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Lo spinoso problema dei parcheggi condominiali. E se fosse colpa del costruttore?

Uno dei motivi di maggiore conflitto nei condomini è l’uso dei parcheggi all’interno delle aree comuni. È frequente, infatti, che gli spazi a disposizione per il parcheggio siano insufficienti per le esigenze di tutti i condomini. In tale situazione, a meno di non affidarsi al caso e lasciare che il primo arrivato occupi i posti liberi escludendo di fatto coloro che giungeranno dopo, è necessario interrogarsi su quale siano le possibili e legittime soluzioni del problema.

Il punto di partenza può essere l’art. 1102 del codice civile, che prevede per ciascuno la facoltà di servirsi della cosa comune (nel nostro caso i posti auto), purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Tale norma, tuttavia, non è considerata inderogabile dalla giurisprudenza, che ha avuto modo di chiarire che il regolamento di condominio e le delibere assembleari adottate con le necessarie maggioranze possono stabilire limiti più rigorosi, a patto di non introdurre un vero e proprio divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni. Questo è quanto ha stabilito anche una recente sentenza (del 29.01.2018) della Corte di Cassazione, per altro confermativa di un indirizzo consolidato, che ha ritenuta legittima una limitazione al parcheggio degli autoveicoli, nella fattispecie consistente nell’attribuzione ai condomini dell’esclusiva possibilità di effettuare soste temporanee, “per il solo tempo strettamente necessario al carico e scarico di persone e bagagli”, con rimozione coattiva a spese del contravventore in caso di violazione della regola.

Diversa sarebbe, evidentemente, l’ipotesi in cui si assegnassero in via definitiva i posti ad alcuni condomini escludendo completamente gli altri. In tal caso, in mancanza di un accordo unanime, si avrebbe una limitazione dell’uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, in violazione del principio sopra delineato.

Il problema, come detto, è abbastanza diffuso per quanto concerne gli stabili di antica edificazione e meriterebbe un approfondimento impossibile in questa sede. Ma che succede se a risultare originariamente insufficienti per il parcheggio di ciascun proprietario sono gli spazi condominiali in edifici che invece non sono di remota costruzione? A che altri rimedi può aspirare un condomino che si trovi sprovvisto di un posto auto?

Occorre a questo punto segnalare che la Legge Urbanistica (L. 17 agosto 1942, n. 1150) a seguito delle modifiche apportate prima dalla L. n. 7 del 1967 e poi dalla L. n. 246 del 2005, prevede una riserva obbligatoria di appositi spazi per parcheggi nelle nuove costruzioni ed aree pertinenziali ad esse aderenti, in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione. In altri termini, in capo al costruttore esiste un preciso obbligo di predisporre posti auto in proporzione alla cubatura dell’edificio.

Ciò ha portato i giudici della Suprema Corte (con sentenza pubblicata nel febbraio scorso) ad affermare che “nell’ipotesi in cui lo spazio destinato al parcheggio dovesse risultare insufficiente a soddisfare i singoli condomini del fabbricato, il proprietario che ne risultasse privato dovrebbe far valere un inadempimento del costruttore”, lamentando il danno conseguente al mancato godimento del posto auto.

Potrebbe aprirsi uno spazio, quindi, per reclamare direttamente nei confronti di chi ha edificato l’immobile.

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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Tasso variabile Euribor, risarcimenti e rimborsi

La Commissione Europea, con la sentenza del 2013, caso n. AT 39914 del 3 dicembre 2013, pubblicata solo dopo anni, ha riconosciuto, implicitamente, il diritto di risarcimento a tutti gli utenti truffati nei contratti di mutuo, prestiti e derivati, che in quegli anni, ovvero tra il 2005 e il 2009, avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all’Euribor. L’art. 117 del T.U.B. stabilisce che l’incertezza della clausola di determinazione degli interessi in un contratto di mutuo determina la nullità della clausola stessa e cioè quando i parametri atti ad individuare il tasso variabile sono scarsamente intelligibili, poiché nella clausola è prevista una serie di rinvii concatenati a valori anche di valute estere in astratto recuperabili, ma tali da non rendere immediatamente reperibili e via via verificabili i dati.

