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Falso Movimento XIV/2012.2013: WOMB di Benedek Fliegauf

Martedi 4 Dicembre 2012 ore 21.00, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il film “WOMB” di Benedek Fliegauf.

Due bambini s’innamorano, poi si separano. Lei, Rebecca (Eva Green), dopo anni, torna, ritrova lui, Tommy (Matt Smith), lo riama, lo riperde. Ma l’amore è più caldo della morte: così lei lo clona, portandoselo in grembo, crescendolo come un figlio, soffrendo per questo amore che ha cambiato forma. Fliegauf riscrive il mondo: partecipando a un dramma intimo e struggente, lo spettatore è invitato a provare la propria morale, a ridisegnare le coordinate etiche secondo una realtà dove è consentita la clonazione

, dove i tabù che strutturano la società (l’incesto, per esempio) si sono geneticamente modificati.
E in questa richiesta c’è un atto d’amore e fiducia nel pubblico. Sopraffino manierista, tra i massimi giovani talenti europei, l’ungherese Fliegauf sa che in ogni inquadratura si posano toni, umori, moti d’anima. E dunque ripropone, mentre gli anni scorrono e i corpi cambiano, gli stessi punti macchina, cercando i detriti d’emozione sedimentati dal tempo. Evoluzione del mito di Edipo, Womb (Grembo), arrivato nelle nostre sale con due anni di ritardo dopo aver transitato e vinto al Festival di Locarno, è Sci-Fi contemplativa, tarkovskijana, interessata all’uomo, alla carne viva e morente, alla biologia, è un’opera imperfetta dipinta con insana grazia pittorica, conscia che la ripetizione è una forma di cambiamento, orchestrata intorno a simboli perturbanti (il dinosauro giocattolo, la lumaca, gli scarafaggi, gli animali forse estinti) e abitata da due interpreti semplicemente sublimi. Perché sanno implodere o esplodere di dolore, non sottraendosi mai alla propria grottesca, ambigua, inquieta natura.


FalsoMovimento: The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura di F.F.Guzzi

Domenica 2 Dicembre 2012 ore 20.15, presso il Teatro Comuncale di Rovito, verra’ proiettato il film  The Hurt Locker di Kathtryn Bigelow a cura F.F.Guzzi.

L’uomo non è che un giunco, il più debole nella natura; ma è un giunco che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente ad ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo invece non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ li che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non sapremmo riempire. Diamo opera dunque a pensare rettamente: ecco il principio della morale”  (Cfr. Pascal, Pensieri, Milano, 1952,  p. 134)

La citazione di Pascal si lega appieno al film (‘The Hurt Locker’ di Kathryn Bigelow) oggetto di questo settimo appuntamento de ‘La Versione’, perché coglie proprio l’aspetto indagato dalla pellicola proposta.  

L’uomo infatti pensa, e questo gli dà dignità di creatura eletta; ma il pensiero che misura l’attesa, che a sua volta si tramuta in tensione – in virtù di una probabile morte collegata a vicende tragiche e surreali –  lo rende allo stesso tempo fragile e sofferente. 

‘The Hurt Locker’  parla appunto di tensione, attesa, fragilità dell’individuo e sofferenza.

Nonostante questi rilevanti profili di indagine, è una pellicola che, incredibilmente, suscitò scarsa attenzione alla sua presentazione al Festival di Venezia e, poi, al botteghino (il risarcimento avverrà solo successivamente, con la vittoria di ben sei premi oscar e conseguente distribuzione anche nelle sale italiane).

L’indifferenza iniziale fu, forse, dovuta al fatto che non è un film propriamente di guerra, sebbene abbia ad oggetto la guerra. Il racconto si concentra infatti sulle conseguenze, soprattutto psicologiche, che il conflitto genera in chi lo vive.

Ambientata in Iraq, la narrazione segue tre personaggi: il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge; affronteranno, in simbiosi, i catastrofici eventi di un conflitto che, e in questo sta la cifra del film, più che esplicitarsi in scontri (ne troviamo infatti, solo uno) ci viene mostrato nel suo aspetto intimista, collegato ai disagi interiori e alle conseguenze nefaste che determina sui protagonisti.

Il dato concreto e ‘fisico’ (lo scontro contro i ribelli iracheni o la quotidiana attività di disinnescamento di bombe), fa infatti da sfondo all’aspetto, non meno forte e intenso, non meno reale, che è quello interiore.

