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I R.E.M. e il loro (ever)Green

R.E.M. – Green 1988 Warner Bros

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Dopo cinque anni con un’etichetta indipendente, i R.E.M. firmano con la Warner Bros. Records. Segno che qualcosa nella loro carriera sta cambiando. Siamo nel 1988.
La loro uscita discografica precedente, Document, presentava sonorità punk che negli Stati Uniti sembravano non riuscire a trovare spazio e questa perseveranza premia i quattro ragazzi di Athens con la copertina di Rolling Stones.

E poi? Cambiamento, dicevamo.

Green, infatti, è un album di transizione verso quel successo mondiale che si realizzerà con Out of time e che poi verrà consacrato col capolavoro Automatic for the people. Ciò non toglie che un album, per quanto di transizione, o forse proprio per il suo esserlo, possa rappresentare un piccolo gioiello in una discografia. Inizialmente doveva trattarsi di un album doppio – una parte acustica e un’altra elettrica – ed effettivamente questa divisione rimane, tra schitarrate sfacciate e linee melodiche che percorrono un intero brano. Questa intelligente commistione di sonorità pop e folk, intessute su altre di tipo indie, non tolgono certamente spazio a testi di piena denuncia sociale. Già il solo titolo dell’album è un doppio richiamo al colore scelto dagli ambientalisti, che è anche quello dei dollari.

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Alcuni degli esempi più evidenti sono Get up, un invito ad alzarsi dal divano di casa e a far sentire la propria voce, e soprattutto World leader pretend, brano chiaramente contro Reagan, che insomma… traducete il titolo!
I testi giocano un ruolo interessante anche nel brano di apertura che è Pop song 89, dove la band che, ripetiamo, si preparava alla scalata al successo, sfotte proprio gli ascoltatori del pubblico di massa (Hello, how are you? / I know you, I knew you / I think I can remember your name). Coesistono anche venature intimiste, che prendono forma in un’altra perla come You are everything, dove viene cantato in chiave introspettiva il terrore per il mondo che sta nascendo e i riff spiazzanti e psichedelici dell’outro I remember California.

Chiamatelo album politico, chiamatelo album di transizione. Fate come vi pare. Green è uno dei cardini della discografia di un gruppo che ha sempre mantenuto la propria dignità artistica, anche nell’insidioso mondo delle major. E tiene ancora oggi il passo di molte altre produzioni, a distanza di 28 anni. Intanto speriamo che Stipe ci ripensi.

Speriamo di rivederli presto assieme.

Gianluca De Serio

 

“Canto pagano” dei Moda, Perle dagli anni Ottanta

Alla fine degli anni Settanta nella musica comincia a manifestarsi un certo malessere esistenziale, complici i cambiamenti del mondo, che non prende più solo forma in canzoni d’impegno politico ma (anche) in un genere chiamato new wave. Sebbene il genere nasca in Inghilterra, ci sono molti esempi di ottimi risultati anche in Italia. Oggi infatti vi parliamo di Canto pagano dei Moda (1987). No. Niente accento sulla a.

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Il gruppo fiorentino presenta un sound molto più vicino al glam di Bowie, dei Japan o dei Duran Duran, come ci ricorda la voce calda e carismatica di Andrea Chimenti, ed erano quindi contrapposti al filone più dark rappresentato dai Diaframma di Federico Fiumani e Miro Sassolini. Questa opera seconda dei Moda è composta da un tessuto di tastiere che si intrecciano, dando così modo alla voce e alle chitarre di entrare in scena sotto diverse vesti.
Gran parte dei testi – a dir la verità, forse non sempre all’altezza – cantano l’emarginazione, la sconfitta di qualcuno davanti alla società, o alla vita, o all’amore, e solo nei brani in coda sembra esserci un riscatto. L’urlo di aiuto che diventa rabbia di Malato, l’angoscia di chi ha subito e vuole reagire fuggendo (magari proprio dalla vita) di Uomo dei sogni, la rassegnazione davanti a un amore finito in Addio a te. Questi primi tre brani riescono a conciliare sonorità rock non immediate a una certa orecchiabilità, che ritroviamo anche in Se fossi. Da qui in poi i testi abbandonano quella resa di cui parlavamo prima e la svolta è segnata dal guanto di sfida lanciato con Spara. Janine, invece, dipingeva quadri e cercava firme per strada ed è bastato un flirt con un doppiopetto a farle allontanare lo sguardo da quadri e firme… tanto “annoiati, poi, ti getteranno via”, quindi poco male.

La vera perla arriva alla fine – seppur dopo vari brani validi – con L’America, che scardina le pose della società borghese, l’adorazione del denaro e il conformismo dilagante già allora. Questo forse è il brano più bowiano e più punk di cui il disco sentiva il giusto bisogno. Canto pagano vede la partecipazione di Gianni Maroccolo al basso e la produzione del compianto Carlo Ubaldo Rossi.

Un disco di poco meno di 40 minuti che vale la pena di ascoltare, se non altro per rivivere un periodo d’oro e poco conosciuto della musica italiana. Vi pare poco?

