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Tutte le fideiussioni di tutte le banche italiane sono nulle!

Tutte le fideiussioni di tutte le banche italiane sono nulle!

Ad affermarlo è la I Sezione della Corte di Cassazione con l’Ordinanza del 12-12-2017, n. 29810.

Il contratto di fideiussione svolge la propria funzione economica in un contesto – quello della erogazione del credito a tutti i livelli – connotato dalla standardizzazione delle negoziazioni e dal ricorso ai moduli contrattuali che di fatto limita l’autonomia contrattuale del privato; non vi è da stupirsi, quindi, se l’indagine sulle clausole “in deroga” trova, per tradizione, uno dei suoi fronti più caldi nel controllo di vessatorietà delle singole clausole, transitato dalla mera tutela formale della specifica sottoscrizione alle più articolate forme di tutela sostanziale del contraente debole previste dal codice del consumo.

Pertanto, il controllo di vessatorietà sulle clausole “in deroga” deve svolgersi lungo il duplice percorso della contrattazione standardizzata (artt. 1341-42 c.c.) e della tutela del consumatore (artt. 33 ss. c. cons.). 

Nello specifico, seguendo l’interpretazione più condivisa della tassatività dell’elenco di clausole vessatorie contenuto nell’art. 1341, cpv., c.c., l’aggancio più saldo per compiere tale controllo è stato individuato nelle formule contrattuali latamente introduttive di «limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni» o, talvolta, di «tacita proroga o rinnovazione del contratto». La chiave di lettura proposta dalla dottrina ha, tuttavia, trovato riluttante la giurisprudenza fino al parere dei Giudici di legittimità, i quali, nel rimettere la decisione ad altra sezione del giudice di merito, hanno espresso il seguente principio di diritto: “in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi ABI in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative), comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato (nella specie, per quello bancario, la Banca d’Italia, con le funzioni di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi, ai sensi della L. n. 287 del 1990, artt. 14 e 20) a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza”.

Che tutte le banche riportino esattamente il testo predisposto dalla loro “associazione di categoria” – l’ABI appunto – è un fatto noto e in pratica tutte le fideiussioni di tutte le banche italiane sono nulle!

Avv. Antonio Nappi

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La ripartizione delle spese per la pulizia delle scale condominiali, tra criteri di legge e fai da te

Visto l’interesse suscitato dall’argomento, a distanza di un anno dall’articolo, apparso su questa testata, sull’obbligo anche per i proprietari dei negozi che affacciano direttamente sulla strada di partecipare alle spese per la manutenzione dell’androne e delle scale condominiali, torniamo ad occuparci del problema, molto dibattuto nelle assemblee condominiali, della pulizia e illuminazione delle scale comuni.

Come è noto, il codice civile detta un criterio generale di ripartizione delle spese in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascun condomino (art. 1123). E’ bene precisare subito che tale regola può essere derogata solo con l’accordo unanime di tutti i condomini, tanto che una deliberazione adottata a maggioranza è ritenuta dalla giurisprudenza addirittura nulla per impossibilità dell’oggetto.

Rispetto al richiamato principio generale esiste, però, un’importante specificazione: se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne.

Per le spese relative alle scale (e agli ascensori), in particolare, il legislatore ha prestabilito un criterio ben preciso: la ripartizione va effettuata per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo (art. 1124 c.c.). La giurisprudenza, per analogia, ha applicato questo parametro anche alla ripartizione delle spese per la pulizia e l’illuminazione delle scale, che quindi va effettuata tenendo conto dell’altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano.

Ma che succede se l’assemblea di condominio decide, come a volte capita, che alla pulizia delle scale provvederanno, a turno, i singoli condomini? Fin dove può spingersi la volontà della maggioranza?

A questa domanda ha risposto una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 29220 del 13 novembre 2018), decidendo proprio su un caso in cui l’assemblea aveva stabilito per la pulizia una turnazione tra i singoli condomini (anche tramite terzi incaricati e pagati di volta in volta da ciascun partecipante) sulla base di un calendario. Gli Ermellini hanno riconosciuto che pur se esiste un “diritto-dovere di ciascun condomino, ex art. 1118 c.c., di provvedere alla manutenzione delle cose comuni”, tuttavia “non può rientrare nelle attribuzioni dell’assemblea una potestà di deroga ai criteri legali” di cui sopra, a meno, naturalmente, che a decidere non siano tutti i condomini di comune accordo.

