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Storia di un matrimonio – Recensione del film Netflix

Dal 6 dicembre è disponibile su Netflix Storia di un matrimonio del regista Noah Baumbach con Scarlett Johansson e Adam Driver.

La storia del cinema contemporaneo è costellata di pellicole che raccontano l’amore, il matrimonio e il divorzio, ma in questo film Baumbach ha scelto di dare un taglio tutto personale alla storia che viene raccontata in 136 minuti di lacrime, ironia, costernazione e quotidianità.

Il cinema ci ha regalato molte pellicole che indagano sullo sgretolarsi di quell’istituzione che è il matrimonio. Da Divorzio all’italiana fino a Kramer contro Kramer, diversi registi si sono impegnati a rappresentare quanto c’è di più comune nella vita degli esseri umani: la fine di un amore. In particolare, l’occhio scrutatore dei registi si è posato spesso su quelle che sono le implicazioni legali, sociali e familiari di un divorzio.

SEPARARSI PER CAPIRSI

Questo è ciò che fa anche Noah Baumbach in Storia di un matrimonio. A dirla tutta, l’interesse del regista per la tematica era già emerso in una sua precedente pellicola. Ne Il Calamaro e la Balena il divorzio veniva raccontato attraverso gli occhi di un bambino. In Storia di un matrimonio, invece, Baumbach narra il divorzio dal punto di vista della coppia e, soprattutto, dal punto di vista di ciascun membro della coppia.

Ecco cosa rende questa pellicola tanto originale nell’ambito della cinematografia su affetti, famiglia e relazioni. Per una volta, la fine dell’amore, il crollo del matrimonio divengono pretesto per soffermarsi sull’individualità di chi compone il matrimonio stesso e la coppia. Percorrendo le tappe di un “noi”, dall’intimità fino al punto di rottura, Baumbach riflette su come, a volte, sia necessario aspettare la fine per capire, su come solo la rottura permetta di comprendere meglio se stessi e la propria relazione.

LA PERFEZIONE CELA L’ODIO

Protagonisti della storia sono Charlie e Nicole Barber. Lui regista teatrale perfezionista di New York, lei attrice di cinema di Los Angeles. I due s’incontrano per caso e si ritrovano l’uno nell’altro. S’innamorano. Il matrimonio, poi un figlio. Le loro vite sono sincronizzate e sembrano perfette, tra casa e palcoscenico. Ma la perfezione, si sa, nasconde spesso un’insidia, che attende il momento giusto per destarsi. Così, all’improvviso, Nicole si accorge che quello che sta vivendo è un sogno a occhi aperti… ma non il suo. A lungo ha creduto che il suo sogno fosse quello di Charlie. Solo dopo tempo e un brusco risveglio sulla realtà si rende conto di non essere la protagonista di quel sogno, ma soltanto una comparsa. Torna a Los Angeles con il bambino. “Momentaneamente”, una parola sussurrata, ma gli occhi non mentono: entrambi sanno, pur non ammettendolo, che nulla tornerà più come prima.

Charlie e Nicole si sono amati, forse si amano ancora, nonostante il risentimento, i sogni persi, il conoscersi così a fondo e l’abitudine. Nonostante in quell’amore si faccia strada, irruento come un fiume che consuma la roccia, un odio inaspettato, ma così realistico da fare quasi male. Perché, come l’arte insegna da sempre, amore e odio sono due facce della stessa medaglia, due poli di un magnete: l’uno non esiste senza l’altro. La separazione di Nicole e Charlie inizia pacificamente, è adulta benchè pregna di sofferenza emotiva e interiore. Ogni spettatore, perfino chi non ha attraversato un’esperienza simile, lo percepisce. E percepisce tutto il dolore e la quotidianità sfilacciata che si celano nei silenzi, nelle lacrime trattenute, nelle espressioni attonite, fino all’esplosione finale.

