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Daniele Vicari: la realtà e la coscienza

COSENZA – Ieri mercoledì 23 maggio è ufficialmente partita la rassegna cinematografica “CampusCinema100” con la proiezione di Diaz di Daniele Vicari, film che racconta una delle pagine più nere della storia italiana recente, ovvero gli eventi tragici avvenuti all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova 2001.
Il film è stato proiettato ieri sera alle 21 presso il cinema Garden di Rende e nel pomeriggio il regista ha incontrato gli studenti dell’Unical.
Un dibattito molto interessante durante il quale Vicari ha più volte sottolineato che, pur trattandosi di un film socio-politico, non è un film di denuncia perché si rifiuta di dimostrare qualsiasi tesi o di fornire una qualsivoglia giustificazione a posteriori, anche perché se così fosse, continua il regista, rischierebbe di invecchiare immediatamente.
Al contrario è un racconto potente, feroce che ti spacca le ossa, è il tentativo di ricostruire e di indagare minuziosamente in alcuni dei fatti accaduti nella notte del 21 luglio del 2001 attraverso quel principio di realtà rintracciabile solo nelle testimonianze di tutti coloro che hanno vissuto quegli eventi.
Il film non racconta di vittime o di colpevoli precisi ma ricostruisce gli avvenimenti attraverso un gioco di destini incrociati che tiene legati una serie infinita di personaggi senza individuarne un protagonista.
Il lancio della bottiglia di vetro contro l’auto della polizia, che è la scena iniziale di Diaz e che ricorre molto spesso durante il film quasi fosse un eterno ritorno all’identico, diventa l’orologio di tutta la narrazione e mette la storia al centro di questo racconto infinito che ha sempre lo stesso punto di inizio ma molteplici prosecuzioni, descritte da diversi punti di vista.
Non è film che termina con una sentenza, non vuole essere un processo, la politica e le conseguenti polemiche vengono volutamente lasciate ai confini della narrazione, Vicari preferisce la fedele e cruda realtà ma rinunciando a qualsiasi intento educativo-didattico.
Diaz ha uno scopo ben preciso ovvero quello di agire sulla nostra memoria storica lasciando da parte tutte le possibile dietrologie, pone domande senza imporre risposte, ha lo scopo di risvegliare le coscienze del pubblico da quell’indegno sterminio disumano che ha portato molti a leccarsi le ferite senza più porsi alcuna domanda, ha lo scopo di lasciare a ogni spettatore un pezzettino di film da “rosicare”, per non smettere mai di interrogarsi.

Gaia Santolla

Siamo tutti Ingroia

COSENZA – Anche se solo per qualche ora, il Procuratore Aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo Antonio Ingroia abbandona le stanze del Palazzo di Giustizia per far visita agli studenti dell’Università degli studi della Calabria.
Il Pm Ingroia ha aperto, ieri mercoledì 16 maggio, il primo di una serie di incontri di “Liberare la Speranza”, un Laboratorio di Educazione alla Memoria e alla Giustizia attivato dal Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione dell’Unical in collaborazione con Libera, Associazioni numeri e nomi contro le mafie di Cosenza e la Fondazione Don Milani e la Scuola di Barbiana.
L’aula universitaria che ha ospitato l’evento era affollatissima tanto da riuscire a contenere a malapena il vigoroso entusiasmo degli studenti accampati ovunque.
Quella di ieri è stata la testimonianza reale di un uomo impegnato in prima linea nella lotta contro la mafia e nella difesa della legalità, un uomo giusto che vuole indagare laddove risiede il seme del male, un uomo integerrimo che vuole definitivamente recidere le intricate relazioni che la mafia ha con la politica e l’economia.
Il suo è stato un lungo excursus sulle origini e sull’evoluzione della criminalità organizzata, ha più volte sottolineato che l’unico modo che abbiamo per combattere la mafia è quello di conoscere bene il nemico che si ha di fronte, smettendo di credere che sia esclusivamente un problema di ordine pubblico ma cominciando a considerarlo per quello che è, ovvero un radicato sistema di potere criminale che opera sul territorio.
Un sistema che interagisce continuamente con i poteri legittimi a cominciare da quello politico ed economico, integrandosi complemente con questi, dando vita a una costante osmosi con la società civile.
Continua dicend che lo scopo della lotta non è il contenimento ma il definitivo annientamento delle mafie, un’utopia che deve necessariamente diventare un obiettivo e questo non lo si può attuare operando solo sul campo penale ma soprattutto facendo ricorso a una buona etica personale e pubblica.
Bisogna concentrarsi sull’educazione ai valori della legalità, della responsabilità e della solidarietà, bisogna garantire un’applicazione della legge uguale per tutti ma soprattutto pretendere una classe dirigente che sia responsabile.
Qulla di ieri è stata una significativa lezione ma ora i compiti a casa spettano a ciascuno di noi, perché la lotta alla mafia coinvolge tutti, nessuno escluso. A questo punto diventa fondamentale integrare l’esperienza dell’altro con la nostra, perché ogni singola conquista, anche la più piccola, nasce dall’impegno comune di superare l’io per riscoprirsi appartenenti a un noi.