Il sergente James, il sergente Sanborn ed il soldato Eldridge, vivono infatti in bilico, in tensione  appunto, tra la vita e la morte; ogni uscita, ogni missione – che ha come obiettivo quello di disinnescare le mine – è un viaggio spettrale e soprattutto interiore, nell’inspiegabile, nella follia, nella paura.

Si ha paura di tutto e di tutti; degli iracheni che ti osservano con una telecamera; di coloro che utilizzano un telefonino (che potrebbe essere utilizzato per attivare la bomba); di chi, semplicemente, passa in macchina oppure ti guarda; si ha paura anche di se stessi, soprattutto di se stessi.

L’aspetto rilevante del film sta nell’endiadi lotta esteriore-disperazione interiore; quest’ultima legata alla incapacità di trovare una spiegazione in tutto ciò che ci sta intorno; impossibilità che si trasforma in delirio, in follia, in paura, in attesa e tensione. 

Sono soprattutto quest’ultimi due aspetti che caratterizzano la pellicola; tutto ruota e si svolge, infatti, all’interno del crinale della tensione e dell’attesa, che diventano fattori ancora più esplosivi delle bombe non esplose e disinnescate; l’attesa – che ti porta a riflettere e a interrogarti sulla possibile morte, e sul significato di ciò che stai compiendo – diventa fattore troppo ingombrante per essere sopportato. 

Attesa dunque, che alimenta il pensiero, il quale, a sua volta, determina tensione. Tutti fattori che attanagliano e perseguitano, e che, con lo scorrere dei minuti e degli ‘eventi’, diventano sempre più claustrofobici, ingombranti e alienanti (anche per lo spettatore), fino ad arrivare all’esito (paradossale) in cui siffatta condizione finisce per creare dipendenza, come una droga. 

La lotta, la guerra, assorbono a tal punto da diventare oppio e linfa che consentono di andare avanti e convivere con la disperazione.  

La potenza della visione in questo caso è notevole, perchè riesce a cogliere gli aspetti e le tracce evidenziate, in maniera assoluta. 

Qualunque ulteriore sottolineatura e specificazione scritta, sembra infatti ridondante, quasi inutile e superflua. L’idea dell’attesa e della tensione che si tramutano in disperazione per i tre protagonisti (che così arrivano all’hurt locker, ciò che in gergo sportivo è la soglia di massima sopportabilità del dolore) trova infatti sintesi unica e rappresentativa nelle immagini  e nel loro montaggio, che sembrano quasi sfidare il racconto scritto, rendendolo impotente.

The Hurt Locker’: la visione che travalica i limiti e supera le virtù della scrittura; non ci resta allora che guardare… (F.F.Guzzi)

“Sopravvivenze: l’estremo della vita/la vita agli estremi”: la minirassegna del Cineforum FalsoMovimento

Il Cineforum FalsoMovimento di Rovito presenta “SOPRAVVIVENZE: L’ESTREMO DELLA VITA/LA VITA AGLI ESTREMI”. La minirassegna cinematografica inizia domenica 25 novembre ore 20.15, presso il Teatro Comunale di Rovito, con la proiezione del film The Way Back (2010) di Peter Weir, e continua martedì 27 novembre, ore 21.00, con The Ditch (2010) di Wang Bing.

The Way Back

Fuga rocambolesca per la sopravvivenza. Da un gulag. Dal gelo dei boschi siberiani alle desertiche distese mongoliche fino alle feroci tempeste di sabbia e al caldo soffocante del Gobi. Torna la vecchia scuola del cinema, con il regista australiano Peter Weir: pochi espedienti tecnologici, computer grafica al minimo, quasi nulla. Largo agli ampi paesaggi in contesti schiaccianti, soffocanti e ritratti dalla fotografia di Russell Boyd che cattura la natura nella sua forma più minacciosa e straordinariamente bella. The Way Back è basato sul libro di Slaomir Rawicz, The long walk, la cui veridicità è molto contestata. Che la vicenda sia stata vissuta o meno, comunque, nell’economia della pellicola assume una rilevanza soltanto suggestiva. L’epopea di cui parla Rawicz fornisce allo script un’eccellente ispirazione per tracciare la storia di un gruppo di fuggiaschi determinati a sopravvivere a qualsiasi avversità. Una celebrazione burbera, certo, ma esaltante del valore della libertà.