IL DOLORE PASSA DAGLI OCCHI

La sensibilità di Noah Baumbach, forse maturata da una recente esperienza personale, traspare potente in ogni fotogramma di questa pellicola, che si snoda lenta ma densa tra i primi piani dei protagonisti su cui spesso la camera indugia per lunghi istanti. Istanti preziosi che catturano l’occhio di chi guarda che, rapito, non può distogliere mente e animo dallo schermo.

Sublimata da un montaggio incisivo, la regia di Baumbach è fluida, perfetta per la narrazione di questa storia. Predilige i primi piani, lasciando che siano gli occhi a raccontare, ancora più dei dialoghi. Dialoghi che oscillano tra quotidiana comicità e violenza verbale, sfiorando silenzi che si caricano di rumore. Una comunicazione visiva quella messa in atto da Baumbach che, attraverso gli occhi, si propone di raccontare il mondo interiore di due persone, che percepiscono la morte dell’io nel noi e lo riscoprono al di fuori del matrimonio. Charlie e Nicole, provocati dalle insinuazioni dei rispettivi avvocati, si aggrappano a colpe e amarezze rimproverate all’altro. Le riportano a galla con verosimile violenza e si travestono delle versioni più grottesche di se stessi. Nicole vuole brillare ed essere al centro dell’attenzione, mentre Charlie, quasi rassegnato, rischia di diventare l’uomo invisibile.

Ciò che più colpisce in questa pellicola è il tessuto di realtà che inzuppa ogni scena. Non c’è enfasi artificiale, non ci sono emozioni così accentuate da risultare finte. La sensibilità che percorre tutta la sceneggiatura (dello stesso Baumbach) è così fine che si estende come un ramo gentile dal copione fino alle performance degli attori. Pochi sono i personaggi in scena, perchè tutta l’attenzione si concentri sui due eccezionali protagonisti.

ADAM DRIVER E SCARLETT JOHANSSON DA OSCAR

Scarlett Johansson, finora imbrigliata nel ruolo della femme fatale e della supereroina bellissima, riesce finalmente a dimostrare un talento che faticava a emergere. La sua presa di coscienza è cruda e vera e toccante. In un tempo in cui ancora alla donna si chiede di essere madre per sentirsi realizzata, Nicole è una donna che dà voce a tutte le donne. Perchè l’amore è puro, forte, totalizzante ma non deve divorare l’io e il suo sogno. E una simile dimenticanza non può che sfociare in un egoismo doloroso ma necessario.

Che Adam Driver fosse un attore di talento era noto ai più (è suo il Kylo Ren della nuova trilogia di Guerre Stellari) ma anche ai cineasti più raffinati (Blackkklansman, L’uomo che uccise Don Chisciotte, Silence). In Storia di un matrimonio ne dà ulteriore prova. Fa sorridere, provoca immediata empatia. Appare temibile, in un momento di rabbia guizzante. Quest’interpretazione è una straordinaria dimostrazione delle doti di questo giovane attore, capace di esprimere un ventaglio incredibilmente ampio di emozioni e sensazioni, senza mai apparire forzato. Un candidato perfetto per la statuetta più ambita dagli attori, ma certamente non è necessario un premio che dimostri quanto valga.

Non meno brillanti i due attori di supporto: Laura Dern e Ray Liotta. Interpreti di due legali, danno una rappresentazione perfetta del concetto di “avvocato del diavolo”. Cinici, spregiudicati: non esitano a ricorrere a subdole manipolazioni per ottenere la vittoria nella battaglia legale. La Dern e Liotta sono limpido esempio di quegli avvocati ipercompetitivi, che istigano i loro assistiti al contrasto acceso e alla denigrazione. Quella che doveva essere una separazione pacifica e consensuale diviene terreno di uno scontro ideologico tra due io che per la prima volta si trovano sganciati da quel noi in cui si erano amalgamati. L’ingerenza dei due avvocati alimenta la scintilla della rivalsa e del risentimento. Incomprensioni e non detti trasformano il “cosa amo di questa persona” in uno sbottato e sofferente “vorrei che morisse”.

