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Reading sul ’68 al DAM Unical con Ugo G. Caruso e Aldo D’Orrico

RENDE (CS) – “1968. Cambiate il mondo, sto arrivando!” è la personalissima rievocazione tra il tenero e l’ironico, a distanza di mezzo secolo, dell’anno più mitizzato e controverso del secondo Novecento da parte di un dodicenne di allora, timido ed ingenuo ma già molto curioso ed ansioso di gettarsi nella mischia, come si può intuire dall’esortazione contenuta nel titolo. Quel dodicenne è Ugo G. Caruso che riprendendo un suo testo a metà tra il racconto e il saggio, pubblicato con successo dieci anni prima, ha deciso sul finire dell’anno scorso di riproporlo in forma di reading, rielaborato e aggiornato, a distanza di mezzo secolo dal ’68.

Mercoledì 13 marzo alle ore 21 Caruso porterà il reading all’Università della Calabria, che non visse quei fermenti perché non esisteva ancora (la legge istitutiva è del 1968) ma sarebbe sorta di lì a poco e proprio sulla scia di quelle idee, nella prosecuzione dello spirito che aveva animato quel movimento di protesta.

La serata, organizzata dall’Associazione Culturale Entropia nella sala teatro del DAM – Filorosso (Edificio Polifunzionale), segna in qualche modo l’esordio di Caruso nel teatro di narrazione. Scritto, messo in scena e raccontato dallo stesso Caruso, lo spettacolo si avvarrà dell’accompagnamento di Aldo D’Orrico, uno dei più originali ed apprezzati artisti della scena musicale cosentina, che con la sua chitarra ricreerà l’atmosfera musicale dell’epoca, reinterpretando una serie di brani che contribuirono in modo determinante alla maturazione di quel clima sociale e culturale. Il reading sarà preceduto da un breve video realizzato da Lucio Montera, ultradecennale collaboratore di Caruso, che raccoglie una serie di scatti celebri che documentano quell’anno.

Lo spettacolo, sintetizzato per certi versi nell’elaborato mosaico della locandina firmata da Marco Cotti, racconta attraverso aneddoti spiritosi e spesso paradossali il disorientamento ed il senso di inadeguatezza frammisto al desiderio di partecipazione del giovanissimo Ugo di fronte a quel rivolgimento profondo e all’apparenza improvvisa che turba il mondo degli adulti, destabilizza le certezze conclamate, preoccupa l’establishment, mette in crisi persino il linguaggio comune.

E ovviamente non tralascia neppure di ricordare gli effetti sortiti nella piccola comunità cosentina fin lì intorpidita in un prolungato dopoguerra, a dispetto del boom già esauritosi, che ne viene traumatizzata fino a dividersi tra l’eterno ancien regime meridionale e quanti vogliono agganciarsi ai nuovi fermenti.

Ricostruendo mese dopo mese i tanti accadimenti succedutisi a livello planetario durante l’anno, quasi in modo simultaneo e ad un ritmo tamburreggiante, il testo esplora i cambiamenti nello scenario politico internazionale, nel costume, nella musica, nelle arti, nel cinema, nella televisione, nella pubblicità, mescolando gli eventi epocali alle novità più “pop”, in una sarabanda che coinvolge Herbert Marcuse e Gianni Rivera, Valle Giulia e il Golfo del Tonchino, Martin Luther King e Otis Redding, il Maggio francese e la Primavera di Praga, Ho Chi Minh e George Best, Patty Pravo ed Angela Davis, la missione dell’Apollo 8 e Il pianeta delle scimmie, Corto Maltese e Bob Kennedy, Sergio Endrigo e Cassius Clay, Rudi Dutschke e Bob Dylan, la Mrs Robinson de Il laureato e la seducente insegnante di matematica della seconda media, il sottomarino giallo e l’astronave di 2001 Odissea nello spazio, i provos e i zengakuren, i Beatles e Il Circolo Picwick, Snoopy e Pasolini, Daniel Cohn Bendit e Carosello, Piazza delle Tre culture e il cortile di casa.

Il tono volutamente umoristico nel descrivere i tanti fraintendimenti in cui incorre il narratore per via dell’età troppo acerba per poter cogliere appieno il senso di quella protesta generazionale e delle vicende che ne seguirono, è alternato a rapide considerazioni a posteriori dell’autore, alla luce della sua formazione storico-politologica e del suo impegno negli anni immediatamente successivi.