Gianluca De Serio

[#Marvel] Doctor Strange, la recensione

Gli ultimi anni sono stati sicuramente molto prolifici per quanto riguarda i cinefumetti, ormai diventati una realtà sempre più apprezzata sia dal grande pubblico che dalla critica. Si parla di intrattenimento di altissimo livello, ma non solo, ultimamente si nota la tendenza ad utilizzare attori di grandissimo talento per le produzioni cinefumettose, in particolare nel caso dei Marvel Studios. Doctor Strange è sicuramente uno di questi prodotti, con il protagonista interpretato da Benedict Cumberbatch, straordinario attore britannico, famoso soprattutto per la serie tv Sherlock. Oltre a lui abbiamo dei grandi attori di contorno come Tilda Swinton (Solo gli amanti sopravvivono, Snowpiercer), Mads Mikkelsen (Hannibal), Chiwetel Ejiofor (12 anni schiavo) e Rachel McAdams (True Detective). Questo dimostra la voglia dei Marvel Studios di elevare i loro film anche a livello recitativo.

Doctor Strange è il quattordicesimo film dei Marvel Studios, diretto da Scott Derrickson, ed è collocato nella Fase Tre del Marvel Cinematic Universe.

La trama è la seguente: Stephen Strange è un neurochirurgo di grande fama. Un giorno rimane coinvolto in un incidente che gli limita fortemente l’utilizzo delle mani, rovinando la sua carriera. Dopo aver speso tutti i suoi soldi cercando una cura, Strange scopre che potrebbe esistere un metodo mistico che gli consentirebbe di ritornare quello di prima. Il protagonista partirà dunque per un viaggio che lo porterà a Kamar-Taj, al cospetto dell’Antico.

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Partiamo subito dicendo che Doctor Strange è un film di intrattenimento veramente impressionante, sopratutto sul lato visivo. Sicuramente un film che non annoia neanche per un secondo, nonostante la parte iniziale sia piuttosto lenta, ma riesce comunque a far leva su un forte interesse per la faccenda e sulla bravura dell’attore protagonista. Purtroppo la pellicola soffre del solito difetto di ogni film dei Marvel Studios, il villain. Nonostante la bravura di Mikkelsen (che riesce a catturare l’attenzione in ogni sua apparizione), abbiamo il solito villain poco caratterizzato, con cui lo spettatore non riesce ad empatizzare a causa di una scrittura poco approfondita del personaggio. In alcuni momenti viene quasi da pensare che non ci creda nemmeno lui nei suoi ideali, perché il film non riesce a farci entrare nella sua psicologia.

L’Antico è un personaggio abbastanza interessante, interpretato con la solita naturalezza da Tilda Swinton. Fin dalla sua prima apparizione capiamo che potrebbe nascondere un qualche segreto che verrà svelato nel corso della pellicola.

Chiweter Ejiofor interpreta Karl Mordo, il personaggio che indirizzerà Strange nel mondo del misticismo. Un personaggio che subirà un’interessante evoluzione e di cui sicuramente sentiremo parlare molto nei film successivi (vi invito a restare fin dopo i titoli di coda).

Gli altri personaggi sono ben caratterizzati, in particolare Christine Palmer, interpreta dalla McAdams, e Wong interpretato da Benedict Wong, che rappresentano rispettivamente il lato sentimentale e il lato comico dell’opera.

La prova attoriale di Cumberbatch è di altissimo livello come al solito, anche se trattandosi di un blockbuster d’intrattenimento (d’autore, ma sempre intrattenimento) non ha sicuramente potuto dimostrare tutta la sua bravura. Lo attendiamo in qualche film più autoriale sul lato artistico.

Un difetto dell’opera è probabilmente una gestione dei tempi narrativi abbastanza altalenante, con delle situazioni approfondite fino all’eccesso e altre troppo sbrigative, ma questo non va ad inficiare minimamente la visione del film. Oltre a questo abbiamo qualche situazione comica leggermente fuori luogo, ma niente che non si possa perdonare alla pellicola.

Sul lato visivo il film è qualcosa di incredibile.

La regia di Derrickson è fatta di grande sapienza nella gestione degli elementi in scena, con dei movimenti di macchina veramente pazzeschi,  spostamenti di prospettiva che fanno venire il mal di mare solo a pensarci, ma che in mano al regista sembrano naturali e per niente confusi. La regia è accompagnata da un montaggio ben dosato, in cui le varie inquadrature hanno la giusta durata, lasciando ampio spazio al talento di Derrickson nel muovere la macchina da presa. Eccezionale il lavoro nel campo degli effetti visivi, con delle scene che lasciano a bocca aperta, in cui l’intera location ruota e si distorce in pieno stile Inception, lasciando quel senso di stupore che dovrebbe essere l’obbiettivo degli effetti speciali, ma che non in tutti i film riesce a venir fuori. Da questo lato deve esserci stato uno studio pazzesco da parte dei concept artists per decidere come ruotare le strade o i vari palazzi presenti sulla scena. Le musiche sono spettacolari, con sonorità epiche che esaltano la scena.

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Concludendo, Doctor Strange è un film che stupisce sul lato visivo. Vi consiglio di recuperarlo in sala, perché passerete due ore in cui rimarrete a bocca aperta in più di un’occasione. Non scappate via dopo l’accensione delle luci, perché ci sono ben due scene post-credits.

Antonio Vaccaro

My Bloody Valentine, la dimensione di Loveless

Anche quest’album è degli anni Novanta (1991). Anche quest’album è di una band inglese.
Loveless dei My Bloody Valentine è il manifesto dello shoegaze (letteralmente guardascarpe), coniato dai giornalisti per indicare l’attitudine di chi suonasse questo genere a guardare in basso; non le scarpe, in realtà, ma gli effetti a pedale.