E poi c’è la poetica di Weir per i personaggi resi piccini dalla vastità del mondo. Che sia l’outback, l’entroterra australiano di Picnic a Hanging Rock, piuttosto che il mare in tempesta di Master and Commander oppure l’universo artificiale di The Truman show. Stavolta ci sono il freddo, la fame, la sete, il caldo. E la macchina da presa è lì a scovare i segni tangibili delle sofferenze sui volti, sui corpi dei fuggitivi. Sullo sfondo, i paesaggi mozzafiato di un Oriente fascinoso quanto infido, percorso in un’improbabile trekking estremo ed estenuante. A completare l’opera di Weir un plotone di interpreti davvero ben scelti, a cominciare da un Colin Farrell in stato di grazia. L’attore irlandese tenta di rubare la scena a un intenso Ed Harris : davvero una bella ‘lotta’ tra i due. E merita menzione anche la toccante Saoirse Ronan. Una lunga passeggiata quella ordita da Peter Weir per tornare al cinema dopo sette anni – The Way Back è targato 2010 ma è stato distribuito in Italia dopo due anni – dal suo ultimo lavoro (Master and Commander, 2003). Una camminata di quattromila miglia dura e faticosa per raccontare, alla fine del viaggio, una verità semplice ed elegante: non mollare mai.

 

The Ditch

Alla fine degli anni cinquanta, il governo cinese condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza sociale e famigliare. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi, lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari, circa tremila “intellettuali” di estrazione basso o medio borghese dalla provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e delle terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove dormivano. The Ditch (Il fossato) racconta il loro destino. Ancora un grandissimo regista cinese, capace di non far rimpiangere uno dei massimi esponenti della cinematografia mondiale in assoluto, il connazionale Jia Zhangke. Completamente diversi nello stile, ma con la stessa capacità di mescolarsi con la materia filmica, senza intralciare il flusso degli eventi, senza manipolare eccessivamente le pulsazioni dell’esistenza. Nella fossa comune batte lentamente, fino a fermarsi, il cuore di un Paese trincerato e devastato, fuori, nel deserto invece il vento, la polvere, i lamenti, l’orizzonti irraggiungibile, sono tormenti dell’anima, burrascose tempeste di corpi piegati e sofferenti. Documentare sembrerebbe l’unica strada percorribile, l’unico sentiero riconoscibile in quel deserto spazzato via dal dolore, ma in realtà lo sguardo di questo magnifico autore si perde nel nulla della narrazione, elevando anche un granello di sabbia sollevato dal vento al più memorabile dei miracoli. Wang Bin (co-sceneggiatore di Hero e La foresta dei pugnali volanti, nonché autore di He Fengming, documentario-intervista di una anziana donna cinese che racconta la sua personale odissea attraverso la Cina comunista del dopoguerra) segue un modus operandi rigoroso e dalla morale rigida, come le immagini scolpite dalla macchina fissa. Poche inquadrature, ma lunghe nella propria staticità. Una dilatazione temporale che non sembra avere fine, spazi chiusi (anche quelli sterminati fuori campo) che danno poco respiro, così come chiuso il mondo dei protagonisti. Più che chiuso probabilmente quel mondo è proprio giunto alla fine, senza ritorno, ma la morte è leggera, quasi metafisica, fluttua nell’aria, anche oltre lo schermo e si deposita come polvere. Apparenza ed esistenza quindi sono lo stesso in quanto ciò che esiste, appare. In quanto e per quanto appare questo cinema, apparenza e verità coincidono. Wang Bing ci fa credere fino in fondo nel vuoto perché nasce dall’astrazione dello spazio-luogo filmico, lontano da ogni immaginazione o forse troppo spesso solo immaginato dai registi professionisti del dolore. Metafisico quindi perché trascendentale meta in atto posta al fisico e alla mente.

“Il mio migliore incubo”

A Rovito martedì 20 novembre ore 21.00 IL MIO MIGLIORE INCUBO  di Anne Fontaine

Una commedia francese che riesce a divertire senza essere mai gratuita affrontando temi quanto mai attuali come le dinamiche relazionali, i rapporti con i figli e il modo in cui il concetto di famiglia tradizionale, negli anni Zero, si presta ad essere messo sempre più in discussione a favore di nuovi modelli. Se nei primi minuti il film di Anne Fontaine infila una serie di scoppiettanti siparietti comici uno dietro l’altro, con Agathe che si ritrova la casa in subbuglio a causa dei lavori, e Patrick che invade la sua privacy, successivamente svela con arguzia aspetti meno scontati dei mondi che appartengono ai due protagonisti. Agathe è una donna abituata ad avere il controllo su tutto, ma è praticamente incapace di occuparsi di questioni pratiche e quindi dipende dai suoi “sudditi”, mentre François dimostra invece un pragmatismo ed una concretezza inaspettati, considerata la precarietà della sua esistenza.

