NUOVE MECCANICHE

Andando oltre questo primo impatto che lascia un po’ straniti, il gioco si districa molto bene nel gameplay, mantenendo molti trick dei vecchi Castlevania e aggiungendo moltissime nuove meccaniche, come la possibilità di apprendere delle tecniche a combinazione di tasti per determinate armi, le ricette dall’alchimista e il prestito dei libri nella biblioteca gestita da un vampiro di nome Orlok Dracule – chiara citazione a Dracula nei primi Castlevania. Tutti questi elementi si uniscono a differenziare le statistiche del personaggio che quindi potremmo costruire come vogliamo, mentre oggetti speciali come i gettoni 8/16/24 bit ci daranno la possibilità di avere delle armi particolari provenienti da vecchi giochi.

I boss fight, come ogni Metroidvenia che si rispetti, sbloccheranno dei poteri necessari a proseguire nel gioco e sono piuttosto semplici da affrontare. I pattern sono prevedibili ma al contempo molto “punitivi”. Di per sé il gioco stesso è abbastanza punitivo. A meno di avere un equipaggiamento improntato alla difesa, i danni che si riceveranno sono sostenuti, mentre le pozioni sono abbastanza rare da trovare.

GRAFICA DA MIGLIORARE

Torniamo, però, a un’altra pecca: la grafica. Il 2.5D funziona, lo abbiamo ammirato anche nel titolo Castlevania: Lords of Shadow e molti titoli contemporanei ci stanno abituando a questo miglioramento. Il problema, tuttavia, sussiste in alcune transizioni, oggetti, scene che sono di fattura molto superficiale e toccano il fondo nella schermata di Game Over che sembra fatta con power point. Gli effetti visivi però sono resi bene, i ritratti dei dialoghi si adattano ai cambi d’equipaggiamento dell’eroina e le scenografie sono eccellenti.

UNA SOUNDTRACK GIÀ SENTITA

Al comparto sonoro troviamo una star del franchise Konami, Michiru Yamane, che nella sua carriera ha composto ed eseguito la colonna sonora di Symphony of the night, Aria of sorrow e Portrait of ruins. Anche qui, lo stile “Castlevania” regna sovrano, ma cambia di qualche nota facendo tornare quella sensazione imperante di copiato male.

IL PUNTO

Per quanto possa essere superficiale il lavoro grafico, sappiamo che in ogni caso tutti giocheremo e finiremo questo titolo. Poteva essere fatto meglio? Assolutamente. Oltre ai bug che mandano in crash il gioco, alcuni aspetti poco curati sono al limite dell’assurdo e spero vivamente verranno corretti nei tanti DLC gratuiti che saranno rilasciati nell’arco dell’anno. BloodStained però non è così male. Se si prende in considerazione il solo lato ludico, si lascia giocare bene ed è abbastanza duraturo da passarci il tempo a fine giornata.

Tuttavia,non è quel titolo che avremmo voluto anche avendone le potenzialità.

Voto: 6,5

Daniele “Ink” Ferullo

 

[#NerdGames] Una banana per amico: My Friend Pedro – Recensione

Quando per la prima volta giocai alla versione flash di My friend Pedro nel lontano 2014, sentivo che qualcosa di buono poteva uscirne. La grafica grezza un po’ grunge richiamava i platform sparatutto ultraviolenti di una volta come Madness combat e il gameplay strizzava l’occhio a The Matrix.

Ma come si è evoluto?

DeadToast Entertainment resta a capo del progetto, aiutato e distribuito da Devolver Digital (Hotline Miami), il cui supporto è evidente: pazzia, soundtrack, ultraviolenza e scelte fuori di testa. Perché questo gioco, parliamoci chiaro, è fuori di testa.

UNA BANANA CHE UCCIDE LENTAMENTE

Il no sense regna sovrano dall’inizio alla fine. Il protagonista è l’unico a vedere Pedro, una banana parlante che fluttua qui e lì dando suggerimenti su cosa fare, sulla situazione e la storia. La trama si sviluppa su di un piano orizzontale dove all’inizio ci si vuole solo vendicare di colui che ci ha catturato, per poi continuare con organizzazioni sempre più grandi (e strambe) che ci danno la caccia.

John Wick, is that you?