Insomma, la delibera adottata a maggioranza con cui si incida sulla misura degli obblighi dei singoli partecipanti al condominio ovvero si modifichino a maggioranza i criteri legali di riparto delle spese per la pulizia delle scale condominiali è irrimediabilmente nulla.

Ave. Cosmo Maria Gagliardi

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Diritto alla Retribuzione Professionale Docenti anche per i “precari” della scuola

Con la recente Ordinanza n. 20015 del 27 luglio 2018 la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando la violazione della Direttiva Comunitaria 1999/70/Ce e l’evidente discriminazione posta in essere nei confronti del personale precario con contratti inferiori all’annualità, ha stabilito che anche i precari che hanno lavorato nella scuola con supplenze brevi e saltuarie hanno diritto alla Retribuzione Professionale Docenti (pari a circa oltre 160 euro lorde) prevista dal CCNL del comparto scuola.

Secondo i giudici di legittimità, infatti, “l’art. 7 del CCNL 15.3.2001 per il personale del comparto scuola, interpretato alla luce del principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, attribuisce al comma 1 la Retribuzione Professionale Docenti a tutto il personale docente ed educativo, senza operare differenziazioni fra assunti a tempo indeterminato e determinato e fra le diverse tipologie di supplenze”.

Pertanto, sulla base del percorso argomentativo della Suprema Corte, si evince che il Reddito Professionale Docenti rientra nelle “condizioni di impiego” che, ai sensi della clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il datore di lavoro, pubblico o privato, è tenuto ad assicurare agli assunti a tempo determinato, i quali “non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.

E’ bene ricordare, inoltre, che la precitata clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, è stata oggetto di esame in svariate circostanze da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha più volte evidenziato che tale clausola esclude in generale qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno.

Nel caso esaminato dai giudici di legittimità, la Corte ha evidenziato, in motivazione, “che il supplente temporaneo, in quanto assunto per ragioni sostitutive, rende una prestazione equivalente a quella del lavoratore sostituito”, ed ha disatteso la tesi del Ministero della Pubblica Istruzione secondo cui la durata temporalmente limitata dell’incarico sarebbe incompatibile con la percezione della Retribuzione Professionale Docenti.

Pertanto, secondo il recente orientamento di legittimità, tutti i docenti che hanno stipulato supplenze brevi e saltuarie potranno vedersi corrispondere la Retribuzione Professionale Docenti nel cedolino stipendiale ed eventualmente recuperare le somme mai percepite.

Avv. Luca Gencarelli

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Donne vittime di violenza di genere: protezione internazionale sancita dalla Cassazione

Sempre più spesso sentiamo parlare di donne che fuggono dai loro Paesi di origine perché perseguitate, vittime di abusi, violenze e mutilazioni. Donne costrette a contrarre matrimonio in giovane età o perché vedove. Queste donne, coraggiose, richiedono la protezione internazionale nel nostro Paese.

Si premette che in Italia, il diritto di asilo è garantito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione, che prevede che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Può essere riconosciuto, perciò, al cittadino straniero che ne faccia richiesta, lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Ne consegue una differente tutela, che scaturisce dalla valutazione di una serie di parametri oggettivi e soggettivi inerenti alla storia dei richiedenti, alle statuizioni dei Paesi di provenienza. In particolare, si definisce rifugiato un cittadino straniero che, a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si ritrovi al di fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza senza potersi avvalere della protezione dello stesso. E’ invece ammissibile la protezione sussidiaria per il cittadino straniero che, pur non possedendo i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, se ritornasse nel suo Paese di origine correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno. Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciute all’esito dell’istruttoria effettuata dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