Il Trailer:  http://www.youtube.com/watch?v=PvI_dZJ3f6E.

Falso Movimento XI/2012-2013: Il mio migliore incubo

Martedi 20 novembre alle ore 21.00, presso il Teatro Comunale di Rovito, ritorna il cineappuntamento del gruppo “Falso Movimento”. In programmazione la visione del film Il mio migliore incubo di Anne Fontaine Con Isabelle Huppert, Benoit Poelvoorde e Andrè Dussollier.

Agathe (Isabelle Huppert) vive con figlio e marito (André Dussolier) in un ricco appartamento. Patrick (Benoit Poelvoorde), invece, vive con suo figlio nel retro di un furgone. Sono due persone diametralmente opposte e non tollerano l’uno la vista dell’altro. Non avrebbero mai voluto incontrarsi, ma i loro figli sono inseparabili.

Falso Movimento X/2012-2013: “The Angels’ Share” di Ken Loach

Martedi 13 novembre alle ore 21.00, presso il Teatro Comunale di Rovito, ritorna il cineappuntamento del gruppo “Falso Movimento”. In programmazione la visione del film, inedito in italia, “The Angels’ Share” di Ken Loach con Roger Allam, John Henshaw, William Ruane, Daniel Portman, David Goodall.

A Glasgow, il 24enne Robbie, da poco diventato padre, trova nella visita ad una distilleria di whisky l’idea per una nuova carriera lontano dal crimine e una via poco ortodossa per una fuga dalla povertà.

Falso Movimento IX/2012.2013: ALPIS di Giorgos Lanthimos

Domani 6 novembre, alle 0re 22.00, presso il Teatro Comunale di Rovito, verrà proiettato il film, inedito in Italia, ALPIS di Giorgos Lanthimos (2011).

“Alpis” (Alpi) è il nome di uno strano gruppo. Una piccola “società”, un’improbabile congregazione, l’appellativo di un quartetto tanto inusuale quanto male assortito. Un’infermiera e un paramedico, una ginnasta e il suo allenatore. Vite, età, sogni diversi riuniti in un’attività imprenditoriale finora sconosciuta: sostituirsi nella vita di tutti i giorni ai cari estinti per attenuare il dolore della perdita delle famiglie. Rimpiazzi, surrogati, palliativi dietro compenso, l’attività del gruppo “Alpis” va oltre il profitto economico, soprattutto per l’infermiera, che pagherà a caro prezzo le sue “terapie domiciliari”, non appena scavalcherà la squadra per agire individualmente.

E’ un mondo difficile quello descritto dal greco Giorgos Lanthimos, regista pluripremiato con Kynodontas (vincitore di Un Certain Regard a Cannes 2010 e nomination all’Oscar per il miglior film straniero, visto a Rovito nel nostro cineforum lo scorso anno e ancora senza distribuzione in Italia). I suoi personaggi sono ai margini di una società che non si accorge di loro. Una realtà esterna che assume confini indefiniti e impalpabili finché “Alpis” non si riunisce e decide di manifestarsi nel mondo reale, e i suoi membri di agire e diventare protagonisti, pur sacrificando la propria identità. Ed è forse questo il loro scopo primario, annullare il proprio io per diventare – in altro modo – importanti per qualcuno. Costruire esistenze alternative e fuggire dalla gabbia triste in cui si vedono imprigionati ogni giorno di più può allora diventare l’unica e ultima speranza di salvezza.
Nelle sue storie di perdita e impossibili sostituzioni, Alpis (presentato nel concorso ufficiale di Venezia 2011 dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura) mostra l’estremizzazione di alcuni istinti, esigenze, paure, ma soprattutto procede allo svuotamento, al drenaggio silenzioso di quanto abitualmente costituisce l’individuo. Svuotamento dei corpi, della loro capacità di relazione e della densità, fino a renderli del tutto accessori – e attribuendogli in questo modo una pura forza figurativa; svuotamento delle parole, attraverso meticolose operazioni di revisione dei significati, di distacco dal senso, di svelamento dell’artificialità del meccanismo di corrispondenze; svuotamento dei rapporti, nell’incapacità di coltivarne, di comprendere ruoli sociali che continuano comunque a esercitare una forte pressione. Il fatto stesso che il mondo, svuotato, sia oggetto di rappresentazione – registrazione e visione – genera la dimensione del film di Lanthimos: ancora più che ironico e cinico, pienamente paradossale, quindi intimamente realistico.
Una pellicola non facile dunque che si insinua sottopelle puntando sulla dirompente fisicità dei protagonisti (nel cast anche la brava Ariane Labed, Coppa Volpi a Venezia 67 per la sua interpretazione in Attenbergh), anime solitarie in cerca di umanità.