La storia matura così, tra sparatorie e uccisioni, ma ha dei picchi a mio parere piuttosto profondi. Se infatti all’inizio troviamo la solita trama da vengeance story, nel proseguire degli stage, la narrazione si muove anche in un senso verticale, dando delle pillole sociologiche, come ad esempio combattere gli “haters” di Pedro, persone che sanno solo giudicare e screditare e che, alla morte, vanno verso il paradiso. Non solo sparatorie, quindi, ma anche spessore politico e critica al contemporaneo. Proprio come i livelli nelle tubature in pieno stile Super Mario dove si annidano nemici di nuovo stampo: i giocatori nostalgici diventati troppo violenti per colpa dei videogiochi. Pedro, il nostro amico banana, ce ne parla come di una tribù che si è separata dalla società perché non voluta.

GAMEPLAY, TRA UCCISIONI E ROMPICAPO

Ma basta parlare di storia, parliamo del comparto tecnico di questo titolo.

Il gameplay ha meccaniche di difficile apprendimento, è difficile articolarsi sia con il GamePad (provato con pad XBoxOne) che con mouse e tastiera. Se da una parte abbiamo tutti i tasti a disposizione per manovrare il personaggio e una difficoltà a prendere bene la mira, dall’altro abbiamo troppi tasti da usare e poche dita per usarli. Insomma, ovunque ti giri prendi un rastrello nei denti.

Il sistema di gioco è quindi è un po’ difficoltoso ma, dopo qualche livello, si inizia a prenderci la mano rinunciando alla fantasia combattiva. Gli scontri sono molto veloci se non si utilizza lo slow motion, ma rallentare il tempo ti permette di essere più preciso e creare spettacolarità nelle uccisioni che donano Punti Stile: una valuta molto simile a quella di Devil May Cry che a fine livello ti assegna un voto da S a C a seconda delle uccisioni stesse. Piroettare per schivare proiettili, dividere le armi, utilizzare oggetti ambientali o fare delle entrate in scena drammatiche fanno accumulare punti che vengono poi moltiplicati per il numero di uccisioni fatte in breve tempo.

Questo sistema prende anche l’accezione tipica del rompicapo simile a quella di Hotline Miami dove uccidere i nemici con una strategia portava al punteggio massimo. Tuttavia non è così importante, il gioco non ricompensa per voto basso o uno alto ed è soltanto un modo per entrare nella leaderboard mondiale.

Oltre i punteggi, il gioco riesce a rinnovarsi stage dopo stage lungo i suoi 40 livelli aggiungendo gradualmente armi, oggetti scenici utilizzabili e perfino uno skateboard con cui fare combo al limite dell’assurdo. Ci sono anche dei livelli che subiscono un cambio repentino di gameplay come quello della moto o la picchiata che rinfresca l’attenzione del giocatore.

UN GRAFICA ANNI ’90 DA MIGLIORARE

L’aspetto estetico e grafico di My Friend Pedro lascia molto a desiderare. Stilisticamente sembra un gioco della metà degli anni ‘90 con personaggi pupazzosi e poligonali, si recupera di poco con le scenografie che però risultano ripetitive quasi allo stremo. Meglio non parlare delle animazioni poi. Seppure siano basate sulla fisica, il gioco spesso e volentieri si comporta come una parodia del ragdoll con movimenti scomposti dei personaggi. Ad essere sincero però, la velocità con cui si procede nei livelli non ti fa quasi accorgere di queste mancanze piuttosto evidenti appena ti fermi un attimo a guardare.

una picchiata con un tipo vestito da babbo natale che parla dell’internet

La soundtrack, eseguita per lo più da Navie D, ricalca moltissimo le sonorità di Hotline Miami con un elettropop anni ‘80 di altissima qualità. L’unica pecca è forse la mancanza di una canzone virale, una di quelle che continueresti ad ascoltare in loop una volta finito il gioco.

IL PUNTO

My Friend Pedro è un gioco che ti tiene incollato allo schermo per tutte le sue 3-4 ore di durata senza prendere una pausa. Dentro di sé ha però il rimpianto del “si poteva fare di più”. Il comparto grafico è davvero scadente e anche se media con la fantasia e il divertimento del gioco, l’occhio vuole sempre la sua parte anche in questi contesti. I controlli di gioco sono poi scomodi e inutilmente difficili. Mi tornano alla mente Shank, Deadbolt o Katana Zero e penso che questa volta mancasse poco per piazzarsi più in alto in graduatoria.