La Corte di Cassazione ha esaminato il caso di una donna nigeriana che, dopo la morte del marito, a causa del suo rifiuto di sposare il cognato, era stata privata della potestà genitoriale, di tutti i suoi averi ed era stata perseguitata e costretta a lasciare la sua terra. Richiesta la protezione sussidiaria in Italia, che la Commissione Territoriale aveva respinto, la donna era ricorsa dapprima al Tribunale di Bologna fino ad arrivare in Cassazione, che le ha riconosciuto la causa di persecuzione di genere, sulla base del quadro normativo internazionale. In particolare, la Corte fa riferimento alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza sulle donne, che obbliga gli Stati che l’hanno ratificata “ad adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1, a) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo ad una protezione complementare/sussidiaria”. Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) del maggio 2002 aveva invitato tutti gli operatori statali coinvolti a considerare la persecuzione legata alla violenza di genere come motivo per l’ottenimento della protezione internazionale. Nella vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione, si è ritenuto che i fatti narrati dalla cittadina nigeriana rientrassero a pieno titolo tra quelli cui fa riferimento la Convenzione di Istanbul e previsti dall’art. 7 del d.lgs. 251/2007: la donna deve essere considerata vittima di una persecuzione personale e diretta, a causa della sua appartenenza, in quanto donna, ad un gruppo sociale. E, secondo la Corte, proprio il peso delle norme consuetudinarie locali avrebbe impedito alla ricorrente di trovare adeguata protezione nelle autorità statuali del suo Paese di appartenenza. Questa sentenza della Corte di Cassazione, la n. 28152/2017, di enorme portata innovativa, ha sancito il diritto alla protezione internazionale per le vittime di violenza di genere, le quali potranno ora vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria.

Questa pronuncia si inserisce nell’ambito di un recente orientamento dei inaugurato dalla sentenza n. 12333/2017 della Corte di Cassazione riguardante un caso di violenza domestica. Una cittadina marocchina, vittima per anni di abusi e violenze da parte del marito anche dopo aver ottenuto il divorzio, aveva lasciato il suo Paese ed aveva richiesto la protezione internazionale poiché certa che, in caso di rientro in Marocco, sarebbe stata nuovamente esposta agli abusi e alle violenze dell’ex-marito. Sia la Commissione Territoriale che il giudice di primo e secondo grado avevano rigettato la richiesta in ragione del fatto che la vicenda narrata rientrerebbe nell’ambito dei rapporti familiari non meritevoli di protezione internazionale, considerate le possibilità di tutela offerte alla donna dal suo Paese di origine. La Suprema Corte, invece, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma, poiché non era stato accertato se le autorità statuali avessero un’effettiva capacità di offrire un’adeguata protezione alla donna, vittima delle violenze dell’ex-marito. La vicenda della donna trova tutela nelle previsioni della Convenzione di Istanbul ai sensi dell’art. 3, lett. b) ed i giudici della Suprema Corte aderiscono, in particolare, alla tesi sostenuta nel ricorso secondo cui questa forma di violenza domestica andrebbe ricondotta nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti cui fa riferimento l’art. 14, lett. b), d.lgs 251/2007. Una simile interpretazione appare coerente con la formulazione dell’art. 60 della Convenzione di Istanbul che, come ricordato, impone agli Stati firmatari di riconoscere la violenza di genere come elemento atto a fondare la protezione sussidiaria.

Questa è la storia di R., D., T., G., e di tante altre donne fuggite dal loro Paese perché vittime di violenza. E’ una storia che si ripete, scritta nei loro occhi, segnata sui loro corpi e nella loro anima. Invisibile a chi le guarda e non le vede. Sono miracolosamente scampate ad un tragico destino e portano con loro i colori di chi spera. Sono quelle donne che non si sono arrese e, grazie al loro coraggio, si apre uno spiraglio di salvezza per chi prenderà il loro esempio.

Avv. Lucia Boellis

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Scioglimento della comunione legale tra coniugi

Con sentenza n. 11668/2018 del 14 maggio 2018, la Seconda Sezione civile della Suprema Corte, in tema di azione di scioglimento della comunione legale avente ad oggetto un immobile acquistato da uno dei coniugi in costanza di matrimonio, ha affermato che la decisione del coniuge non acquirente di non partecipare all’atto di acquisto del bene e la successiva destinazione del bene all’utilizzo esclusivo del coniuge acquirente non sono condizioni sufficienti per escludere il bene dalla comunione legale, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento positivo della natura personale del bene di entrambi i coniugi, non sussistente nel caso di mancata partecipazione all’atto di uno di essi, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179, primo comma, lett. c), d) ed f), cod. civ.