La Commissione Europea ha dunque condannato, alla conclusione delle indagini svolte, 4 tra le più note Banche europee, con l’accusa di aver manipolato il tasso di interesse che incideva poi sui mutui di milioni di cittadini europei, l’Euribor appunto, nel periodo che va dal 2005 al 2009.

In ogni caso, l’Euribor è negativo dai primi mesi del 2015. I tassi sotto zero avrebbero dovuto portare un vantaggio ai titolari di un mutuo a tasso variabile. Molti mutuatari stanno pagando una rata più leggera che si è costantemente abbassata da quando i tassi di interesse sono scesi. Ma non tutti. I clienti delle banche che non applicano correttamente il tasso stanno continuando a pagare la stessa rata da quando l’Euribor è andato in territorio negativo. Questo perché alcuni istituti di credito non considerano l’Euribor meno di zero, anche se il tasso di riferimento è inferiore.

Questo significa che se i tassi di riferimento sono negativi, lo spread concordato con il mutuatario deve partire dal valore negativo e non da zero, come correttamente calcolano alcuni istituti. Chi non ha applicato tale comportamento è tenuto a restituire quanto finora è stato pagato di troppo. Salvo il caso, naturalmente, in cui sia contrattualmente previsto un tasso minimo (clausola Floor).

Gli istituti di credito, dunque, sono chiamati a fare chiarezza e a verificare dove è avvenuto un calcolo errato, probabilmente in buona fede, dovuto dai sistemi informatici non programmati all’evento dei tassi Euribor negativi.

Pertanto, i titolari di un mutuo a tasso variabile dovrebbero controllare la propria situazione verificando prima di tutto se nel proprio contratto di mutuo sia presente o meno la clausola Floor. Se non fosse indicato alcun limite minimo e si sta continuando a pagare un tasso di interesse pari allo spread, significa che la banca non sta applicando correttamente l’Euribor negativo e in questo caso si avrebbe diritto di ricevere un rimborso di quanto è stato pagato in più. Alcune banche lo hanno già previsto, altre, diciamo così, hanno bisogno che venga loro ricordato.

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Avv. Antonio Nappi

Mobbing lavorativo: quando si configura?

Come è noto il termine mobbing trae origine dal verbo inglese “to mob” traducibile nell’assalire, nell’aggressione e venne coniato dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l’obbiettivo di escludere un membro del gruppo.

Tale concetto esprime in maniera efficace l’intensità della violenza di quei comportamenti posti in essere nell’ambito lavorativo finalizzati – attraverso una violenza psicologica graduale e sistematica – all’emarginazione, all’isolamento fino, nei casi più gravi, al totale annientamento del lavoratore costretto alla fuoriuscita dall’azienda.

In buona sostanza, lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona scomoda, distruggendola psicologicamente tanto ad indurla alle dimissioni.

Dal punto di vista prettamente giuridico, i parametri normativi elaborati in tema di configurabilità del mobbing lavorativo dalla giurisprudenza di legittimità, prevedono che debbano ricorrere i seguenti elementi:

  1. a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente e che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.

A confermarlo è stata la Corte di Cassazione con la recente sentenza del 20 dicembre 2017, n. 30606, la quale, in linea con le pronunce dei Giudici di merito, ha ritenuto sussistenti simili indici nella condotta di un datore di lavoro che modifichi il proprio atteggiamento nei confronti di un dipendente, in seguito alla scelta di quest’ultimo di rivolgersi ad un’organizzazione sindacale per la tutela dei propri diritti. Nella vicenda al vaglio della Corte era stato accertato, infatti, che il lavoratore era stato spostato di reparto senza alcuna giustificazione ed era stato emarginato con l’intento di indurlo a rassegnare le dimissioni.