Voto: 7

Daniele “Ink” Ferullo

[#Netflix] Lucifer, cosa sappiamo sulla quinta e ultima stagione

La serie Lucifer è stata rinnovata da Netflix per una quinta e ultima stagione, dopo il grande successo della quarta.

Dopo la brusca cancellazione e la campagna dei fan #SaveLucifer, la piattaforma streaming ha permesso la realizzazione di 10 nuovi episodi e, come promesso, le sorprese, anche a tinte dark e sexy, non sono mancate.

Qualche giorno fa, con un post sull’account Instagram ufficiale dello show, è stato annunciato che Lucifer avrà una quinta e ultima stagione. Considerato il successo di pubblico avuto dalla stagione numero 4 prodotta da Netflix, un rinnovo era nell’aria sin da subito, sebbene si sia fatto attendere. Tuttavia, i fan sono rimasti spiazzati dalla notizia che la prossima tornata di episodi sarà anche l’ultima.

Ma vediamo quali sono le novità sul futuro dello show.

LUCIFER 5, COSA SAPPIAMO?

A dare qualche risposta in merito alla stagione conclusiva della serie tv con protagonista Lucifer Morningstar è stata Ildy Modrovich, showrunner e produttrice. La Modrovich ha risposto alle domande che alcuni fan della serie le hanno posto su Twitter riguardo ciò che c’è da aspettarsi. A quanto pare, la quinta stagione avrà anch’essa 10 episodi, così come la quarta:

“Sono 10… e faremo in modo che ogni minuto conti!”.

Un taglio netto rispetto ai 26 episodi della stagione numero 3. Tuttavia, potendo fare a meno di puntate filler, la scrittura potrà concentrare l’azione e lo sviluppo dei personaggi, in un ritmo concitato che non ha spazio per momenti morti. La stessa Modrovich ha annunciato con un tweet che gli sceneggiatori si metteranno al lavoro per la stesura dei nuovi script a partire dal mese di luglio.

UNA STAGIONE 6 SARÀ POSSIBILE?

La notizia che la quinta stagione della serie tv con protagonista Tom Ellis sarà quella che concluderà l’arco narrativo dell’angelo caduto non è stata ben accolta dai fan. Infatti, proprio com’era accaduto dopo la cancellazione da parte di Fox nel 2018, i Lucifans hanno avviato una nuova petizione. Questa volta, l’obiettivo è fare in modo che la serie non si chiuda con la prossima stagione. Anche su tale questione si è espressa la showrunner Ildy Modrovich che ha twittato:

Perdonatemi se starò in silenzio su questa questione. La verità è perché sono combattuta. Una parte di me farebbe Lucifer per sempre. Ma sono anche immensamente grata a VOI e a Netflix per averci dato la possibilità di continuare la nostra storia insieme. E so che la Stagione 5 sarà una lettera d’amore per i Lucifans…“.

Al momento, dunque, sembra che poche siano le speranze che il personaggio apparso in The Sandman di Neil Gaiman torni sugli schermi per una stagione 6. Già il giorno dell’annuncio degli episodi finali, i produttori Ildy Modrovich e Joe Henderson avevano rivelato in un comunicato: “Siamo incredibilmente grati a Netflix per aver resuscitato il nostro show la scorsa stagione e ora ci permette di finire la storia di Lucifer alle nostre condizioni. Soprattutto, vogliamo ringraziare i nostri fan per la loro incredibile passione e supporto. Il meglio deve ancora venire!“.

QUANDO VEDREMO LA QUINTA STAGIONE?

Non sappiamo ancora quando rivedremo Lucifer su Netflix. Se consideriamo che la produzione della quarta stagione si era protratta da agosto a dicembre 2018 e che gli episodi sono stati rilasciati a maggio di quest’anno, possiamo supporre che l’attesa durerà fino alla prossima primavera.

Francesca Belsito

[#NerdReview] Aladdin Vs Aladdin – Trova le differenze

La febbre dei live-action Disney continua al cinema e questa volta è toccato ad Aladdin.

Dopo aver visto al cinema il remake di Aladdin diretto da Guy Ritchie, sono andato a ripescare il vecchio classico del 1992. Già in sala qualcosa non mi tornava e alla fine del rewatch avevo le mani che prudevano: dovevo scrivere!

Quando si utilizza la formula del rifacimento in live-action si tende a cambiare sempre qualcosa nella storia o nella forma della narrazione. Nel caso di Aladdin, però, cosa è cambiato davvero?