L’AUTOPSIA DI UN AMORE

Storia di un matrimonio è una rappresentazione quasi teatrale di uno spaccato di vita. Non a caso, il teatro, la recitazione divengono nella pellicola una valvola di sfogo dei sentimenti contrastanti che seguono al cedimento del rapporto amoroso. Il regista, come su un palcoscenico, mette in scena un gioco delle parti. Tutto è buio e gli spettatori possono rivolgere la loro attenzione ai due fasci di luce bianca che illuminano Charlie e Nicole. Sono loro i protagonisti e, pur nella finzione, appaiono così umani, prendono voce e ritrovano una personalità smarrita: di fronte a una telecamera, prendendo in mano un microfono. Sì, la performance di Adam Driver nella canzone Being alive (dal musical Company di Stephen Sondheim) esprime tutto il bisogno d’amore che pure resta dopo una separazione dolorosa, perfino tra due persone che si sono odiate ma che, forse, non hanno mai smesso di amarsi e mai lo faranno.

Storia di un matrimonio non è pertanto solo un film sul divorzio. È un film sull’amore, sulle sue molteplici sfumature, sulla ricerca di sè e il bisogno di essere amati, anche e soprattutto nel dolore e nella solitudine. Con acuta empatia, pezzo dopo pezzo, il film costringe i protagonisti ad affrontarsi e il pubblico a scontrarsi con una tempesta emozionale.

Storia di un matrimonio s’insinua sotto pelle, ferisce profondamente, prende possesso del nostro posto, rovina il sonno. Ma rende consapevole di cosa vuol dire, davvero, essere vivi.

Francesca Belsito

[#NerdReview] Stranger Things 3, gli anni ’80 non sono mai stati così belli

Stranger Things è ormai una di quelle serie che trascendono le immagini su schermo.

L’arrivo degli 8 nuovi episodi di Stranger Things ha infatti portato uno tsunami temporale che ci ha lasciato nella risacca con abiti, musica e luci degli anni ‘80. Oltrepassando, però, la barriera della moda ed entrando nel nostro bunker anti-bombardamento mediatico, com’è la nuova stagione della serie creata dai dei Duffer Brothers?

LA STORIA

Fin da subito saltiamo sul trampolino del tempo e ci tuffiamo negli anni’80: costumi, acconciature e atteggiamenti tipici ci accolgono a braccia aperte, mostrandoci il contesto ambientale della serie. I nostri amati protagonisti sono proprio come li avevamo lasciati ma più alti: Mike e Undi insieme, Lucas e Maxine, Dustin di ritorno da un campo estivo e così via. Tutto sembra tranquillo fino a quando i magneti di casa Byers crollano sul pavimento e Will inizia ad avere delle cattive sensazioni.

L’orrore è tornato.

una delle nuove protagoniste: Robin

La storia raccontata in questa stagione si delinea strutturalmente come le due precedenti: più storie parallele svelano il problema sotto aspetti e sfaccettature diverse. Da qui uno dei primi miglioramenti rispetto alle precedenti stagioni: le storie omaggiano i generi diversi famosi negli anni ‘80, passando quindi dall’horror del gruppo dei ragazzi al thriller di Hopper e Joyce fino alla fantascienza di Dustin e alla detective story di Nancy e Jonathan.

UN RACCONTO CORALE

Tutte e quattro le storie sono presentate perfettamente, senza una nota discordante o superficialità. Gli elementi inseriti vengono spiegati, i nodi vengono al pettine e niente è lasciato al caso o in sospeso. Una delle pecche di Stranger Things però è che sembra che non tutti i personaggi riescano a proseguire in un cammino di maturazione. Diciotto personaggi sono tanti da gestire e se anche nella storia sono tutti presenti e funzionali, singolarmente perdono di spessore o hanno parti minori rispetto alle stagioni precedenti. Mi riferisco soprattutto a Lucas Sinclair che resta identico dall’inizio alla fine senza un progresso psicologico e viene messo in ombra perfino dalla sorella che, invece, tiene banco in molte scene attraverso il suo carattere, sbocciando come personaggio dal ruolo secondario della seconda stagione a quello da coprotagonista in questa.