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso proposto dal coniuge soccombente – affidato a quattro motivi – così confermando l’impugnata sentenza di merito, ha espresso il principio secondo cui in caso di comunione legale tra i coniugi, il bene acquistato dagli stessi, insieme o separatamente, durante il matrimonio, costituisce in via automatica e diretta oggetto della comunione tra loro e diventa, quindi, bene comune ai due coniugi. Ciò anche se il bene sia destinato a bisogni estranei a quelli della famiglia ed il corrispettivo sia pagato, in via esclusiva o prevalente, con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi. 

Nel caso di beni immobili o di beni mobili registrati, come nel caso di specie, tale esclusione deve risultare dall’atto di acquisto, alla cui stipulazione è tenuto a partecipare il coniuge non acquirente ai fini di rendere la dichiarazione in ordine alla natura personale del bene ex art. 179, comma 2, cod. civ.

Avv. Antonio Nappi

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Stop alle retribuzioni in contanti. Da luglio 2018 solo pagamenti tracciabili

Tra poche settimane entrerà in vigore il divieto per i datori di lavoro di pagare in contanti le buste paga dei propri dipendenti.

Dal 1° luglio del 2018, ai sensi degli art. 911 e ss. della L. 205 del 25 dicembre 2017, il pagamento della retribuzione potrà avvenire soltanto mediante metodi di pagamento tracciabili. Il datore di lavoro potrà versare le retribuzioni con bonifico bancario, con strumenti di pagamento elettronico, con assegno bancario o circolare consegnato al lavoratore, oppure con pagamento in contanti direttamente in banca o alla posta, solo se il datore di lavoro ha aperto un c/c di tesoreria con mandato di pagamento.

La norma stabilisce, inoltre, che la firma apposta dal dipendente sul prospetto paga non potrà costituire prova dell’avvenuto pagamento dello stipendio. Detta prescrizione è un ulteriore chiarimento a ciò che la giurisprudenza di legittimità aveva già più volte affermato e cioè che la sottoscrizione “per quietanza” o “per ricevuta”, apposta dal lavoratore alla busta paga, non implica, di per sé l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, e pertanto non è da ritenersi prova di tale pagamento (si veda in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 9294 del 2011).

Il divieto di retribuire in contanti i propri dipendenti opererà per tutti i rapporti di lavoro subordinato indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto. Nessuna esclusione alla disposizione normativa può essere effettuata in relazione alla brevità del rapporto di lavoro, come, ad esempio, per quanto attiene ai contratti subordinati a tempo determinato o intermittenti, ovvero per i rapporti di lavoro autonomo occasionali, previsti dall’art. 2222 del c.c.; infatti, anche per detti casi, bisognerà seguire le indicazioni fornite dal legislatore in merito ai mezzi di pagamento tracciati, per le prestazioni fornite. Viceversa, sempre per espressa previsione della norma, il divieto di pagamento della retribuzione in contanti non si applicherà alla Pubbliche Amministrazioni ed ai rapporti di lavoro domestici. Si consiglia

Al fine di far rispettare l’obbligo da tutti i soggetti indicati dalla norma la legge ha previsto che i trasgressori saranno puniti con una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000,00 a 5.000,00 euro.

La finalità del provvedimento attiene ad una maggiore tutela dei diritti dei lavoratori, cercando di limitare e ridurre la prassi dei datori di lavoro di corrispondere ai propri dipendenti uno stipendio inferiore ai limiti fissati dalla contrattazione collettiva, in modo da tutelare il dipendente che riceva importi non corrispondenti a quanto scritto in busta paga, nonché al fine di contrastare il fenomeno dell’economia sommersa attraverso il pagamento delle retribuzioni con modalità tracciabili.

Avv. Luca Gencarelli

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WhatsApp: il valore legale dei messaggi nel processo civile e penale.