A un primo occhio, magari per qualcuno che non vede il cartone da tempo, sembrerà che sia tutto pressoché simile: canzoni, personaggi, atmosfere… Ma per chi invece ha rivisto da poco il cartone, le differenze sono piuttosto evidenti, a partire dall’inizio.

INTRODUZIONE: CHE FINE HA FATTO IL MERCANTE?

L’intro del film ci porta nei mari orientali, con Will Smith che racconta una storia ai propri figli su di una nave per poi continuare con la canzone “Le notti d’Oriente”, che resta simile alla versione originale. La differenza nell’introduzione è palese: nel cartone originale, la storia veniva raccontata attraverso delle gag comiche di un mercante, introducendoci ai misteri di Agrabah e alla magia dell’Oriente.

Un altro mercante scomparso è quello nella scena nel bazar. Qui, quando Jasmine regala del cibo ai due bambini senza pagare, non è il grosso energumeno barbuto del cartone a cercare il pagamento, bensì suo cugino che stava tenendo d’occhio il banco per lui.

UN NEMICO PIÙ CONVINCENTE: JAFAR CONTRO TUTTI

Una delle grandi differenze tra cartone e live-action è sicuramente la figura del cattivo. Jafar è qui molto più giovane e riesce a ipnotizzare le persone anche senza il suo bastone magico. Convince, infatti, Aladdin a entrare nella caverna di sua spontanea volontà con la promessa di grandi ricchezze.

Altra differenza è nel suo background. Infatti, scopriamo il passato del cattivo che, come il protagonista, in origine era un ladro e saltimbanco che, grazie all’astuzia e all’imbroglio, è riuscito a raggiungere il palazzo acquisendo il titolo di Visir. Così, il personaggio ha ora una motivazione evidente per diventare il sultano di Agrabah, ossia quella di non essere mai più secondo a nessuno.

JASMINE, UNA NUOVA LEADER

La principessa di Agrabah subisce un restyling sia come abbigliamento che come carattere. Seppure già nel cartone animato del 1992 fosse una principessa combattiva, in questo film si riscopre una leader e si fa portavoce della libertà e dei diritti delle donne. Non solo una moglie, quindi, ma anche una possibile regina che potrebbe apportare delle migliorie al regno se solo la legge tradizionalista potesse essere cambiata.

Una forza, quella di questo personaggio femminile, forse dovuta alla riscrittura di un retroscena passato e all’inserimento di un dettaglio relativo alla madre, che nel cartone viene quasi ignorata. Qui, infatti, la madre di Jasmine ha finalmente una storia: proviene dal vicino regno di Sherabad (lo stesso regno che Jafar vuole conquistare) ed è morta assassinata per le sue ideologie.

IMMENSI POTERI COSMICI IN UN MINUSCOLO SPAZIO VITALE!

 

Un’altra delle grandi differenze tra il cartone e il film è di sicuro la presenza di Will Smith. Se nel cartone originale il genio veniva interpretato da Robin Williams (doppiato in italia da Gigi Proietti), grande artista comico che ha dato una connotazione delicatamente parodica e divertente all’essere blu, Will Smith invece percorre un’altra strada, più vicina ai suoi personaggi tipici.

Più irriverente, piacione e anche un po’ trash: la sua potenza attoriale è senz’altro uno dei punti cardine di tutto il film. Il suo genio, al contrario della versione originale, ha un debole per le donne e infatti s’innamora di uno dei due personaggi creati per questa pellicola, Dahlia. Altra differenza è che al termine del film non diventa un genio libero di usare i suoi poteri, ma un essere umano normale, chiudendo così il cerchio aperto con l’introduzione.

NUOVI PERSONAGGI PER NUOVE SCENE

La presenza di Dahlia e Akim non passa inosservata. La prima, l’ancella della principessa, è in quasi tutte le scene comiche ed è inoltre la donna di cui s’innamora il genio, mentre Akim ha il ruolo della guardia scelta del Sultano ricevendo una storia e l’importante scelta nel finale.

UN FINALE TUTTO NUOVO E MENO “ACTION”

La storia si muove nella stessa direzione: Jafar prende la lampada ed esprime gli stessi tre desideri del cartone animato, ma ci sono delle differenze piuttosto pronunciate tra le due pellicole. Differenze che rallentano il ritmo, ma danno anche la possibilità ad altri personaggi di sbocciare.