Nello specifico, i Giudici della Suprema Corte hanno ribadito che, ai fini della sussistenza di mobbing, rilevano i comportamenti di carattere vessatorio con intento persecutorio messi in atto dall’azienda o da altri dipendenti ed hanno chiarito che  un uso eccessivo del potere disciplinare per estromettere il dipendente è qualificabile come mobbing.

Tra l’altro, sempre in merito al rapporto tra esercizio del potere disciplinare e condotta datoriale mobbizzante, la Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata con l’ordinanza n. 28098 del 2017, ritenendo che l’irrogazione di sanzioni disciplinari possa qualificare una condotta di mobbing nel caso in cui abbia il carattere di sistematicità.

In realtà, già molti anni prima la Corte Suprema si era espressa in tal senso con la sentenza n. 6907 del 20 marzo 2009. Nello specifico gli ermellini avevano confermato la sussistenza di mobbing alla constatazione dell’irrogazione di una serie di serrati provvedimenti disciplinari (giudicati ex post infondati o eccessivi) adottati al mero fine di pervenire, in una valutazione complessiva degli stessi, al licenziamento di un dipendente (poi effettivamente avvenuto). La vicenda aveva visto una lavoratrice subire, nell’arco di cinque mesi circa, sette provvedimenti disciplinari, mentre all’ottavo (considerando l’aggravante della recidiva per il pregresso) la stessa veniva licenziata. 

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Avv. Luca Gencarelli

Edifici deteriorati e responsabilità per mancata esecuzione dei lavori condominiali

Il presente articolo riprende alcuni temi dalla relazione dal titolo “Responsabilità dell’amministratore nell’omissione della manutenzione” svolta dall’autore in occasione della giornata di studio “Dal fascicolo del fabbricato alla manutenzione programmata” tenutasi il 31.01.2018 presso l’Università della Calabria.

Da qualche tempo si sente parlare sempre più spesso del “fascicolo del fabbricato”.

Si tratta di una sorta di carta d’identità degli edifici, la cui introduzione è allo studio del legislatore, tanto che già diversi disegni di legge, per vari motivi non approvati, ne hanno delineato le caratteristiche, a partire dal contenuto, fino all’obbligatorietà o meno della relativa adozione.

Una delle funzioni del cosiddetto fascicolo del fabbricato è proprio quella di individuare, assieme alle caratteristiche costruttive, le criticità degli edifici, anche nell’ottica di prevenire i danni – se non i veri e propri disastri – dovuti all’incuria in cui versano le strutture che hanno già qualche anno sulle spalle.

In attesa di una norma che imponga ai proprietari di eseguire un’analisi degli immobili, in ambito condominiale purtroppo capita spesso di trovarsi di fronte a questioni di un certo rilievo concernenti lo stato del fabbricato. Non è infrequente, infatti, imbattersi in edifici, pur fondamentalmente integri dal punto di vista della statica complessiva, che presentano però degli elementi, ornamentali, accessori o di rifinitura, pericolanti. Si va dal classico intonaco in fase di distacco, ai cornicioni o alle solette dei balconi ammalorati.

Chi deve prendersi cura di affrontare e risolvere il problema? In che modo? Quali sono le responsabilità dell’amministratore e quali quelle del condominio e dei singoli proprietari?

Non è possibile rispondere esaustivamente in questo spazio a tutti gli interrogativi, ma possiamo tentare di tracciare alcune linee basilari.

Intanto, come è ovvio, il condominio è responsabile, sia penalmente che dal punto di vista del risarcimento civile, per i danni che possono derivare dalla rovina di strutture di natura condominiale (tipico il caso dei cornicioni), mentre la responsabilità rimane dei singoli quando il bene, pur inserito nell’edificio, è di proprietà individuale. V’è poi la responsabilità dell’amministratore, che sui beni comuni deve vigilare.

Il discorso si complica quando i necessari lavori di manutenzione delle parti comuni non vengano approvati ovvero, una volta approvati, non vengano eseguiti (magari a causa della carenza di copertura finanziaria). Il rischio di questa impasse è piuttosto elevato. Si consideri, ad esempio e limitandosi al profilo penalistico, che nel caso tipico della caduta di calcinacci che provochi lesioni personali, in applicazione dell’art. 590 del codice penale, si può anche incorrere nella condanna della reclusione fino a due anni.