Il racconto si conclude con un augurio che cade in un momento in cui se ne sente davvero il bisogno: quello che possa ricrearsi un nuovo ’68 inteso come ritorno all’engagement, agli ideali di cambiamento, ad una presa in carico delle sorti del mondo, in sostanza una potente rigenerazione collettiva.

Ugo Caruso “porta” Bob Dylan al Museo del rock di Catanzaro

CATANZARO – «Il messianesimo di Bob Dylan tra palingenesi sociale e apocalisse rivoluzionaria” è l’intrigante tema della conferenza con Ugo G. Caruso in programma mercoledì 1 marzo alle ore 18 al Museo del Rock di Catanzaro.
Caruso, studioso di cultura di massa, frequentatore da sempre del rock e osservatore attento dei fenomeni controculturali degli anni sessanta-settanta, nei mesi scorsi, a ridosso del conferimento del controverso Premio Nobel al menestrello di Duluth, aveva già dato vita ad un appuntamento a Roma, al “Cineforum del Lunedì”, in cui attraverso il bel film dei fratelli Coen” A proposito di Davis” aveva effettuato un primo approccio a Dylan partendo dagli “early days” al Greenwich Village e dall’amicizia con Dave Van Ronk, modello riconoscibilissimo dello scalognato cantautore protagonista della vicenda narrata.
Adesso torna a Dylan con una riflessione più organica e compiuta che parte da uno sguardo diverso rispetto a quello cui siamo abituati. «Dylan infatti è prigioniero -secondo Caruso-  di un’iconografia contraffatta che lo vuole poeta del disagio giovanile, cantore della protesta, schitarratore pacifista da sit-in. Insomma è appiattito e deformato sulle linee guida della cultura giovanile dell’epoca. Al contrario, Dylan non è mai stato nè giovane nè giovanile. È piuttosto affine e  assimilabile a certi profeti del Vecchio Testamento. Ed infatti sullo sfondo delle sue canzoni appare l’Apcalisse, come quella preconizzata da Giovanni. E tutta la sua opera è pervasa da uno spirito messianico di marca giudaico-cristiana. Anzi, per molti Robert Allen Zimmerman è l’ultimo profeta e il suo repertorio è una versione moderna della mistica bibblica». C’è una corrente interpretativa che ha sempre sostenuto che il libertarismo dylaniano e la sua visionarietà discendono direttamente da un filone di pensiero e da una tradizione letteraria di matrice ebraica. Caruso si propone di elaborare originamente queste tesi, a conferma delle quali, al termine della sua conversazione, proporrà un film raro e semisconosciuto del 2003, “Masked and Anonymous” scritto dallo stesso Dylan insieme al regista Larry Charles (già autore del politically uncorrect “Borat”) ed interpretato da lui stesso insieme ad un folto stuolo di attori popolarissimi che accettarono a suo tempo di lavorare praticamente gratis in virtù della loro ammirazione nei confronti del cantautore: Jeff Bridges, Jessica Lange, John Goodman, Penelope Cruz, Luke Wilson, Angela Bassett, Bruce Dern, Giovanni Ribisi, Chris Penn, Fred Ward, Ed Harris, Val Kilmer, Christian Slater, Susan Tyrrell, Steven Bauer e vari altri.
Il film, sorprendente, provocatorio e controverso mostra un’America prossima ventura in preda alla guerra civile, messa a soqquadro da guerriglieri, insomma in una condizione prerivoluzionaria che potrebbe rovesciare il presidente dittatore al potere. Nella sua immaginifica vicenda si riflettono fedelmente il mondo interiore, le intuizioni e le aspirazioni profonde dell’artista.

Gli artisti cosentini omaggiano Luigi Tenco

COSENZA – Una serata per Luigi Tenco pensata come un atto d’amore nei confronti di un artista che resta indimenticato grazie al lascito delle sue canzoni. Questo è il senso de “Un amore mai troppo lontano”, l’incontro ideato da Ugo G. Caruso, storico dello spettacolo che ha voluto mettere insieme alcuni artisti della scena musicale cosentina per tributare un omaggio collettivo al cantautore scomparso. L’appuntamento è fissato per le ore 21 di sabato 28 gennaio al Cavern Club di Cosenza. La kermesse, condotta dallo stesso Caruso, è stata pensata con la consulenza di Franco Panno. Caruso illustrerà l’importanza artistica di Tenco nel contesto musicale e sociale del tempo, riferendo  testimonianze dirette di quanti lo conobbero, da lui raccolte nel corso della sua attività di studioso.
Poi sarà la volta della musica. In scena si alterneranno, come detto, vari artisti, riconducibili ad ambiti, esperienze e generazioni diverse, tutti presenti a titolo amichevole, a ribadire il forte sentire per l’evento.