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Sleep like a pillow è il verso che apre le danze e suona come una dichiarazione d’intenti. Le voci di Kevin Shields e Bilinda Butcher sembreranno arrivare da un’altra dimensione, ostacolate dal fitto muro sonoro. La batteria apre alle distorsioni di Only Shallow dove, dicevamo, è messa in chiaro l’atmosfera che attraverserà tutte le tracce. Il cantato sognante della Butcher fluttua sui suoni distorti, che sembrano portare avanti le sonorità di Psychocandy dei Jesus and Mary Chains. L’intensità dell’arrangiamento si rompe d’incanto, in coda, per cedere a un vortice di tremoli che apre alla traccia successiva. Loomer è fatta da schitarrate sullo stile dei Sonic Youth di Daydream Nation e da un tremolo in secondo piano che attraversa tutta la canzone, come una costante e lieve scossa di terremoto. Touched è un brevissimo lamento angoscioso, sempre ottenuto grazie alla leva del tremolo, ideale per portare a Here’s to know when. Quest’ultimo è forse il brano migliore, estremamente sognante, in cui le “solite” chitarre vorticose dividono la scena con un artificioso complesso di archi (che in realtà è ottenuto da chitarre campionate). When You Sleep, altra punta di diamante dell’album, esplode quasi come a voler contraddire il proprio titolo. Per la prima volta il microfono passa al buon Kevin Shields, tra riff più graffianti accompagnati da una chitarra-synth e un testo meno criptico dei precedenti. Da qui si passa a I Only Said, dove il riff scivola sulle chitarre stridenti. Molto valide anche Come In Alone e Sometimes, la prima più garage, la seconda dalle forti capacità estranianti. In coda troviamo la splendida Blown A Wish, What You Want e Soon, quest’ultima dai suoni più acidi.

Dopo anni di EP, i MBV sfornano questo capolavoro che consiste in brani dagli elementi apparentemente inconciliabili, ma che coesistono grazie a un’abilità degna di pochi. È una voce che prova ad urlare, ma non viene capita e sembra una rivoluzione incompleta. Però, dal 2014, sta assistendo a una rinascita.

Gianluca De Serio

[#Anime] Mob Psycho 100: La recensione

Mob Psycho 100 è sicuramente uno dei migliori anime della scorsa stagione. Adattamento dell’omonimo manga di One (autore del famosissimo One Punch Man) questo anime dimostra il grande talento dell’autore nel creare dei battle manga diversi da quelli a cui siamo abituati. L’anime in 12 episodi è stato prodotto dallo studio Bones con regia di Yuzuru Tachikawa.

Shigeo Kageyama (soprannominato Mob) è uno studente delle medie, ma anche un esper molto potente. Al suo interno le emozioni si accumulano rischiando di esplodere da un momento all’altro e con esse anche i suoi poteri psichici. Per questo motivo Mob inizia a rendersi conto di quanto i suoi poteri siano pericolosi e cerca in tutti i modi di vivere una vita normale per evitare di perderne il controllo. Shigeo passa le sue giornate esorcizzando spiriti per conto del suo “maestro” Reigen. E’ legato profondamente a suo fratello Ritsu, forse l’unica persona che lo accetta per quello che è.

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La trama di Mob Pyscho 100 risulta molto semplice, caratteristica che possiamo trovare anche in One Punch Man. Proprio questa semplicità riesce a fare presa nello spettatore, complici le ottime gag comiche che sono un vero “collante” per la storia. Però dietro questa semplicità Mob nasconde, a mio avviso, un’interessante critica alla società odierna, in cui a volte sembra impossibile mantenere il controllo. Infatti viviamo in una società che prova incessantemente a fare abbassare il nostro livello di attenzione, bombardandoci di prodotti televisivi e musicali sempre più di basso livello, facendoci abituare ad uno standard bassissimo. Per non parlare della classe politica, che ormai ha abbassato ai minimi termini le aspettative dei propri cittadini. In questa situazione, una persona fuori dal comune si trova oppressa, sentendosi costretta a limitarsi per non essere emarginata. Il nostro protagonista è questo, un ragazzo i cui poteri potrebbero essere utili al mondo, ma che il mondo vuole limitare a favore della più completa mediocrità.

Mob risulta essere un personaggio quasi apatico sulle prime, ma che col passare degli episodi riesce ad apparire carismatico agli occhi dello spettatore. Reigen, nonostante sia un personaggio senza particolari talenti, riesce a far sorridere lo spettatore in ogni scena in cui appare. Ritsu è un personaggio parecchio interessante, che probabilmente avrà molto da dire in futuro.

La trama scorre molto bene, con un ritmo dosato alla perfezione e una sceneggiatura che con la sua semplicità riesce a non far annoiare lo spettatore neanche per un secondo.

Sul piano tecnico lo studio Bones ci regala un vero e proprio capolavoro animato. Il design dei personaggi ricalca quello di One, quindi al primissimo impatto risulta molto semplice e diverso dagli standard odierni. Quello che però colpisce è come questo stile sia stato trasportato in animazione. Tachikawa ha curato la regia di Death Parade (che già da solo è un ottimo biglietto da visita), dimostrando un grandissimo talento nella messa in scena, ma in questo anime si è davvero superato. Le scene d’azione presentano delle carrellate impressionanti, in cui l’inquadratura si muove nella scena quasi come se fluttuasse. Oltre a questo la regia riesce ad enfatizzare determinati momenti dell’azione con dei cambi di velocità che lasciano senza fiato.