Spesso in condominio si tende a minimizzare il problema, ritenendo che tocchi all’amministratore attivarsi per risolvere la questione. Quest’ultimo, però, se è vero che ha l’obbligo di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 c.c.) e che può ordinare lavori di manutenzione straordinaria a condizione che rivestano carattere urgente (e in tal caso deve riferirne nella prima assemblea: art. 1135 c.c.), non è invece tenuto ad anticipare le somme all’uopo necessarie e quindi nulla può essergli imputato dal condominio ove manchino i fondi nelle casse condominiali.

In capo ai singoli condomini, d’altro canto, permane l’obbligo, ribadito più volte dalla Corte di Cassazione Penale, di rimuovere la situazione pericolosa anche nel caso di mancata formazione della volontà assembleare che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo.

E’ evidente, insomma, che anche in ambito condominiale la problematica non deve essere sottovalutata.

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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Equitalia, pignoramenti annullati dalla Cassazione

La Cassazione, con la sentenza n. 26519, depositata il 9 novembre 2017, ha affermato un importantissimo principio di diritto, stabilendo che è nullo il pignoramento esattoriale di crediti ex art. 72 – bis se attivato da Equitalia senza indicare il dettaglio dei crediti. Infatti, l’atto di pignoramento di crediti presso terzi notificato dall’Agenzia delle Entrate si limita spesso ad intimare in maniera generica il pagamento di una somma dovuta a titolo di tributi o entrate, senza specificare se si tratti di imposte, multe, contributi previdenziali o altre sanzioni amministrative. La mancata indicazione del dettaglio dei crediti, della loro natura, degli importi, delle relative cartelle e delle date di notifica costituisce grave motivo di illegittimità del pignoramento, da contestare con opposizione agli atti esecutivi. Invero, nell’esecuzione forzata esattoriale gli unici atti che rendono edotto il debitore del contenuto del titolo esecutivo sono la cartella di pagamento ed eventualmente l’avviso di mora. Con tale statuizione, la Cassazione, dunque, ha stabilito la necessità del riferimento a tali atti, i quali a loro volta indicano, specificandone la fonte e la natura, il credito per il quale si procede a riscossione. Di fatto, sono stati dichiarati illegittimi tutti i pignoramenti di crediti verso terzi effettuati dall’Agenzia delle Entrate, con la conseguenza di poter proporre opposizione facendo valere i propri diritti. In particolare, la nullità del pignoramento di crediti ex art. 72 – bis D.P.R. n. 602 del 1973 è dovuta alla mancata indicazione dei crediti ed è attribuita alla circostanza che Equitalia non può attestare con fede privilegiata di aver allegato al pignoramento l’elenco delle cartelle. La Cassazione ha, sul punto, evidenziato che “l’atto di pignoramento presso terzi, anche quando è predisposto nelle forme previste dall’art. 72 – bis D.P.R. n. 602 del 1973, in tema di esecuzione esattoriale, ha la natura di atto esecutivo e, quindi, di atto processuale di parte. La fidefacienza di cui all’art. 2700 c.c. riservata ai soli atti pubblici”. Risulta, quindi, infondata l’affermazione secondo la quale l’atto di pignoramento di Equitalia goda di fede privilegiata, per quanto concerne l’attività compiuta per la sua redazione, inclusa l’allegazione dei documenti ivi menzionati, fino a querela di falso. Si tratta, infatti, di un atto avente natura esecutiva, un atto processuale di parte e non di un atto pubblico, al quale è riservata la fidefacienza di cui all’art. 2700 c.c.. Infatti, la Suprema Corte distingue fra l’attività volta alla notificazione dell’atto, relativamente alla quale l’agente riscossore assume in effetti le vesti di pubblico ufficiale, da quella relativa alla stesura dello stesso, con riferimento alla quale egli agisce nella qualità di soggetto privato, come si desume dall’art. 49, comma 3, del D.P.R. 602/1973. In conclusione, non potendo attribuirsi fede pubblica all’attestazione relativa alle attività svolte dal funzionario preposto alla redazione dell’atto di pignoramento, si deve ritenere corretta l’affermazione secondo la quale debba essere rigorosamente provata l’effettiva allegazione delle cartelle esattoriali richiesta dall’art. 543 c.p.c..