In scena la rassegna jazz “Ombre sonore. Storie di musica attraverso il cinema”

Martedì 17 alle ore 21 a Rovito, Ugo G. Caruso propone Miles electric: a different Kind o Blue di Murray Lerner , un’opera del 2004 a metà tra il documentario e il film-concerto che racconta la lunga e travagliata fase in cui sul finire degli anni sessanta Davis reinventò ancora una volta il jazz cambiando la storia della musica. La svolta elettrica che gli valse il ripudio di parte importante della critica, venne al termine di una lunga sperimentazione compiuta insieme ad un gruppo di musicisti straordinari che egli scelse come compagni d’avventura e che culminò con la straordinaria performance del 29 agosto 1970 di fronte alla sterminata platea di seicentomila giovani radunatisi all’Isola di Wight, a sud della costa inglese, esperienza fin lì assolutamente inedita per qualunque jazzista (ad eccezione forse di certe esperienze di Charles Lloyd da lui infatti invidiate) e nel concepimento in quello stesso anno di un doppio album rivoluzionario, Bitches brew, che avrebbe segnato non solo una rottura con quello che fino ad allora era stato il jazz ma un cambio di direzione verso nuove sonorità e per taluni versi, l’incontro con il rock con il soul e il funky. Ugo G. Caruso, all’epoca giovanissimo appassionato di rock cui da poco si era dischiuso il mondo in cui risplendevano Jimi Hendrix, The Doors, Pink Floyd, King Crimson, Traffic, Crosby Stills Nash e Young, Grateful Dead e Jefferson Aiplane, ricorda l’eco progagatasi sulle riviste musicali italiane del raduno di Wight e soprattutto il precoce incontro con quell’oggetto misterioso che fu per tutti “Bitches Brew”, tanto più per un ragazzo di quattordici anni quale era. A conversarne insieme a lui ci sarà Michele Cozza della Libreria Ubik di Cosenza, già tra gli ideatori  del Festival delle Invasioni e collaboratore di varie riviste specializzate. Il film di Murray Lerner documenta quello straordinario periodo di inquietudini artistiche e di sperimentazioni estreme di cui la migliore testimonianza restano i 38 minuti furenti di musica che costituiscono quell’indimenticabile performance prodotta a Wight da Davis e dalla sua band e riproposta integralmente nel film. Al termine, il pubblico, massimamente costituito da giovani appassionati di rock, ancora frastornato, perplesso ma incantato, si chiese a cosa avesse assistito e domandò il titolo dell’unico, interminabile brano appena ascoltato. Davis allora rispose: “chiamatelo come volete!”. Il film racconta tante cose: ildifficile rapporto di Davis con la Columbia del suo omonimo neopresidente Clive Davis , la sua sfida ad un certo rock-jazz bianco come quello dei Blood Sweat and Tears, il sodalizio con il produttore Teo Macero, l’incontro con Betty Mabry cui, pare, debba la scoperta di Otis Redding, James Brown, Jimi Hendrix, Sly & The Family Stone, l’intenso scambio con musicisti come Gil Evans, Joe Zawinul , Cannonball Adderly e Wayne Shorter, la ricerca della libertà creativa assoluta perseguita attraverso una strada diversa da quelle battute a suo tempo da John Coltrane come pure dall’esperienza free di Ornette Coleman, la costruzione di un percorso originale, duro, incerto, ostico, per molti aspetti ispirato da un’ermetica simbologia africana e da saperi esoterici. Il risultato è quello di una musica totalmente nuova