 

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Le animazioni sono curatissime, con un grande utilizzo di colori sgargianti che esaltano le scene in cui Mob utilizza i suoi poteri. Alcune apparizioni di spiriti sono realizzate con una particolarissima tecnica in stile pittura su vetro, ad opera dell’animatrice Miyo Sato, che conferisce ai demoni un aspetto grottesco, ma ne esalta il lato inquietante. Quindi è veramente da apprezzare il fatto che in un’opera che punta all’intrattenimento ci sia una tale voglia di sperimentare nuove tecniche di animazione. Sul lato sonoro troviamo delle musiche magnifiche e azzeccatissime, oltre all’ottimo lavoro del cast dei doppiatori, in particolare sul protagonista e su Reigen.

In definitiva Mob Psycho 100 è un anime che riesce a sorprendere per la sua semplicità e per la voglia dei produttori di mostrarci quanto uno staff in perfetta armonia possa realizzare un anime sorprendente sul piano tecnico.

Anime veramente imperdibile.

Antonio Vaccaro 

[#Anime] 91 Days, la Recensione

La stagione autunnale degli anime è appena iniziata ed è arrivato il momento di tirare le somme per quanto riguarda  quella estiva. Sono stati tantissimi i titoli attesi e su cui si puntava in particolar modo, fra essi Orange e Mob Psycho 100 le cui aspettative hanno un po’ oscurato altre opere. Un esempio perfetto è 91 Days, un anime della programmazione estiva e che non deve essere assolutamente sottovalutato. Sotto la regia di Hiro Kaburagi e prodotto dallo Studio Shuka, la serie è composta da dodici episodi più un episodio riassuntivo molto utile e ne spiegheremo più avanti il perché. La sigla di apertura è interpretata da TK, cantante dei Ling Tosite Sigure, che ha già prestato la sua musica a titoli del calibro di Tokyo Ghoul e Psycho-Pass.

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La storia è ambientata durante il proibizionismo nella città di Lawless, in cui è la mafia, e non lo Stato, a fare da padrona. La trama trova il suo sviluppo quando, a causa di una guerra fra clan, viene massacrata la famiglia Ragusa, con a capo Testa Ragusa, ad opera di Vincent Vanetti e alcuni suoi uomini; l’unico superstite del massacro è il primogenito, Angelo Ragusa, che riesce a fuggire. Sette anni dopo, assunta l’identità di Avilio Bruno, il ragazzo riceve una lettera da un misterioso amico del padre in cui sono elencati tutti gli uomini responsabili dello spargimento di sangue della sua famiglia. Avilio torna quindi a Lawless per entrare nelle grazie della famiglia Vanetti, diventata intanto una delle cosche più forti, e attuare la sua vendetta.

Ovviamente risulta increscioso che a personaggi mafiosi vengano associati nomi italiani, anche poco credibili, come ad esempio “Cerotto” o “Scusa”, ma questo è un problema con cui l’Italia combatte da tempo.
L’anime ha delle potenzialità enormi, ma forse non ben sfruttate. Raccontare una storia di mafia non è mai semplice viste anche tutte le implicazioni che porta la concezione stessa della parola, fra le principali, il concetto distorto di famiglia. Gestire caratterialmente e psicologicamente così tanti personaggi diventa difficilissimo in dodici episodi, infatti possiamo notare che il character design è studiato in modo egregio, con tantissimi punti di forza: personaggi tutti diversi fra loro, ognuno con la propria peculiarità fisica e non solo (fra loro, per forza di logica, è Avilio a essere caratterizzato alla perfezione). Nero Vanetti, fulcro della storia, e Corteo, amico d’infanzia del protagonista, sono altri sue personaggi molto interessanti e su cui notiamo una crescita di impatto sulla storia molto notevole.

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Con personaggi tanto funzionanti, la storia cattura sin dal primo episodio; forse è più il carisma che essi trasmettono a conquistare subito l’interesse dello spettatore. Però bisogna fare molta attenzione agli eventi poiché, a livello di trama, la storia è fondamentalmente divisibile in due parti: una prima parte in cui Avilio deve conquistare la fiducia della famiglia Vanetti e una seconda frazione in cui si compie il piano del personaggio principale.
Particolare concentrazione va dedicata alla prima metà della storia perché bisognerà entrare innanzitutto nel clan dei Vanetti insieme al protagonista e imparare a conoscerne i membri, i caratteri, il passato e gli affari che ognuno di loro conduce; successivamente gli avvenimenti si intrecciano con le altre famiglie più influenti e non solo, quindi bisogna prestare particolare attenzione a ciò che esse aggiungono alla trama.
La prima parte pecca per una stesura poco chiara delle sceneggiatura, vista la presenza di troppi eventi tutti in una volta, troppo veloci e poco assimilabili; ma nulla da temere, prima che inizi sul serio la vendetta di Avilio, quindi fra la prima e la seconda metà della serie, è stato mandato in onda un episodio riassuntivo per fare il punto della situazione e in cui si rispiega la storia dall’inizio. Nonostante qualche momento di confusione, la visione è altamente godibile, tenendo lo spettatore in continua tensione e favorendo la suspense.