Gaia Santolla

Caso Marlane, presentato il libro all’Università della Calabria

COSENZA – «I medici mi avevano mandato a casa, ero finito…», non riesce a parlare Luigi Pacchiano. Poi riprende: «ma in quel momento ho avuto la forza di lottare non solo per me, ma per gli altri, per i morti. Questo fatto ci deve insegnare a lottare, a non farsi calpestare». Luigi Pacchiano è l’operaio della Marlane che nel 1996 ha denunciato lo stabilimento tessile di Praia a Mare per danno biologico. Insieme a lui, Francesco Cirillo e Giulia Zanfina hanno presentato il loro libro sulla vicenda, Marlane: la fabbrica dei veleni, all’Università della Calabria. L’iniziativa è stata promossa dal Partito dei Comunisti Italiani, «per riprendere le lotte e ripartire dal basso», chiarisce il segretario provinciale, Giovanni Guzzo. Sono intervenute, inoltre, Rossella Morrone e Laura Corradi.

 

Il processo alla Marlane

Nel libro si legge che Luigi Pacchiano «ha creato i presupposti per le indagini» sullo stabilimento tessile dei Marzotto. L’inchiesta è stata avviata più di dieci anni fa dal pm Antonella Lauri della Procura di Paola. Si è conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per tredici ex responsabili e dirigenti accusati, a vario titolo, di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e disastro ambientale, per la morte di decine di operai e le patologie tumorali di altri ex lavoratori – che sarebbero state causate dai vapori della tintoria – e lo smaltimento illecito di rifiuti tossici.

Il processo è iniziato il 19 aprile 2011, ma il dibattimento non è mai cominciato: in un anno si sono susseguiti sei rinvii. Nell’ultima udienza è stata battaglia per l’ammissione delle parti civili. «Gli avvocati della difesa, tra cui Ghedini, – afferma Cirillo – cercano sempre cavilli per far scattare la prescrizione».

Intanto, nel 2004, la fabbrica di Praia a Mare ha chiuso: produzione delocalizzata.

 

Da Rivetti ad oggi: la ricostruzione di Francesco Cirillo

Francesco Cirillo parte dagli anni ’50 quando il Conte Rivetti – «con soldi dello Stato» – costruisce due fabbriche tessili, a Maratea prima e a Praia a Mare poi. «Anche un giornalista del calibro di Montanelli – fa sapere Cirillo – scriveva che prima dell’arrivo di Rivetti, in Calabria, vivevano come venti secoli fa». Il mediattivista sottolinea che gli operai lavoravano e producevano tanto.

Negli anni ’80 – «con soldi dello Stato» – subentra il gruppo Marzotto. A questo punto del suo racconto, Francesco Cirillo enumera i punti critici emersi: l’uso di prodotti che hanno causato la morte degli operai – «la Procura ne ha accertati una cinquantina, ma noi pensiamo siano molti di più. E’ molto difficile raccogliere i dati, noi siamo andati casa per casa» – la mancanza di misure protettive per gli operai, i sindacalisti a capo delle piccole imprese dell’indotto, i rifiuti sotterrati sotto la fabbrica o smaltiti illecitamente.

Cirillo, quindi, passa in rassegna i passaggi che hanno portato al processo in corso e le proteste per chiederne l’inizio effettivo. «Nell’ultimo sit-in eravamo in pochi. Alla Thyssen erano in mille, all’Ilva c’erano tutti gli studenti. Purtroppo, in Calabria, non riusciamo a riunirci».

 

Luigi Pacchiano, la memoria storica

Ha lavorato alla Marlane Luigi Pacchiano. «Io posso raccontarvi delle condizioni interne», esordisce. Racconta che, nello stabilimento di Praia a Mare, l’ambiente era unico, non c’erano divisioni tra i reparti, quindi i vapori della tintoria raggiungevano tutti. «C’erano polveri, cattivi odori, vapori, noi dicevamo: ‘c’è nebbia in Val Padana’». D’estate, con 40° di temperatura, ricorda di come dovessero uscire fuori per respirare. «Non ho mai visto un medico – puntualizza – mai una visita ispettiva. Non usavamo né guanti né mascherine né cappelli». Alla domanda sui sospetti degli operai circa la possibile nocività dei vapori, risponde: «ci dicevano che era solo cattivo odore. In più, strappavano le etichette».