WhatsApp è ormai divenuta l’applicazione di messaggistica gratuita più diffusa al mondo. Con la diffusione delle nuove tecnologie ormai chiunque conosce e utilizza questo strumento, che permette agli utenti di inviare e ricevere messaggi, scritti e vocali, in maniera immediata. La questione del valore legale dei messaggi spediti e ricevuti per il tramite di WhatsApp è, ormai, divenuta di grande attualità. Il tema è da considerarsi particolarmente delicato, considerato il numero elevato di messaggi che si inviano o ricevono e, soprattutto, la leggerezza con cui spesso si scrivono o registrano. La giurisprudenza di merito e di legittimità, sia in materia civile che penale, ha affrontato il tema cercando di dirimere le questioni emergenti. Una serie di sentenze, infatti, risulteranno utili per approfondire la questione e per meglio comprendere se le conversazioni contenute su WhatsApp possono avere valore di prova in un processo civile o penale. Il nostro Codice Civile all’art. 2712 prevede che le riproduzioni meccaniche, fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. Ed inoltre, l’art. 2719 c.c. dispone che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero se non è espressamente disconosciuta. Riportandosi a tali disposizioni, la Cassazione aveva già riconosciuto pieno valore probatorio a SMS e MMS, ritenuti “elementi di prova” integrabili con altri elementi anche in caso di contestazione (Cass. n. 9884/2005), chiarendo peraltro che in caso di disconoscimento della “fedeltà” del documento all’originale, rientrerebbe nei poteri del Giudice accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass. n. 866/2000). Tali disposizioni possono essere applicate ai messaggi WhatsApp in quanto gli stessi costituiscono documenti informatici, equiparati ai documenti tradizionali a tutti gli effetti. La trascrizione delle conversazioni WhatsApp è utilizzabile ai fini probatori ma è condizionata dall’acquisizione del supporto, telematico o figurativo, contenente la menzionata registrazione. Infatti, la trascrizione non è altro che una riproduzione del contenuto della principale prova della quale, pertanto, devono essere controllate l’attendibilità, la veridicità e la paternità mediante l’esame diretto del supporto (Cass. n. 49016/2017). Secondo l’insegnamento della Corte di legittimità, infatti, i dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. e, di conseguenza, la relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche (Cass. n. 1822/2018). Ai messaggi rinvenuti in un telefono sottoposto a sequestro non si applica, dunque, la disciplina prevista dall’articolo 254 c.p.p. sul sequestro di corrispondenza, in quanto la nozione di corrispondenza “implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito” (Cass. n. 928/2015). Non è configurabile neppure un’attività di intercettazione, che postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre nel caso del messaggio WhatsApp ci si limita ad acquisire ex post il dato conservato in memoria. Si potrà, dunque, concludere che, con l’osservanza delle procedure previste, i messaggi di WhatsApp e le relative conversazioni contenute nelle chat, salvate nella memoria del telefonino, potranno avere valore probatorio in un processo, sia civile che penale. Infatti, con il deposito nelle modalità prescritte, l’apparecchio cellulare o il supporto informatico potranno essere sottoposti alla perizia di un tecnico nominato dal Giudice che dovrà verificare che il testo non abbia subito alterazioni. Per conferire maggiore valore probatorio ai messaggi e superare qualsiasi possibile contestazione, sarà utile munirsi di una relazione tecnica di un consulente informatico e di una copia conforme ed autenticata dei messaggi WhatsApp a uso legale, da depositare in giudizio. Sarà necessario procurarsi, inoltre, un’attestazione di conformità delle trascrizioni alle conversazioni originali presenti sul supporto informatico esibito, da parte di un notaio o altro pubblico ufficiale.

Avv. Boellis

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Lo spinoso problema dei parcheggi condominiali. E se fosse colpa del costruttore?

Uno dei motivi di maggiore conflitto nei condomini è l’uso dei parcheggi all’interno delle aree comuni. È frequente, infatti, che gli spazi a disposizione per il parcheggio siano insufficienti per le esigenze di tutti i condomini. In tale situazione, a meno di non affidarsi al caso e lasciare che il primo arrivato occupi i posti liberi escludendo di fatto coloro che giungeranno dopo, è necessario interrogarsi su quale siano le possibili e legittime soluzioni del problema.