Tre sono le differenze essenziali:

  1. Jafar resta umano per tutto il tempo, non si trasforma in un gigantesco serpente.
  2. Iago si trasforma in un enorme pennuto* che insegue Aladdin e la lampada per Agrabah.
  3. Jasmine, con una nuova canzone, convince Akim e dimostra di avere le capacità di un Sultano (viene tagliata così la scena in cui Jasmine seduce Jafar).

*Sapevi che la trasformazione del pappagallo di Jafar è in realtà un omaggio a una delle creature mitologiche dell’antica Persia? Il Rok!

I DETTAGLI CONTANO!

Ci sono ancora piccoli dettagli che rendono differente il cartone dal live-action, come ad esempio le regole per esprimere i desideri. Nel cartone “Voglio essere un principe” andava bene come desiderio, invece nel film il genio richiede una frase più specifica e di strofinare la lampada ogni volta che se ne esprime uno.

Spero di aver saziato la vostra sete di curiosità e vi lascio con la versione originale di un divertente video che sta spopolando sui social ultimamente!

Ricordatevi di seguirci sulla pagina Facebook Nerd30  per altre notizie e curiosità sul mondo nerd!

Daniele Ferullo

[#Nerd30Consiglia] 5 anime da vedere su Crunchyroll

Tornano i consigli anime di Nerd30, dedicati questa volta alla piattaforma di streaming legale Crunchyroll.

Abbiamo selezionato 5 serie anime tra quelle che riteniamo più meritevoli di una visione. Pronti? Si parte!

Sound! Euphonium

sound euphonium

Partiamo con uno dei migliori titoli a stampo musicale degli ultimi anni. Sound! Euphonium è una serie televisiva in 26 episodi (2 stagioni da 13) e uno special (sulla piattaforma è l’episodio 14 della prima stagione), adattamento dell’omonima serie di romanzi di Ayano Takeda. La serie è prodotta da Kyoto Animation, con regia di Tatsuya Ishihara.

Euphonium è una serie di grande maturità, che riesce a portarti a stretto contatto con i personaggi. I rapporti sono gestiti in maniera esemplare e il comparto musicale è dosato alla perfezione. Inoltre la serie colpisce per una realizzazione tecnica impeccabile, in perfetto stile KyoAni, con delle ottime animazioni e un Ishihara in grande spolvero, che utilizza carrelli e movimenti di macchina cinematografici, soprattutto nella prima stagione.

Link: https://www.crunchyroll.com/it/sound-euphonium

Run with the wind

run with the wind

Cosa vuol dire correre? Tra gli anime consigliati non poteva di certo mancare una serie sportiva. Kaze ga tsuyoku fuiteiru è un anime in 23 episodi, prodotto da Production I.G. e diretto da Kazuya Nomura.

Run with the wind è una serie che colpisce fin da subito per le intriganti caratterizzazioni dei personaggi, che nel corso della serie saranno in continua evoluzione, seguendo uno straordinario percorso di crescita. Un anime che riesce a valorizzare il singolo attraverso il gruppo e viceversa, caratteristica possibile solo alle migliori serie sportive. Il character design di Takahiro Chiba riesce a dare valore ai personaggi anche sul lato estetico. Le animazioni sono abbastanza fluide e conferiscono un certo realismo alle scene di corsa.

Link: https://www.crunchyroll.com/it/run-with-the-wind

Tsukigakirei

Tsukigakirei

Tra le serie “romance” vi consigliamo Tsuki ga Kirei, anime originale in 12 episodi prodotto da studio feel. e diretto da Seiji Kishi.

Il primo amore è un sentimento puro, che non è corrotto dalle delusioni che ci colpiscono nell’arco della vita. Tsukigakirei insegna come un rapporto di genuina complicità sia una grande motore di crescita personale. Una serie che trova buona parte della sua forza nella semplicità, senza mai sfociare nella melassa gratuita, ma costruendo una storia raffinata ed emozionante. Tecnicamente la serie ha qualche difettuccio, come una computer grafica abbastanza scadente per animare le persone in strada. D’altro canto abbiamo una buona cura per i fondali e delle belle sequenze in rotoscopio. La regia riesce a valorizzare ogni singolo dialogo tramite la costruzione dell’inquadratura e dell’ambiente. Serie che consiglio anche a chi non ama particolarmente le serie sentimentali.