Altro personaggio che mi ha sorpreso è Will Byers che da bambino che ha subito il peggio nella prima stagione, in questa terza è capace di momenti drammatici e di rivelazione fino alla scoperta del segreto che tutti avevamo pensato fin da metà della seconda stagione.

Come Lucas, anche Mike e Dustin hanno una crescita minima restando per lo più identici dall’inizio alla fine degli eventi e, nel caso di Mike, anche delle stagioni. Lo spazio riservato alla nostra supereroina Undi è questa volta più ampio: la ragazzina affronta le grandi mancanze della sua vita fino ad acquisire una sua personalità, maggiormente decisa e responsabile.

DEMOGORGONE, MIND FLAYER… E ORA?

Le nemesi di questa stagione sono impegnative e danno parecchio filo da torcere ai protagonisti e ai comprimari. Resta la struttura a doppia nemesi con un “esterno” e un “interno” come nelle due stagioni precedenti, ma questa volta si pone in maniera adulta senza cadere nel trash. Questo può essere un fattore positivo o negativo a seconda dello spettatore. La perdita del tipico trash da film di serie B fa decadere quell’aspetto paradossale e comico delle vicende, ma credo che i Duffer questa volta abbiano voluto puntare su di un lavoro più maturo e memorabile e ci sono riusciti a pieni voti.

ATMOSFERE ANNI ’80 TRA MUSICA E LUCI

i molteplici campi lunghi sono meraviglie della fotografia

Quando Netflix decide di sostenere un progetto attivamente con cospicui investimenti, le sue opere riescono a crescere esponenzialmente e Stranger Things ne è un esempio. Il comparto tecnico è migliorato in tutti i campi: dalla computer grafica al montaggio, tutti i settori hanno fatto tesoro delle esperienze passate arrivando a un livello eccellente.

Quello che ci salta subito all’occhio è la fotografia. Nelle altre stagioni era curata, ma a volte le scene avevano dei problemi con le luci dando una sensazione di “finto”. Grazie a un maggiore realismo, alle luci al neon e alle ambientazioni, la fotografia ha subito in questa stagione un’impennata qualitativa, resa poi ancora più mirabile dalle scelte di montaggio che deliziano con transizioni e suspence.

La colonna sonora di Michael Stein e Kyle Dixon si riconferma iconica per la sua esecuzione e pertinente alle scene. Allo stesso modo le scelte delle canzoni da citare da parte dei Duffer Brothers che ci allietano con pezzi come Material Girl di Madonna e Wake Me Up Before You Go Go dei Wham!.

Per quanto riguarda gli easter eggs, ce ne sono e sono ancora più complessi delle altre stagioni. Oltre alle molteplici scene di film nel cinema, abbiamo citazioni a Terminator, La storia infinita, Gremlins, Shining, a volte con un poster altre con riproduzione di scene ed omaggi più diretti.

IL PUNTO

Questa stagione di Stranger Things mi ha tenuto allo schermo dall’inizio alla fine. È un binge-watching caleidoscopico che racconta ogni fase in maniera eccezionale e fruibile. Il miglioramento dalla seconda stagione si percepisce subito e anche se l’interpretazione degli attori della prima è forse migliore (come anche il tempo a loro dedicato), questa terza è riuscita ugualmente nell’ardua missione di innovare e sorprendere.

Insomma, al momento è forse una delle serie più riuscite di questo 2019!