Il punto di partenza può essere l’art. 1102 del codice civile, che prevede per ciascuno la facoltà di servirsi della cosa comune (nel nostro caso i posti auto), purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Tale norma, tuttavia, non è considerata inderogabile dalla giurisprudenza, che ha avuto modo di chiarire che il regolamento di condominio e le delibere assembleari adottate con le necessarie maggioranze possono stabilire limiti più rigorosi, a patto di non introdurre un vero e proprio divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni. Questo è quanto ha stabilito anche una recente sentenza (del 29.01.2018) della Corte di Cassazione, per altro confermativa di un indirizzo consolidato, che ha ritenuta legittima una limitazione al parcheggio degli autoveicoli, nella fattispecie consistente nell’attribuzione ai condomini dell’esclusiva possibilità di effettuare soste temporanee, “per il solo tempo strettamente necessario al carico e scarico di persone e bagagli”, con rimozione coattiva a spese del contravventore in caso di violazione della regola.

Diversa sarebbe, evidentemente, l’ipotesi in cui si assegnassero in via definitiva i posti ad alcuni condomini escludendo completamente gli altri. In tal caso, in mancanza di un accordo unanime, si avrebbe una limitazione dell’uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, in violazione del principio sopra delineato.

Il problema, come detto, è abbastanza diffuso per quanto concerne gli stabili di antica edificazione e meriterebbe un approfondimento impossibile in questa sede. Ma che succede se a risultare originariamente insufficienti per il parcheggio di ciascun proprietario sono gli spazi condominiali in edifici che invece non sono di remota costruzione? A che altri rimedi può aspirare un condomino che si trovi sprovvisto di un posto auto?

Occorre a questo punto segnalare che la Legge Urbanistica (L. 17 agosto 1942, n. 1150) a seguito delle modifiche apportate prima dalla L. n. 7 del 1967 e poi dalla L. n. 246 del 2005, prevede una riserva obbligatoria di appositi spazi per parcheggi nelle nuove costruzioni ed aree pertinenziali ad esse aderenti, in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione. In altri termini, in capo al costruttore esiste un preciso obbligo di predisporre posti auto in proporzione alla cubatura dell’edificio.

Ciò ha portato i giudici della Suprema Corte (con sentenza pubblicata nel febbraio scorso) ad affermare che “nell’ipotesi in cui lo spazio destinato al parcheggio dovesse risultare insufficiente a soddisfare i singoli condomini del fabbricato, il proprietario che ne risultasse privato dovrebbe far valere un inadempimento del costruttore”, lamentando il danno conseguente al mancato godimento del posto auto.

Potrebbe aprirsi uno spazio, quindi, per reclamare direttamente nei confronti di chi ha edificato l’immobile.

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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Tasso variabile Euribor, risarcimenti e rimborsi

La Commissione Europea, con la sentenza del 2013, caso n. AT 39914 del 3 dicembre 2013, pubblicata solo dopo anni, ha riconosciuto, implicitamente, il diritto di risarcimento a tutti gli utenti truffati nei contratti di mutuo, prestiti e derivati, che in quegli anni, ovvero tra il 2005 e il 2009, avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all’Euribor. L’art. 117 del T.U.B. stabilisce che l’incertezza della clausola di determinazione degli interessi in un contratto di mutuo determina la nullità della clausola stessa e cioè quando i parametri atti ad individuare il tasso variabile sono scarsamente intelligibili, poiché nella clausola è prevista una serie di rinvii concatenati a valori anche di valute estere in astratto recuperabili, ma tali da non rendere immediatamente reperibili e via via verificabili i dati.

La Commissione Europea ha dunque condannato, alla conclusione delle indagini svolte, 4 tra le più note Banche europee, con l’accusa di aver manipolato il tasso di interesse che incideva poi sui mutui di milioni di cittadini europei, l’Euribor appunto, nel periodo che va dal 2005 al 2009.

In ogni caso, l’Euribor è negativo dai primi mesi del 2015. I tassi sotto zero avrebbero dovuto portare un vantaggio ai titolari di un mutuo a tasso variabile. Molti mutuatari stanno pagando una rata più leggera che si è costantemente abbassata da quando i tassi di interesse sono scesi. Ma non tutti. I clienti delle banche che non applicano correttamente il tasso stanno continuando a pagare la stessa rata da quando l’Euribor è andato in territorio negativo. Questo perché alcuni istituti di credito non considerano l’Euribor meno di zero, anche se il tasso di riferimento è inferiore.