Ottimo il lavoro tecnico, con dinamiche veloci, regia di alto livello e disegni ben delineati, con un tratto un po’ semplice che caratterizza l’intera opera. Eccelsa la rappresentazione, inoltre, dell’America degli anni ’20, fra ambientazioni e luoghi caratteristici.

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Nonostante tutto, 91 Days presenta alcuni difetti grossolani ed elementari: innanzitutto, per quanto i protagonisti siano ben caratterizzati, si lascia poco spazio ai coprotagonisti, non nel senso che sono poco presenti nella narrazione, anzi, ma che il loro background psicologico è poco studiato. Riprendiamo di nuovo Corteo, ad esempio, che ha subito un’evoluzione disarmante, ma del suo passato, dei suoi perché, della sua persona, si sa poco o niente.
Inoltre, sono tante le situazioni poco credibili e, soprattutto, non spiegate minimamente o rimaste approssimative. Ma tutto questo di certo non rende l’anime un titolo da buttare via, anzi, è stato uno dei titoli di punta e, sicuramente, uno dei più riusciti della stagione estiva.

91 Days è una storia di vendetta, di fiducia e di azione che, con molta profondità, si addentra nell’animo umano per farne risaltare i contorni frastagliati creati dalla storia e dalla singolarità di ogni individuo.
Buona visione!

                                                                                                        Paolo Gabriele De Luca

La “Different Class” dei Pulp

Si dice che tra i due litiganti il terzo gode.

Nell’Inghilterra degli anni Novanta, per distinguersi dall’ormai agonizzante grunge americano, nasce la scena brit pop, le cui band di punta sono Blur e Oasis. Mentre Damon Albarn e i fratelli Gallagher sono impegnati a fare a gara a chi vende di più, in un altro punto dell’Inghilterra succede qualcosa.

Ma facciamo un passo indietro. (cit.)

Nel 1994 un’altra formazione esce con l’album His ‘n Hers, dove si nota una forte crescita stilistica fatta di quelle venature glam che caratterizzeranno l’album successivo. Questa formazione si chiama Pulp, e nell’anno a venire, pubblicherà il lavoro della consacrazione, pietra miliare del britpop e degli anni Novanta: Different Class.

Il quinto album dei ragazzi di Sheffield dà voce alla classe differente che sono tutti gli outsider, gli esclusi. E della loro vita c’è tutto: dal biglietto da visita iniziale di Mis-Shape («We want the things / you don’t allow us / We won’t use guns / We won’t use bombs / We’ll use the one thing / we got more of / That’s our minds») alla conclusiva vita notturna di Bar Italia.

La voce di Jarvis Cocker è una fantastica commistione tra lo stile chansonnier del primo Scott Walker e quello di Serge Gainsbourg, con un’impostazione, anche sul piano estetico, che ricorda i cantautori francesi esistenzialisti degli anni Cinquanta.

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Parti più urlate si alternano ai molto più frequenti episodi sussurrati che vogliono sedurre durante l’ascolto in cuffia. Le chitarre si alternano alle orchestrazioni, come in I Spy, e cedono il passo a brani più easy listening (è il nome del genere, non un inglesismo buttato là!) come Sorted for E’s and Wizz, brano con chiaro riferimento all’ecstasy e quindi censurato dalla rotazione musicale. Non meno degno di attenzione è Something Changed, accompagnato da uno splendido basso e da un testo che trascende il naturale scorrere del tempo.

In un lavoro del genere non può mancare, in pieno stile del tempo, qualche riflessione sull’amore, come la ballabile Disco 2000, che diventerà anche il brano più conosciuto di tutta l’opera. Nella seconda parte della playlist si incontra anche la piccola perla F.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E., dove il suono dei Pulp prende una piega avant garde, tra le già citate orchestrazioni e un parlato che cede il passo a esplosioni sonore nel ritornello.

Different Class dà quindi racconta gli outsiders e lo fa in modo decisamente orecchiabile (pop!). Schizza al primo posto della classifica inglese e viene premiato con quattro dischi di platino.

Oggi, se fate zapping tra le pubblicità, vi potrà capitare di ascoltare qualcosa di familiare.

Gianluca De Serio

[#Anime] Orange, la Recensione

Uno degli anime più apprezzati di questa stagione estiva è stato sicuramente Orange, adattamento animato dell’omonimo manga in 5 volumi di Ichigo Takano. L’anime è terminato il 25 settembre con l’episodio numero 13. La serie è stata prodotta dallo studio TMS Entertainment con regia del grande Hiroshi Hamasaki.

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La trama è la seguente: La giovane liceale Naho Takamiya riceve una lettera che sembra sia stata inviata dalla se stessa di 10 anni più vecchia. La lettera ha come scopo quello di impedire a Naho di compiere gli stessi errori che sono causa di rimpianti alla sua versione del futuro, concentrandosi particolarmente sul rapporto tra la giovane e il destino di Kakeru Naruse, uno studente appena trasferito nella scuola della protagonista. Infatti da lì a 10 anni il giovane Kakeru non sarà più in vita. Lo scopo principale della lettera è proprio quello di salvarlo.