e indefinibile che pur conservando echi di tante esperienze passate lascia esterrefatto chi l’ascolta, compreso i consueti ammiratori di Miles, talvolta estaticamente ammaliati, talaltre urticati e sgomenti. Dopo le esperienze preparatorie di album come Filles of Kilimanjaro o In a silent way è Bitches Brew l’opera della grande svolta in cui confluisce non solo l’esperienza davisiana ma anche quelle di altri filoni musicali esterni al jazz, gli stessi in cui era stata tentata una fusione tra blues, funky e psichedelia. Bitches brew è l’album della rottura totale, della scomunica da parte della critica più purista, come quella rappresentata nel film da Stanley Crouch, che farà sentire i suoi effetti per  anni, fino al tardivo riconoscimento come capolavoro epocale al pari dell’altra opera fondamentale, quel Kind of Blue che dieci anni prima aveva dischiuso al jazz la strada del modale o Birth of cool che aveva segnato la nuova rotta ancora dieci anni prima,nel 1949. Davis nel 1970 diventerà lo “sciamano elettrico” confermandosi come genio musicale capace di essere protagonista di tutti i capitoli della modernità, costantemente davanti a chiunque –  critica, pubblico, musicisti – eppure tanto debitore del talento altrui, innovatore e conservatore, blues e free, acustico ed elettrico, capace di conquistare alla propria causa artisti di prima grandezza con le sue illuminazioni, così come di turbarli o di schiacciarli sotto il peso delle sue nevrosi e delle sue contraddizioni. Nel film di Lerner questo rapporto fecondo ma difficile è ricostruito attraverso le significative testimonianze dei suoi compagni di palco all’Isola di Wight, ovvero Gary Bartz, Chick Corea, Keith Jarrett, Dave Holland, Jack DeJohnette, Airto Moreira, nonchè da quanti gli furono vicini in quegli anni per ragioni personali come Carlos Santana e Joni Mitchell o professionali come Paul Buckmaster oppure come certi collaboratori storici tra cui spiccano Herbie Hancock e Dave Liebman che a distanza di oltre dieci anni dalla morte di Davis nella prefazione ad un’importante monografia di Gianfranco Salvatore, uno dei suoi esegeti italiani più pentetranti, lo accomuna ad altri geni crudeli del Novecento musicale, come Igor Strawinsky o Charles Mingus, o anche, come intuì Duke Ellington, a Pablo Picasso, “puer aeternus”, sempre fresco e vitale, capace di rinnovarsi e stupire fino alla fine dei suoi giorni”. Eppure, avverte sempre Liebman, bisogna interpretare Davis anche sotto il profilo dell’irrazionalità, del dominio dell’intuizione pura, dell’ambizione di conciliare mondi ritenuti incompatibili, tenendo conto di una personalità unica e consapevole della propria diversità esplicitata esotericamente attraverso il suo fortissimo carisma. Davis era un uomo tormentato da cronici malanni fisici e oppresso da disturbi psichici, perennemente in bilico tra l’infanzia e il declino, la vita e la morte, che si esprimeva con la voce dell’ agonia e il suono della tromba suonata da un bambino, costantemente inseguito dai propri fantasmi e in continuo dialogo con gli spiriti.  Il fascino indiscusso del film di Lerner sta nel ritratto che affiora di questa singolare figura artistica colta nel momento di maggiore intensità creativa della sua vita sullo sfondo di un’epoca assurda e meravigliosa perchè percorsa da un irripetibile vortice di trasformazioni.