Link: https://www.crunchyroll.com/it/tsukigakirei

 

Golden Kamuy

Golden Kamuy

Questa volta andiamo su una serie di stampo storico. Golden Kamuy è un anime che al momento conta 24 episodi (2 stagioni da 12 episodi), prodotto da Geno Studio e diretto da Hitoshi Nanba, adattamento dell’omonimo manga seinen di Satoru Noda.

Kamuy è una serie che ha 3 fondamentali punti di forza: i personaggi, l’intreccio e le gag comiche. Se sul lato tecnico abbiamo una serie che zoppica, complice un Geno Studio ancora giovanissimo e con poche maestranze di rilievo, sul lato narrativo l’anime ha veramente tanto da dare, soprattutto grazie ai due personaggi principali.

Link: https://www.crunchyroll.com/it/golden-kamuy

 

A place further than the universe

A place further than the universe

Per concludere abbiamo una delle migliori serie dello scorso anno. A place further than the universe è un anime originale in 13 episodi, prodotto da studio Madhouse e diretto da Atsuko Ishizuka.

Un meraviglioso viaggio di crescita delle 4 protagoniste, uno slice of life di quelli che non si vedono molto spesso. Sora yori mo Tooi Basho è una di quelle serie che ti ricordano il perché amiamo tanto l’animazione. Tecnicamente l’anime è realizzato veramente molto bene, con delle ottime animazioni e una regia di grande sensibilità. Sicuramente la serie preferita dal sottoscritto tra quelle disponibili sulla piattaforma.

Link: https://www.crunchyroll.com/it/a-place-further-than-the-universe

Antonio Vaccaro

[#NerdReview] Detective Pikachu, un giallo con un Pokémon giallo – Recensione

Detective Pikachu è arrivato al cinema tra aspettative e molte sorprese.

Non avrei mai immaginato di andare al cinema a vedere alla prima un film live-action sui Pokèmon. Per quanto fossi titubante, però, il mio essere fan di quelle creature così diverse tra loro, mi ha portato ad alzare la cornetta e chiamare colui che in redazione è il più esperto del settore: il nostro Chamix.

Armati di sanissimi dubbi e una flebile speranza ci siamo avventurati nella visione di questa pellicola della durata di soli 104 minuti e ne siamo usciti con il sorriso sulle labbra. Il film ci ha soddisfatti, ci ha dato la giusta dose di comicità, emozioni e meraviglia superando le nostre aspettative.

Andiamo, però, a scoprire nel dettaglio ciò che abbiamo trovato di positivo e negativo.

LA STORIA

La trama del film ricalca più o meno quella dell’omonimo videogioco per 3DS. Aggiunge qualche porzione nel finale rivelando quello che avviene dopo e velocizza il tutto per adattarlo al mezzo cinematografico. Alcune scene, però, vengono cambiate e vediamo infatti il combattimento con Charizard (assente nel gioco) e facciamo la conoscenza della giornalista della CNM già nel primo quarto di film. Seppure in alcune parti sia prevedibile, la storia è capace di grandi momenti sia di azione che di emozione, senza trascurare la componente investigativa tipica dei gialli. Lievemente differente anche l’ambientazione. Nel film ritroviamo infatti un contesto quasi cyberpunk con molte luci al neon e tecnologia avanzata che convive coi più tradizionali chioschi di sushi per le strade. Piccola nota per gli amanti del franchise: il Mewtwo presente all’interno del film è lo stesso del film animato Pokémon il film – Mewtwo contro Mew del 1998.

IL CAST

Gli attori hanno assunto il compito di far immedesimare il pubblico nel mondo dei Pokémon: lo stesso universo narrativo e immaginifico in cui molti fan della serie vorrebbero vivere come allenatori. Il giovane Justice Smith, attore principale del film, è alla sua quinta pellicola e riesce a rappresentare al meglio il complesso background del protagonista dell’omonimo videogioco, trasmettendo il peso di un vissuto non proprio rose e fiori.

Insieme a lui c’è Ryan Reynolds che con la sua voce anima uno dei testimonial più importanti di casa Nintendo: Pikachu. Seppure siamo tutti abituati a vedere il piccolo Pokémon elettrico in modo amorevole e amicale, Reynolds riprende bene la sua controparte del videogioco rendendolo diverso, più accattivante e maturo. Da notare che l’anima metartistica di Reynolds emerge anche in questo film. Detective Pikachu è infatti disseminato di easter eggs e riferimenti a moltissimi meme famosi sul web, dal più classico “non puoi litigare con tuo padre, se non hai un padre” alla sequenza dell’ingresso di Tim nella casa a Ryme City che cita Mamma, ho perso l’aereo e la famosa scena di Angels with Filthy Souls.