Luigi Pacchiano va indietro nel tempo. Al 1973, quando muoiono i primi due operai – «il primo aveva trentacinque anni». Al 1993, quando gli viene diagnosticato un tumore contro cui combatte ancora oggi – «sono stato trentacinque volte sotto anestesia». Allo spostamento di postazione negato. Al riconoscimento della malattia professionale da parte dell’INAIL. Alla sua lettera di licenziamento e alla denuncia dell’azienda per danno biologico. All’impegno per il coinvolgimento degli altri lavoratori nella questione Marlane. Luigi Pacchiano racconta ai presenti la sua storia. Per un attimo non riesce a parlare, mentre rievoca il giorno in cui i medici lo mandarono a casa: «ero finito… ma in quel momento ho avuto la forza di lottare non solo per me, ma per gli altri, per i morti. Questo fatto ci deve insegnare a lottare, a non farsi calpestare».

 

L’appello di Giulia Zanfina

La documentarista fa riferimento all’intervista fatta a Francesco Depalma nel 2010 e trascritta nel libro. L’operaio, ora scomparso per il cancro, aveva rivelato di aver sotterrato «il rimanente del rifiuto del colore» nel terreno della Marlane perché – aveva spiegato – «se non lo facevi tu, lo faceva un altro, in quelle condizioni dovevi farlo per forza».

«Ci aspettavamo che la nostra inchiesta fosse acquisita come prova in quanto Francesco non c’è più – dice Giulia Zanfina – faccio qui questa richiesta».

 

 

Rita Paonessa

Contestazioni, Incursioni e Poesia

COSENZA – Pochi, decisamente troppo pochi gli eletti che hanno avuto la possibilità di assistere all’inaugurazione del quarantesimo anno accademico dell’Unical e soprattutto al conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna all’inarrivabile Roberto Benigni.
Inarrivabile è la parola più esatta, se si considera la folta e immotivata schiera di agenti polizia che asserragliava l’accesso del teatro. Verrebbe quasi da dire severamente vietato l’ingresso ai cani e agli studenti, anche se qualche cucciolo, che è solito popolare il campus, ha avuto l’inconsapevole fortuna di gironzolare nello spiazzale circostante.
Questo non ha di certo intimorito alcuni studenti che armati di megafono e volantini non hanno perso l’occasione per esperimere il proprio dissenso per la mancata partecipazione all’evento, ma la disapprovazione ha assunto tonalità un po’ più accese quando l’oggetto della stessa passa da Roberto Benigni “solo per pochi” alla noncuranza dei vertici dell’università verso i problemi reali che continuano a tormentarla.
A movimentare ulteriormente la cerimonia sono state le Iene con l’incursione a sorpresa di Angelo Duro, il cantante senza pubblico, che dopo aver provato a fargli cantare una canzone ha tentato il tutto per tutto baciandolo in bocca.
Ad ogni modo Benigni diventa (dopo una prima laurea in Filosofia e una seconda in Lettere) per la terza volta dottore questa volta in Filologia Moderna per sottolineare la sua assoluta importanza nella divulgazione al grande pubblico della Divina Commedia nei teatri così come nelle piazze.
La sua Lectio Magistralis spazia in luoghi sfumati e cristallini, in tempi di oggi e di altre età, Dio, l’arte, la scienza, la politica, Dante, il libero arbitrio, la poesia, tutte argomentazioni legate l’un l’altra da un solo e unico filo conduttore che è la parola.
Piccola, invisile ma così onnipotente quasi divina nel placare la paura, nel rimuovere il dolore, nell’infondere gioia. E’ difficile non lasciarsi trasportare in questi suoi interminabili viaggi semantici così poetici e così ironici, del resto è l’umorismo il modo migliore per dimostrare che si fa sul serio e Benigni questo lo sa bene.
Il neo-dottore decide di terminare la sua lezione nel modo che gli è più congeniale, recitando il suo Dante, il canto trentatreesimo del Paradiso, quello della Vergine Maria, in un silenzio devoto e a tratti commosso si muove abile tra quei versi che continuano ad entusiasmarlo come se li recitasse per la prima volta.
Sarebbe bello che tutti quelli che lo hanno ascoltato ieri, nelle frenesie delle proprie quotidianità continuassero a ripetersi anche nei giorni successivi i versi con i quali Benigni c’ha salutato…“L’Amor che move il sole e l’altre stelle”, perché spesso ci possono salvare solo le parole.

Gaia Santolla