Avv. Lucia Boellis

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Visite fiscali, cosa cambia?

E’ entrato in vigore il decreto Madia che ha stabilito le ore di reperibilità per i dipendenti pubblici, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18 (anche nei giorni non lavorativi e festivi).
Nel settore privato, invece, le vecchie fasce orarie per i controlli rimangono invariate: le visite fiscali avranno luogo dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, per un totale di 4 ore. I controlli nel privato non vengono quindi equiparati al pubblico, come invece suggerito dal Consiglio di Stato.
Secondo quanto prevede l’articolo 2, le visite fiscali possono essere effettuate “con cadenza sistematica e ripetitiva, anche in prossimità delle giornate festive e di riposo settimanale”. E può essere richiesta dal datore di lavoro pubblico, “fin dal primo giorno di assenza dal servizio per malattia” attraverso un canale telematico messo a disposizione dall’Inps.
Sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti con “patologie gravi che richiedono terapie salvavita; causa di servizio riconosciuta” con riferimento alle prime tre categorie della Tabella A allegata al decreto del presidente della Repubblica 30 dicembre 1981 n. 834 o a patologie della Tabella E dello stesso decreto; “stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta, pari o superiore al 67%”.

Avv. Antonio Nappi

Lavoratrice madre: il licenziamento è consentito?

Non di rado la gravidanza di una lavoratrice rappresenta un problema nei rapporti con il datore di lavoro, il quale a causa dell’assenza “tutelata” della dipendente decide di licenziarla o induce la stessa alle “dimissioni volontarie”.

Proprio per scongiurare e combattere tale pericolo è intervenuto il nostro legislatore, prevedendo un espresso divieto del licenziamento durante il periodo che va dalla gravidanza al primo anno di vita del bambino.

Tale divieto di licenziamento, tuttavia, non opera in casi eccezionali previsti e disciplinati dall’art. 54, comma 3, del D.Lgs. n. 151 del 2001: 1) colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto; 2) cessazione dell’attività aziendale; 3) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato; 4) esito negativo della prova.

Partendo dalla prima ipotesi, una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 2004 del 26 gennaio 2017 – intervenuta sui contenuti dell’art. 54 – ha stabilito che, per il recesso, non è sufficiente la giusta causa ma occorre un qualcosa di più, rappresentato dalla “colpa grave”, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria. Da ciò discende che la giusta causa e le conseguenti declaratorie del CCNL non sono sufficienti per procedere al recesso nel “periodo tutelato” ma che occorre una colpa soggettivamente più qualificata. Allo stesso modo, con l’ordinanza n. 28770 del 30 novembre 2017, la Cassazione ha ribadito che, il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo ricompreso tra l’inizio della gravidanza ed il compimento di un anno di età del bambino, in violazione del divieto di cui all’art. 54 del D.Lgs. n. 151 del 2001, è nullo ed improduttivo di effetti, sicché il rapporto di lavoro va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino all’effettiva riammissione in servizio.

La seconda ipotesi richiamata dal Legislatore, in deroga al divieto di licenziamento, riguarda la cessazione dell’attività aziendale. In passato, sia la dottrina che la giurisprudenza, avevano fornito una lettura estensiva della norma prevedendo la possibilità del licenziamento anche in caso di cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa, a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento in un’altra struttura o reparto dell’azienda. Tale indirizzo è stato, poi, abbandonato e la Corte, con le sentenze nn. 18810/2013 e 18363/2013, ha ribadito che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale, non soggetto ad interpretazione estensiva o analogica.