La trama di base è sicuramente molto intrigante, infatti guardando il primo episodio diventa quasi fisiologico proseguire nella visione. Di certo non si tratta di nulla di originale, ma il tema “tempo” riesce sempre ad attirare l’attenzione (ne parliamo qui).

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La vera forza dell’anime è sicuramente il lato emotivo, che viene gestito con una raffinatezza veramente sorprendente. Osservando la protagonista si può notare come si tratti di una ragazza veramente molto timida e sensibile. Proprio la timidezza è una micro-tematica che passa leggermente in sottotrama, ma che viene gestita molto bene da Takano. Infatti Naho, nonostante abbia una lettera che gli spiega passo per passo come agire per non commettere errori, si trova comunque in difficoltà a causa del suo stesso carattere, arrivando addirittura a dialogare simbolicamente con la se stessa del futuro, dicendogli che “per lei è facile parlare dopo”. Una riflessione interessante, che lascia intendere che la timidezza è qualcosa di molto più profondo della semplice “paura di sbagliare” (Naho sa che non sbaglierebbe, c’è scritto sulla lettera). Forse Takano vuole comunicarci che per lui la timidezza è anche solo la semplice paura di poter creare disagi agli altri, quindi è meglio tenersi il problema piuttosto che esporsi e crearne a chi ci sta intorno.

Per quanto riguarda i personaggi, abbiamo veramente delle ottime caratterizzazioni. Il gruppo di Naho è strutturato in modo tale da sembrare un unico grande personaggio composto da 6 elementi.

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In particolare Suwa è quello che più mi ha colpito, personaggio di grande forza emotiva, per cui si prova un’affezione e un rispetto quasi incondizionati.

Kakeru invece è un personaggio che sulle prime sembra abbastanza vuoto, anche perché Takano decide di esplorarlo con il passare degli episodi, nascondendoci quelli che sono i suoi pensieri e la sua psicologia. Una scelta coraggiosa e a mio avviso azzeccata, anche se si tratta di un personaggio che probabilmente non starà simpatico a tutti. A lui sono legate alcune interessanti tematiche che verranno sviluppate nel corso della serie, come la perdita e il suicidio.

Takako Chino è la dura del gruppo, sempre pronta a fare di tutto per i propri amici. Forse il personaggio che rimane meno impresso tra tutti quelli del gruppo, ma le sue azioni quando si presentano risultano incisive.

Azusa Murasaka è un personaggio che riesce a trasmettere una grande allegria, anche grazie alla sua caratterizzazione fisica, quasi sempre sorridente.

Saku Hagita è il secchione del gruppo, ma che risulta terribilmente maldestro. Divertentissimi i siparietti in cui compare quasi dal nulla come voce della verità. Sicuramente un personaggio che rimane particolarmente impresso.

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La sceneggiatura scorre molto bene, anche se si nota un fisiologico allungamento dei tempi narrativi nella trasposizione da manga ad anime (l’opera cartacea ha un ritmo molto più rapido e godibile). A parte questo si notano delle differenze trascurabili tra le due versioni.

Un piccolo difetto dell’opera sono senza alcun dubbio alcune reazioni umane forse eccessivamente amplificate e poco spontanee, in particolare nel rapporto tra Naho e Kakeru, dove si nota tanta macchinosità in alcuni frangenti. Per il resto si tratta di una serie piacevolissima e che ha il pregio di far commuovere in diverse occasioni.

Per quanto riguarda l’apparato tecnico, abbiamo delle animazioni molto buone, anche se si nota un netto calo di qualità verso metà serie, cosa veramente inspiegabile, trattandosi di una serie breve e quindi facilmente gestibile sul piano del carico di lavoro dello studio d’animazione. Probabilmente gli sforzi dello studio si sono concentrati sull’episodio finale (lungo 40 minuti), che ha una qualità grafica veramente pazzesca. Il character design di Nobuteru Yuki è praticamente identico a quello di Takano, quindi su questo piano c’è veramente poco da dire.

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La regia di questo anime è veramente oggetto di riflessione. Hamasaki è un regista con uno stile veramente molto particolare. Basta guardare le sue opere passate per notare come questo regista abbia un grande coraggio e una grande voglia di sperimentare. Lo ha dimostrato con la regia lenta e psichedelica di Texhnolyze, con quella cupa e ricca di enfasi di Shigurui, oppure con le splendide inquadrature di Steins;Gate (in cui ha collaborato con altri registi). Con Orange invece il buon Hamasaki mette in scena una regia spontanea, pulita e rispettosa dell’opera originale, a volte trasportando in animazione le stesse inquadrature di Takano. Il regista riesce ad esaltare la straordinaria forza emotiva di quest’opera con una regia quasi da mestierante, ma con una raffinatezza che in pochi possono permettersi.

Il commento musicale è praticamente onnipresente, composto da brani acustici molto belli, che riescono a potenziare ulteriormente la forza delle immagini e dei sentimenti dell’opera. Molto bella ed orecchiabile l’opening della serie.

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Concludendo, Orange è un anime che fa della forza emotiva la sua caratteristica principale, con contorno della tematica temporale che fa sempre gola agli amanti della fantascienza. 13 episodi con un buon ritmo e per cui sarà difficilissimo annoiarsi. Un anime che sicuramente può garbare anche a chi odia il genere sentimentale.