I segreti di Stanley Kubrik racchiusi in una stanza

ROVITO (CS) – A Rovito mercoledì 8 alle 20.45 Ugo G. Caruso apre la stagione 2014 del Cineforum Falso Movimento con Room 237, un documentario allucinato e stravagante di Rodney Asher su Shining (1980), controverso ed enigmatico film del grande regista newyorchese. Da Milano interviene Gianfranco Carpeoro, scrittore e studioso di simbologia.
Il documentario di Rodney Ascher, presentato nel 2012 prima al Sundance e poi a Cannes, indaga i simboli, i segreti, i messaggi occulti nascosti nel film di Kubrick tentando di darne un’interpretazione dopo aver passato in rassegna le tante ipotesi formulate finora. Il meno che si possa dire è che si tratta di un’opera maniacale e “paranoica” capace di individuare i canoni di un codice esoterico originale inventato da Kubrick ma pure di guidarci attraverso le ossessioni di una serie di spettatori rimasti a suo tempo indelebilmente impressionati dal film in un percorso di decifrazione oltremodo intrigante.
Si va dal riferimento allo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale al genocidio dei nativi americani, dal mito di Teseo e del Minotauro nel labirinto ai messaggi erotici subliminali secondo le più sofisticate tecniche dei “persuasori occulti”, dalla metempsicosi del protagonista, Jack Torrence, alla metafora dell’Uomo costretto ad uccidere da una tragica coazione a ripetere, dagli sberleffi cifrati all’autore del romanzo, Stephen King, all’esame della planimetria “taroccata” dell’Overlook Hotel. E, per finire, alla presunta confessione del regista di aver confezionato il più grande falso di tutti i tempi, l’allunaggio dell’Apollo 11, secondo una diffusa diceria di marca complottista, commissionatogli dal governo americano, per il quale si sarebbe avvalso dei modellini usati in 2001 Odissea nello spazio (1968). Il segreto della colossale mistificazione sarebbe custodito per l’appunto nella Room 237, la “Moon Room”. Quel che è certo è che le polemiche e le interpretazioni di Shining non cesseranno dopo questo bizzarro tentativo di dissezione, fotogramma per fotogramma e di decrittazione. Anzi, c’è da scommettere che i tanti enigmi,racchiusi gli uni negli altri come in tante scatole cinesi, si moltiplicheranno e ci accompagneranno per chissà quanti anni ancora.

La nuit de Belfagor a Rovito

ROVITO (CS) – Gran finale come ogni anno a Rovito con un evento speciale curato da Ugo G. Caruso in collaborazione con il Cineforum Falso Movimento. Dopo le serate-strenna delle passate edizioni ( Soirèe Tati; La via italiana alla pubblicità: Carosello 1957-1977, segni/disegni, sogni/bisogni,/costumi/consumi”;  Notte sconfinata, Una maratona Ai confini della realtà) domenica 29 a partire dalle 17.30 al Teatro Comunale è in programma la kermesse  La nuit de Belfagor. Sarà riproposto il film muto del 1927 Belphègor, cineromanzo in quattro episodi diretto da Henri Desfontaines e tratto dal romanzo di Arthur Bernède che ispirò pure il celeberrimo sceneggiato televisivo francese del 1965 diretto da Claude Barma, autentico “ terrore” negli anni di varie generazioni. Pochi sanno che il tenebroso personaggio, un tempo divinità adorata dai moabiti, ancor prima che sul piccolo schermo fu popolarissimo al cinema in un serial proiettato in quattro parti, come usava allora. Il suo fascino terrificante gli avrebbe garantito fama imperitura, seppure sinistra, tale da farlo riapparire pure di recente nel film di Jean Paul Salomè del 2001 e c’è da scommettere che non sarà l’ultima volta. Lo spunto di partenza tra film e sceneggiato è identico – apparizione di un lugubre fantasma nei padiglioni del Louvre dedicati alle civiltà antiche – ma mentre lo sceneggiato assumerà tonalità più esoteriche collegandosi alle vicende dei Rosacroce, il film, in linea con le atmosfere ed il gusto dell’intreccio tipico del feuilleton rimarrà su una linea, per così dire, più mondana, tra feste galanti di aristocratici e manieri nobiliari di campagna, ma sempre ritmata da continui colpi di scena, improvvise rivelazioni, frequenti rivolgimenti di fronte, frenetici inseguimenti per le vie o più spesso per i sotterranei della città, una Parigi al massimo dello splendore e del suo mito, quella percorsa dalle avanguardie, mecca degli artisti di tutto il mondo in cerca di fortuna, di esuli e profughi,aristocratici russi e scrittori americani, mescolati in una continua sarabanda, una festa mobile tra grandi  boulevards e brasserie. Il  film di Desfontaines fu coprodotto da Gaston Leroux, l’autore de Il fantasma dell’Opera  e della serie del giornalista-detective Rouletabille, insomma uno che di misteri parigini se ne intendeva. Ad interpretare il ruolo del celebre investigatore Chantecoq è Renè Navarre che nel 1913 aveva vestito i panni di Fantomas, autentico capostipite del feuilleton fantastique per la regia di Louis Fellade. Una serata imperdibile quindi – garantisce Caruso che ha già avuto modo di allestirla vari anni fa – da raccomandare non solo a cinefili raffinati o a cultori del genere mistery ma a quanti, riuscendo a sottrarsi ai consueti riti natalizi, vorranno a fine anno regalarsi un elegante brivido d’antan.