La terza esimente concerne l’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice era stata assunta o la scadenza del termine in un contratto a tempo determinato. Nel caso di appalti di servizi, ad esempio, con la scadenza dell’appalto in capo ad un appaltatore e riassorbimento del personale impiegato da parte di un secondo appaltatore vincitore del successivo appalto, non è consentito escludere dalla forza lavoro, quindi licenziare, la lavoratrice in stato di gravidanza o madre di un bambino con meno di un anno di età, solo perché assente per maternità, facendo riferimento alla norma che consente la deroga al divieto di licenziamento per ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta. La Cassazione sul punto ha ritenuto, infatti, illegittimo il licenziamento intimato in un appalto di pulizie, ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti ad eccezione di una lavoratrice assente per maternità che aveva un contratto di assunzione a tempo indeterminato.

La quarta ipotesi riguarda l’esito negativo della prova. Il recesso risulta legittimo soltanto se il datore di lavoro non è a conoscenza dello stato di gravidanza. Osserva la Corte Costituzionale con la sentenza n. 172 del 31 maggio 1996, che in caso contrario, per difendere la lavoratrice da prevaricazioni, il datore deve motivare il giudizio negativo concernente l’esito della prova. In questo modo si consente da un lato, all’interessata di fornire l’eventuale prova contraria e, dall’altro, al giudice di valutare i motivi reali del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza.

Avv. Luca Gencarelli

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Condominio: non sempre il condomino ha diritto al rimborso per spese condominiali

Può capitare a volte che uno o alcuni condomini prendano l’iniziativa, magari per ovviare a qualche inerzia dell’assemblea, affrontando personalmente delle spese nell’interesse di tutto il condominio.

La casistica è la più varia. Si va dalle piccole riparazioni di apparecchi o impianti comuni (tipico il caso del meccanismo di apertura a distanza del portone di ingresso o quello della sostituzione di lampadine malfunzionanti), fino alla messa in sicurezza o al vero e proprio restauro di elementi architettonici dell’edificio (come nell’ipotesi di spicconatura o rifacimento di cornicioni pericolanti e simili).

In tutti questi casi il problema, molto dibattuto nelle riunioni di condominio, è se chi ha effettuato la spesa senza preventiva autorizzazione dell’assemblea abbia o meno il diritto di ottenerne il rimborso.

Ebbene, la risposta in teoria è semplice ed è contenuta nell’art. 1134 del codice civile che, nella nuova formulazione scaturita dalla riforma del 2012, stabilisce testualmente che “il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente”. Dunque, la regola è che non vi sia alcun diritto al rimborso; mentre la sussistenza di un motivo di urgenza vale quale eccezione e perciò consente la rifusione delle spese anticipate.

Molto più difficile, però, è orientarsi nella prassi, poiché si tratta di capire se davvero la spesa sia urgente o piuttosto, come a volta accade, abbia carattere impellente solo per il condomino che decide di affrontarla autonomamente.

In particolare, la giurisprudenza, nell’interpretare la norma sopra citata, ha sottolineato che per integrare il requisito dell’urgenza non è sufficiente la semplice trascuratezza degli altri condomini. Di recente la Cassazione Civile, con sentenza del 30 ottobre scorso (n. 25729), ha precisato che per chiedere il rimborso della spesa sostenuta non basta la “difficoltà di procurarsi tempestivamente il consenso e la necessaria cooperazione degli altri condomini”. In questo caso, infatti, il codice prevede che ci si possa rivolgere all’autorità giudiziaria, che può anche nominare un amministratore.

Perché una spesa possa definirsi urgente – e quindi rimborsabile – occorre, insomma, che vi sia un’esigenza che richiede un intervento non dilazionabile nel tempo, tale che il tempo necessario per investire dell’attività l’amministratore possa comportare una situazione di danno o almeno di concreto pericolo.

In definitiva, il diritto al rimborso sorge solo alla duplice condizione che la spesa sia affrontata “per impedire un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune” e che “le opere debbano essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini” (Cassazione Civile sentenza  n. 9177 del 2017).