Antonio Vaccaro

https://youtu.be/hUKDafCRG9k

[#Manga] A Silent Voice

Per fortuna che a Settembre inizia la nuova stagione degli anime, altrimenti sarebbe ancora più difficile la ripresa della normale routine!

Il lotto di titoli per questo autunno 2016 parte col botto, infatti per il 17 di questo mese è previsto l’inizio di A Silent Voice, film anime tratto dal fortunato manga omonimo di Yoshitoki Ōima. Ottenuta una nomination nel Febbraio 2015 al Premio culturale Osamu Tezuka, l’opera si è fatta strada diventando particolarmente famosa e apprezzata. In Italia il manga è stato distribuito da Star Comics e si è concluso alla fine del 2015.

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Visto l’arrivo di un adattamento anime, noi di Nerd30 vogliamo parlarvi del manga e delle emozioni che esso riesce a suscitare, nonostante la storia possa far apparire l’opera come un ibrido fra uno shoujo e uno shonen.
Shoya Ishida è un bambino delle scuole elementari particolarmente vivace. L’arrivo di una nuova alunna in classe cambierà per sempre la sua vita: Shoko Nishimiya è una bambina sorda che è costretta a comunicare attraverso un quaderno e che, a causa del suo handicap, sarà oggetto di bullismo, soprattutto da parte di Ishida. Terribilmente provata da questa situazione, la ragazzina sarà costretta a cambiare scuola e tutta la colpa ricadrà sul giovane protagonista che diventerà a sua volta vittima dei bulli. Si assisterà quindi a un moto di chiusura di Ishida sempre più opprimente che lo porterà, al terzo anno di liceo, a riprendere i contatti con Shoko per redimersi dagli errori che ha commesso in passato.
È facile pensare che “A Silent Voice” sia un’opera intenzionata a smuovere la compassione del lettore, ma questo è l’ultimo degli obiettivi. Il fattore handicap diventa quasi marginale durante la narrazione: assisteremo, infatti, non alle difficoltà che la giovane Shoko deve affrontare nella sua vita quotidiana, ma alle problematiche che la sua condizione le porta soprattutto nella vita sociale e poi in quella sentimentale, fattori fondamentali nella vita di un’adolescente.
Il character design, proprio per questo motivo, è ben strutturato: il tormento di Ishida è delineato in modo talmente chiaro che è facile capire tutti i perché delle sue scelte, delle sue azioni e del suo essere; inoltre ci vuole una grande maestria per rendere così ben definito un personaggio che non parla, se non attraverso il linguaggio dei segni, quindi tanto di cappello a Ōima. Per fortuna non sono solo i due protagonisti il fulcro della storia, infatti durante le vicende entreranno in gioco altri personaggi, la maggior parte legati a Shoko, che non saranno di semplice contorno, ma di grossa rilevanza psicologica e piomberanno nelle vite dei due ragazzi cambiandole per sempre.
Sorprendentemente piacevole è la delicatezza degli eventi in cui tutti i protagonisti vengono inseriti, mai troppo spinti, mai troppo emotivi, vista l’impronta sentimentale, e mai troppo esasperati. Ad esempio, ciò che nasce fra Ishida e Shoko, che sia amicizia o qualcos’altro sta a voi scoprirlo. Trattazione sensibile e raffinata, senza mai sfociare in sentimentalismi inutili e buonismi dovuti ai sensi di colpa che attanagliano il ragazzo.

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L’unico difetto riscontrato è la poca veridicità nel punto in cui tratta l’avvicinamento repentino di Shoko a quello che qualche anno prima era il bullo che la tormentava. All’inizio, forse, sarebbe stato normale respingerlo più volte, anche per chi ha un carattere dolce come quello della ragazza, che invece non ci mette poi così tanto a fidarsi del giovane Ishida. Ma dopotutto, visto come è bene strutturata la storia, ci si può passare sopra.
Per quanto riguarda la qualità tecnica, “A Silent Voice” ha un tratto un po’ spigoloso ma delicato e leggermente elementare che contribuisce a rendere il disegno pulito e piacevole. Ottimo il lavoro di regia, con inquadrature azzeccate e luci e ombre ben posizionate. Unica problematica è la confusione di alcune scene, in cui le dinamiche sono disegnate in modo contorto, risultando poco chiare al lettore.
“A Silent Voice” racchiude in sé, quindi, molte tipologie di manga e, grazie alla sua impronta matura, è classificabile anche come seinen. Tante le tematiche dure oltre alla difficoltà di vivere con un handicap, quali il suicidio, l’esclusione, la sofferenza interiore, il sentirsi un peso e tantissimi altri, non solo peculiari dell’età adolescenziale. Il manga ci ricorda con una sensibilità disarmante quanto il bullismo possa essere determinante per la vita di un ragazzo e quanto esso sia sbagliato, anche per chi lo pratica.
Sperando che l’anime possa rispecchiare le qualità dell’opera originale, vi auguriamo una buona lettura!

                                                                                                               Paolo Gabriele De Luca

[#Cinema] X-Men: Apocalisse – Recensione

Il 18 Maggio è sbarcato in Italia il nuovo film sugli X-Men, diretto dal solito Bryan Singer (I Soliti Sospetti) già regista di altre tre pellicole dedicate ai mutanti di casa Marvel, ovvero X-Men (2000), X-Men 2 (2003) e X-Men: Giorni di un futuro passato (2014).