Liberty Heights di Barry Levinson, il cineappuntamento di “Falso Movimento”

Domani, 1 Novembre, alle ore 21.00 presso Taetro Comunale di Rovito, e’ programmata la visione di Liberty Heights di Barry Levinson a cura del cineforum “Falso Movimento”.

1954. Liberty Heights è il quartiere ebraico di Baltimora, dove vive la famiglia Kurtzman; madre casalinga, padre impresario di spogliarelli e lotterie clandestine, il figlio maggiore studente universitario e il minore studente liceale. La Seconda guerra mondiale è finita da nove anni ma, nella potenza economica e militare che ha determinato la sconfitta del nazismo, sono affissi nei club cittadini cartelli che vietano l’ingresso agli ebrei, ai cani e ai negri.

È su questa forte contraddizione che Barry Levinson ha costruito il suo ultimo film, basato in gran parte su ricordi personali. Lo sguardo privilegiato di questa storia è quello di Ben, il figlio minore che adora Sinatra e che solo al liceo scopre che il mondo è abitato in maggioranza da “gentili”. Ben s’innamora di una compagna di classe nera, ma presto si accorge che in quell’America vi sono barriere, di ceto e di razza, insormontabili. Amori, amicizie, destini familiari scorrono piacevolmente, descritti con un tono da commedia percorso da piccole ma profonde venature di amaro. Un “come eravamo” che rivela l’anima nera e intollerante degli Stati Uniti, accompagnato da una colonna sonora che sfodera il meglio di quegli anni, da Sinatra a James Brown.

«Com’è noto Barry Levinson ha una filmografia cospicua ancorché discontinua in cui alterna film commerciali ad altri più personali. I primi servono di fatto a finanziare i secondi. Certi titoli sono davvero immemorabili, altri ce li ricordiamo, eccome! Ad esempio A cena con gli amici, Il migliore, Tin Men, Good Morning Vietnam, Avalon, Bugsy. La sua vena migliore e più autobiografica ispira Liberty Heights (1999), con quella sapiente mistura di ironia e lirismo, denuncia e nostalgia, che gli conferiscono il ritmo, il respiro e la fragranza che ritroviamo soltanto in certi romanzi di formazione della grande letteratura ebraico-americana». Ugo G. Caruso

Falso Movimento presenta: “Marina Abramovic: The Artist Is Present”

theartistROVITO (CS) –  La nuova stagione di Falso Movimento prenderà il via l’11 settembre alle ore 21 con il film documentario Marina Abramovic: The Artist Is Present di Matthew Akers, dedicato a una delle figure chiave dell’arte contemporanea. Una data e un appuntamento significativi per apprezzare uno dei documentari più applauditi della stagione, presentato al Sundance Film Festival 2012 e vincitore, tra gli altri premi, del Panorama Audience Award alla 62. Berlinale e dello Special Jury Award allo Sheffield Doc/Fest.

 

Non un semplice film su un’artista, ma l’estrema epifania di una personalità che da quarant’anni ridefinisce il concetto stesso di arte mettendosi in gioco senza rete: la dimostrazione semplice e profonda allo stesso tempo di come basti l’immobilità di un corpo a risvegliare la commovente emozione di essere uomini. Un viaggio cinematografico all’interno dell’opera radicale di Marina Abramović, e insieme il ritratto intimo di una donna affascinante e magnetica, che non fa alcuna distinzione tra la vita e l’arte.

Marina Abramović (Belgrado, 1946), usando il suo corpo come un “mezzo”, spingendosi oltre i propri limiti fisici e mentali, crea performance che ci sfidano, scioccano e commuovono. È, “semplicemente”, una delle figure più interessanti del nostro tempo, un’icona del mondo dell’arte. Marina Abramovic: The Artist Is Present ci conduce dentro il suo mondo, seguendola mentre si prepara per quella che può essere considerata la tappa più importante della sua vita: la grande personale dedicatale dal MoMA di New York nel 2010. Retrospettiva che non solo segna un grande momento della sua carriera, ma le offre l’occasione per mettere a tacere la domanda che continua a sentire da quattro decenni: “Ma perché questa è arte?”.