Avv. Cosmo Maria Gagliardi

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DSA, eccesso di diagnostica in Italia? Cassazione: psicologo a scuola senza consenso è violenza privata.

Negli ultimi anni, i continui cambiamenti legislativi riguardanti la scuola hanno portato ad un proliferare di sigle fra le quali può essere difficile districarsi come ad esempio PDP, BES, DSA. In particolare i DSA, ossia i disturbi specifici dell’apprendimento, sono una categoria di disturbi in cui rientrano dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia e vengono diagnosticati da psicologi e/o neuropsichiatri o eventualmente da altre figure come, ad esempio, il logopedista. La loro diagnosi è di competenza del personale sanitario. In tale contesto clinico si cercherà di comprendere le caratteristiche della persona, punti di forza e di debolezza, eventuali altre difficoltà associate, in base alle quali la scuola dovrà adottare le strategie didattiche opportune e dovrà elaborare un piano didattico personalizzato (PDP). Al giorno d’oggi molti bambini vengono etichettati come DSA. Una volta sarebbero stati definiti semplicemente “birichini” o “monelli”? Esiste un’ossessione da neuropsichiatria? Stiamo vivendo un’epoca di eccesso di diagnostica neuropsichiatrica? Le nuove generazioni sono classificate con sigle indicative di malesseri neuropsichiatrici, con tutte le conseguenze e i danni che ne possono derivare, negli anni a seguire. Il loro percorso scolastico, ed anche lo sviluppo personale e sociale, potrebbe essere compromesso dall’etichetta di bambini “problematici” che si appone loro con tanta facilità, in un’età così critica. La Cassazione, che recentemente è stata chiamata ad intervenire sull’argomento, con la sentenza n. 40291/17 ha rafforzato i dubbi di legittimità su alcuni aspetti della Legge 8 ottobre 2010, n. 170, recante “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico.”, già criticati da più parti in relazione al rischio di medicalizzazione della scuola. Secondo la Cassazione, Sez. V Penale, infatti, la mancanza dell’esplicito consenso da parte di chi è legittimato a prestarlo “integra certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”. Con l’assunto “Il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione la parte offesa (fra le tante pronunce, si veda Sez. V n. 11522 del 03/03/2009 …). Tale principio trova rispondenza in altre pronunce di questa Corte, secondo cui l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Sez. V n. 4284 del 29/09/2015, …)” la Cassazione ha riconosciuto nella presenza dello psicologo a scuola senza il consenso del genitore la configurabilità della violenza privata, riaffermando il rispetto della responsabilità genitoriale. In particolare, nel caso specifico sarebbe stato disposto un trattamento sanitario su minori, un’osservazione medico-clinica, senza il consenso dei genitori, in assenza sia di ragioni di urgenza sia di finalità terapeutiche, con lesione dell’integrità psichica dei minori e con ingiusta compressione al libero esercizio della potestà genitoriale. Potendo pacificamente affermare, inoltre, in tema di violenza privata, che la violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione. Inoltre, la relazione redatta dalla psicologa costituisce atto pubblico, in quanto documenta l’attività di osservazione degli alunni compiuta dalla psicologa dell’istituto, che, in tale veste, ha funzioni di pubblico ufficiale. Pertanto, il reato di occultamento nonché di omessa denuncia di cui agli artt. 490 e 361 c.p. possono dirsi sussistenti, al contrario di quanto sostenuto dal Giudice di primo grado. Alla luce di quanto motivato, la Cassazione ha annullato il proscioglimento del Gip di Arezzo nei confronti di due dirigenti scolastici, due insegnanti e della stessa psicologa, portati in causa dai genitori di un bimbo con presunti problemi comportamentali. Gli insegnanti avevano chiesto, senza aver preventivamente informato i genitori e/o aver chiesto loro alcun tipo di consenso, la consulenza del medico durante le ore di lezione per osservare l’atteggiamento relazionale dell’alunno. Al termine dell’analisi durata due mesi, il medico aveva stilato una relazione della quale i genitori erano venuti a conoscenza solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con l’insegnante. In seguito, è stata negata loro la richiesta di accesso agli atti, come anche l’esistenza stessa della relazione, da entrambi i dirigenti scolastici succeduti negli anni interessati. La sentenza ha riscosso l’approvazione di cittadini, docenti e dirigenti, associazioni a tutela dei minori e genitori ed anche dello stesso Ordine degli Psicologi, che in una nota si è espresso affermando che “la Corte di Cassazione, con la sentenza 40291/17, ha ribadito quanto è già previsto nelle procedure professionali degli psicologi, i quali operano sempre nei contesti minorili col consenso dei genitori e nell’esclusivo interesse del minore. Non è ammissibile infatti in alcun modo che altre figure, dirigenti e/o insegnanti, possano avvalersi dell’osservazione in via precauzionale da parte dello psicologo per la valutazione clinica di un minore. I genitori (e, nel caso, il tutore) sono gli unici responsabili del percorso di crescita del minore all’interno di regole ben condivise. E poi, ogni osservazione clinica di un minore poggia, e si completa, sulla necessaria contestualizzazione familiare che solo il colloquio con i genitori può fornire”. E’ evidente, dunque, sia sorta la necessità di un intervento di condanna all’approccio medicalizzato che ha investito la scuola a seguito della legge n. 170/2010 sui DSA. La sentenza della Cassazione rappresenta la rivendicazione di un principio secondo il quale il rispetto della genitorialità è fondamentale, in una scuola deputata a istruire e formare le future generazioni e non a distruggerle, minandone l’autostima. La scuola dovrebbe essere in continua evoluzione per potersi adattare, compensare e far fronte al bisogno del singolo alunno e, attraverso l’inclusione dell’individuo, dovrebbe adoperarsi per garantire agli alunni con specifiche difficoltà il raggiungimento degli standard minimi di autonomia personale, con validi strumenti di lavoro, come programmi personalizzati, nel pieno rispetto delle situazioni individuali e dei diversi stili di apprendimento che caratterizzano i diversi individui.