Questo significa che se i tassi di riferimento sono negativi, lo spread concordato con il mutuatario deve partire dal valore negativo e non da zero, come correttamente calcolano alcuni istituti. Chi non ha applicato tale comportamento è tenuto a restituire quanto finora è stato pagato di troppo. Salvo il caso, naturalmente, in cui sia contrattualmente previsto un tasso minimo (clausola Floor).

Gli istituti di credito, dunque, sono chiamati a fare chiarezza e a verificare dove è avvenuto un calcolo errato, probabilmente in buona fede, dovuto dai sistemi informatici non programmati all’evento dei tassi Euribor negativi.

Pertanto, i titolari di un mutuo a tasso variabile dovrebbero controllare la propria situazione verificando prima di tutto se nel proprio contratto di mutuo sia presente o meno la clausola Floor. Se non fosse indicato alcun limite minimo e si sta continuando a pagare un tasso di interesse pari allo spread, significa che la banca non sta applicando correttamente l’Euribor negativo e in questo caso si avrebbe diritto di ricevere un rimborso di quanto è stato pagato in più. Alcune banche lo hanno già previsto, altre, diciamo così, hanno bisogno che venga loro ricordato.

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Avv. Antonio Nappi

Mobbing lavorativo: quando si configura?

Come è noto il termine mobbing trae origine dal verbo inglese “to mob” traducibile nell’assalire, nell’aggressione e venne coniato dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l’obbiettivo di escludere un membro del gruppo.

Tale concetto esprime in maniera efficace l’intensità della violenza di quei comportamenti posti in essere nell’ambito lavorativo finalizzati – attraverso una violenza psicologica graduale e sistematica – all’emarginazione, all’isolamento fino, nei casi più gravi, al totale annientamento del lavoratore costretto alla fuoriuscita dall’azienda.

In buona sostanza, lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona scomoda, distruggendola psicologicamente tanto ad indurla alle dimissioni.

Dal punto di vista prettamente giuridico, i parametri normativi elaborati in tema di configurabilità del mobbing lavorativo dalla giurisprudenza di legittimità, prevedono che debbano ricorrere i seguenti elementi:

  1. a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente e che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.

A confermarlo è stata la Corte di Cassazione con la recente sentenza del 20 dicembre 2017, n. 30606, la quale, in linea con le pronunce dei Giudici di merito, ha ritenuto sussistenti simili indici nella condotta di un datore di lavoro che modifichi il proprio atteggiamento nei confronti di un dipendente, in seguito alla scelta di quest’ultimo di rivolgersi ad un’organizzazione sindacale per la tutela dei propri diritti. Nella vicenda al vaglio della Corte era stato accertato, infatti, che il lavoratore era stato spostato di reparto senza alcuna giustificazione ed era stato emarginato con l’intento di indurlo a rassegnare le dimissioni.

Nello specifico, i Giudici della Suprema Corte hanno ribadito che, ai fini della sussistenza di mobbing, rilevano i comportamenti di carattere vessatorio con intento persecutorio messi in atto dall’azienda o da altri dipendenti ed hanno chiarito che  un uso eccessivo del potere disciplinare per estromettere il dipendente è qualificabile come mobbing.

Tra l’altro, sempre in merito al rapporto tra esercizio del potere disciplinare e condotta datoriale mobbizzante, la Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata con l’ordinanza n. 28098 del 2017, ritenendo che l’irrogazione di sanzioni disciplinari possa qualificare una condotta di mobbing nel caso in cui abbia il carattere di sistematicità.

In realtà, già molti anni prima la Corte Suprema si era espressa in tal senso con la sentenza n. 6907 del 20 marzo 2009. Nello specifico gli ermellini avevano confermato la sussistenza di mobbing alla constatazione dell’irrogazione di una serie di serrati provvedimenti disciplinari (giudicati ex post infondati o eccessivi) adottati al mero fine di pervenire, in una valutazione complessiva degli stessi, al licenziamento di un dipendente (poi effettivamente avvenuto). La vicenda aveva visto una lavoratrice subire, nell’arco di cinque mesi circa, sette provvedimenti disciplinari, mentre all’ottavo (considerando l’aggravante della recidiva per il pregresso) la stessa veniva licenziata. 

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Avv. Luca Gencarelli