La versione cinematografica degli X-Men ha sempre riscosso un notevole successo, sia sul piano del puro intrattenimento, sia per le profonde tematiche che tratta, che li rendono dei cinefumetti “atipici” rispetto agli altri.

X-Men: Apocalisse fa parte di una nuova trilogia incentrata sulle versioni “giovani” dei protagonisti dei primi due film diretti da Singer e di X-Men: Conflitto Finale, diretto da Brett Ratner.

La trama del film è la seguente: Un mutante antichissimo e potentissimo, noto come En Sabah Nur (Oscar Isaac), viene risvegliato dal suo sonno millenario. Dopo aver reclutato quattro dei mutanti più potenti della Terra si prepara a distruggere il mondo, per poi ricrearlo a propria immagine, convinto che l’umanità si sia smarrita durante la sua assenza. I mutanti guidati da Charles Xavier (James McAvoy) dovranno impedirglielo.

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Se dovessi dare un giudizio generale su X-Men: Apocalisse lo definirei un film “bello, ma con seri problemi alle spalle”. Questo film segna un cambio di rotta abbastanza netto rispetto agli altri film della saga, sia nei confronti della prima trilogia che degli altri due film appartenenti a questa seconda trilogia. Gli altri film sugli X-Men hanno sempre avuto dalla loro una certa profondità nella narrazione, toccando argomenti come razzismo e xenofobia. Questa “paura del diverso” è sempre stato “quel qualcosa in più” che ha reso i film sui mutanti dei piccoli gioiellini rispetto alla quantità gigantesca di cinecomics che ogni anno escono nelle sale. Purtroppo questa tematica viene solamente sfiorata in questo X-Men: Apocalisse, rendendolo un film che si regge quasi totalmente sul puro gusto estetico, e soprattutto lo rendono un film che vuole fare troppo in sole 2 ore e mezza, sacrificando la qualità per la quantità. Questo naturalmente potrebbe essere considerato come un parere soggettivo, del resto chi legge potrebbe pensare “ma dopo così tanti film è anche giusto abbandonare quelle tematiche”. Il problema è che grazie a quelle tematiche si aveva la possibilità di sviscerare i caratteri dei personaggi per renderli più umani allo sguardo dello spettatore, dandogli uno spessore che in questo X-Men: Apocalisse è quasi totalmente assente. A questo si sarebbe potuto sopperire con delle sotto-trame volte ad approfondire i singoli personaggi, ma sarebbe stato impossibile da fare in un solo film di 2 ore e mezza. Purtroppo questo rende buona parte dei personaggi delle vere e proprie “macchine da combattimento” senza nessuno spessore psicologico. Persino le motivazioni di un personaggio complesso come Magneto (Michael Fassbender), motivazioni in cui lo spettatore poteva ritrovarsi nei film precedenti, qui si riducono ad un misero cliché che viene fuori alla fine di una scena assurda e quasi delirante (sia per l’evento che per come è messa in scena), che va a sommarsi ai problemi di sceneggiatura di questa pellicola.

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Nel villain ritroviamo gli stessi identici problemi di assenza di background, che lo rendono un personaggio veramente poco carismatico, cosa che in parte viene sopperita dall’ottima prova recitativa di Oscar Isaac, nonostante fosse coperto da un make-up che in alcuni frangenti lo rendevano simile ad un cattivo dei Power Rangers. Vedendo le potenzialità di questo personaggio viene da chiedersi perché non sia stato dedicato un quarto d’ora di film a farci vedere qualcosa della sua giovinezza, della scoperta dei suoi superpoteri. Questo lo avrebbe reso un personaggio nettamente più interessante. Gli stessi cavalieri a mio avviso non hanno nessuna profondità.

Oltre a questo si notano delle forzature eccessive presenti in qualche scena, alcune delle quali sono fondamentali per l’andamento della trama, quasi a voler dire “questo succede perché sì!”, ma come disse il buon Bud Spencer in “…Altrimenti ci arrabbiamo”, questa “non mi pare una risposta convincente”. Nel complesso il film sembra composto da una serie di blocchi che fluttuano nell’aria senza niente che li tenga attaccati.

C’è da meravigliarsi che la sceneggiatura sia di Simon Kinberg, lo stesso che aveva scritto Giorni di un futuro passato, un vero e proprio capolavoro del genere cinefumettistico.

Buono invece il trattamento riservato a Xavier (James McAvoy) e soprattutto a Pietro Maximoff alias Quicksilver (c’è una scena di 3 minuti con lui protagonista che da sola vale il prezzo del biglietto. Singer ha impiegato più di 3 mesi per girare quella singola scena). Il film risulta essere coinvolgente e le due ore e mezza sembrano volare, anche perché l’azione è ben dosata e non risulta essere mai eccessiva, nonostante in alcune scene vi sia un distruzione quasi totale.

La regia è ottima nella buona parte delle scene, ma scade in altre. Stessa cosa per gli effetti visivi, che sono veramente spettacolari in alcuni momenti, mentre in altri sembrano incollati rapidamente in post-produzione. Ottima la fotografia, in particolare nelle scene in cui è presente Apocalisse, dove i colori perdono saturazione, quasi a voler rappresentare il suo effetto negativo sul mondo.

Nel complesso X-Men: Apocalisse è un film che intrattiene alla grandissima, ben diretto, ma con una sceneggiatura da rivedere.

Antonio Vaccaro