                                                                       Avv. Lucia Boellis

Locazione: niente canone senza registrazione del contratto  

 

L’art. 1, comma 346, della I. 30.12.2004 n. 311, stabilisce che “i contratti di locazione (…) sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati“. La chiara e inequivocabile lettera della legge non consente alcun dubbio sul precetto che esprime e cioè che un contratto di locazione non registrato è giuridicamente nullo. 

Sulla base di tale premessa la Corte di Cassazione, Sezione Terza, con la sentenza pubblicata il 13 dicembre 2016 ha annullato la sentenza emessa dalla Corte di appello che da un lato aveva ritenuto valido, ma inefficace un contratto non registrato e dall’altro, che tale inefficacia del contratto non esimeva l’occupante dall’obbligo di pagamento del canone pattuito “come corrispettivo della detenzione intrinsecamente irripetibile”.

Ciò perché non risulta applicabile l’art. 1458 c.c., in quanto questa disciplina la risoluzione per inadempimento dei contratti di durata, e non gli effetti della nullità, i quali sono invece disciplinati dalle norme sull’indebito oggettivo, da quelle sul risarcimento del danno, ovvero da quelle sull’ingiustificato arricchimento, come misura residuale;

Inoltre, non risulta possibile equiparare l’obbligo di pagare il canone, scaturente dal contratto e determinato dalle parti, con l’obbligo di indennizzare il proprietario per la perduta disponibilità dell’immobile, scaturente dalla legge e pari all’impoverimento subito.

Con la sentenza richiamata, pertanto, sono stati sanciti due principi fondamentali:

  1. il contratto di locazione non registrato è nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, della I. 30.12.2004 n. 311;
  2. la prestazione compiuta in esecuzione di un contratto nullo costituisce un indebito oggettivo, regolato dall’art. 2033 c.c., e non dall’art. 1458 c.c.; l’eventuale irripetibilità di quella prestazione potrà attribuire al solvens, ricorrendone i presupposti, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., od al pagamento dell’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.

Avv. Antonio Nappi