COMPARTO VISIVO

Tutti i Pokémon, come abbiamo visto anche nei trailer e nelle featurette prima dell’uscita della pellicola, sono fatti in computer grafica. Allo stesso modo gli alti palazzi e buona parte della scenografia. Gli innesti però non sono affatto chiassosi e si amalgamano molto bene con i soggetti reali e così anche i Pokémon che riescono ad essere molto espressivi. Però, la domanda che tutti ci siamo posti prima della visione è: “Quanti Pokémon ci sono? C’è il mio preferito?”.

In effetti, in Detective Pikachu c’è un gran quantitativo di Pokémon che spaziano dalla prima generazione fino a quelli trovati nella regione di Kalos. Perciò, se il vostro preferito è tra questi c’è una buona possibilità di vederlo. Una delle pecche che abbiamo riscontrato, però, è che seppure nella prima parte del film ci sia uno tsunami di creature differenti, a lungo andare, soprattutto nella seconda parte, si ripetono più e più volte gli stessi Pokémon, guastando quella sensazione di meraviglia iniziale. Nel complesso però la CGI è molto gradevole, la fotografia è eccellente e favorisce la grande gamma di colori delle piccole creature senza falsare in toni troppo saturi. Bisogna però fare un applauso al riguardo che hanno avuto per la verosimiglianza delle creature, che rispettano a pieno le voci del Pokédex per le caratterizzazioni.

Questo particolare è evidente fin dalle prime scene in cui il protagonista cerca di catturare il piccolo Cubone. Il Pokédex infatti recita: “Porta il teschio di sua madre come elmetto. Il suo verso, che fa eco nel teschio, è una triste melodia.” Tim lo trova così in una pianura a piangere e poi arrabbiarsi non appena il protagonista nomina il teschio della madre defunta. Altri esempi li abbiamo con le emicranie di Psyduck che causano esplosioni psichiche o con Charizard a cui non bisogna toccare la fiamma presente sulla coda.

AUDIO E COLONNA SONORA

Ogni Pokémon, come sappiamo, ha un proprio verso particolare. Di solito questo viene presentato come il nome ripetuto molteplici volte in diverse eccezioni ed intonazioni. Tuttavia, siamo rimasti piacevolmente sorpresi di trovare un leggero cambio di rotta, per cui finalmente i Pokémon riescono ad avere una propria voce (non è una battuta su Ryan Reynolds). Alcune creature, come Bulbasaur, Charizard, Mr. Mime, Snubbul… fanno dei versi (o non versi in caso di Mime) inerenti alla loro grandezza e atteggiamento. Certo, non tutti, ma è di sicuro un punto d’inizio per un futuro più realistico. Da notare un particolare easter egg nella scena che vede Pikachu cantare una canzone la cui melodia è presa direttamente dal sopracitato primo film sui Pokèmon.

CURIOSITÀ

Altre curiosità provenienti dal film riguardano la mitologia Pokémon e la regione in cui sarebbe inserita Ryme City. Nella camera del protagonista possiamo notare il poster della Lega di Sinnoh. Più avanti nel film vediamo anche le statue raffiguranti le tre divinità della medesima regione (Palkia, Dialga ed Arceus) e, per chi non l’avesse notato, la giornalista a cui Lucy ruba il tesserino si chiama Cynthia (nome originale della campionessa Pokémon della Lega di Sinnoh nel videogioco). Inoltre, è la prima volta che Arceus viene deliberatamente tirato in causa da un Pokémon per un evento accidentale infausto. E, seppure possa sembrare una gag per ridere, dona alla figura divina del Pokémon creazione il suo giusto posto nel pantheon e nell’universo in cui è inserito.

IN CONCLUSIONE

Nel complesso, Detective Pikachu ci è piaciuto. Ne siamo rimasti sorpresi e abbiamo riso nel raccontarci i dettagli alla fine della proiezione. Non siamo di fronte ad un capolavoro del cinema ma concordiamo nell’affermare che

“Detective Pikachu è il miglior film Live-Action tratto da videogioco fino ad ora realizzato”.

Daniele Ferullo & Carmine Aceto