Voto: 9

Daniele Ferullo

https://youtu.be/XcnHOQ-cHa0

[#NerdReview] Le terrificanti avventure di Sabrina parte 2, la recensione

E’ da poco uscita su Netflix la seconda parte delle Terrificanti avventure di Sabrina, serie ispirata al celebre telefilm anni ’90 e che trova riscontro anche in un’avventura a fumetti dell’Archie Comics.

Abbiamo vissuto tutte d’un fiato le 9 puntate di questa seconda stagione, tanto attesa dai fan del genere horror/adolescenziale, giungendo a idee abbastanza contrastanti sul godimento di questa serie. Ma partiamo da principio e delineiamo la trama degli episodi. Ovviamente, attenti agli spoiler!

La Trama

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Ci siamo lasciati nella prima stagione con tre rivoluzioni importanti per Sabrina: la firma del libro del Signore Oscuro, la separazione da Harvey Kinkle e la decisione di addentrarsi anima e corpo nell’accademia delle arti oscure.
Ora Sabrina, con un look molo più dark, decide di studiare seriamente la magia, immergendosi totalmente nella vita dell’accademia, prendendo una pausa dalla Baxter High. In questo suo percorso viene ostacolata da lord Blackwood, figura maschilista e conservatrice. Con il prosieguo degli episodi si fa chiarezza sul reale rapporto tra la protagonista e il Signore Oscuro, legame che porterà a far luce sul destino dei poveri genitori di Sabrina e sullo scopo che coinvolge la giovane in una profezia apocalittica.

Il Commento

Le atmosfere di questa seconda parte si sono fatte molto più cupe rispetto alla precedente, le ambientazioni hanno dato piena soddisfazione ai fan del dark, creando contrasti forti tra il mondo chiaro degli umani e quello cupo delle streghe. Se nella prima parte si sono appena delineati i tratti dell’accademia delle arti oscure, in questa seconda stagione ne abbiamo una visione completa. I personaggi finalmente trovano uno spazio di approfondimento, acquisendo pregi e difetti. La protagonista in sé mostra i tratti tipici di un’adolescente in cerca di risposte, pronta in prima persona a sacrificarsi per chi le sta accanto. In alcuni casi è esasperata la consapevolezza di essere una strega, con poteri troppo grandi per una sedicenne, ma ciò servirà a demistificarla, rendendo ancora più forti i suoi connotati umani. Per quanto riguarda Nicholas Scratch, nuovo fidanzato di Sabrina e stregone, servirà a distaccarla e a spingerla a compiere decisioni sul sentiero magico, creando non pochi dubbi nella testa della giovane donna.

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Altra figura di spicco sarà quella di Miss Lilith/Wardwell. Antagonista perfetta, Miss Satana è un personaggio con una forza incredibile, che spingerà Sabrina a compiere inconsapevolmente il cammino voluto dal Signore Oscuro,  trovandosi al suo fianco in risvolti anche inaspettati. In questa seconda stagione ne apprezziamo la sensibilità, il cuore ferito e la forza di donna indipendente, la stessa che si era inchinata al cospetto di Lucifero e che ora potrebbe essere pronta a dominare l’Inferno. Non a caso, la donna sarà in grado di creare un “uomo” da uno spaventapasseri, un Adamo che potrà camminare ed eseguire il suo volere grazie alla presenza di una costola di Lilith al suo interno, un richiamo biblico che capovolge i ruoli.

I temi trattati sono molteplici, quello più evidente è la sfumatura altamente femminista della serie, che trova terreno fertile in un’opera dedicata al mondo della stregoneria: di contro, Lord Blackwood è la sfaccettatura del maschilismo e della disparità di genere per eccellenza. Sabrina sarà quella lancetta che farà crollare il predominio del mago sull’accademia, contrastandone il potere e spingendolo verso equità con la forza dell’intelletto. Altro chiaro segnale del maschilismo è esercitato nei confronti di zia Zelda, sposa/bambola di Lord Blackwood, sarà la famiglia a liberarla dalla soggezione dell’uomo.

Altro tema, vicino alla disparità di genere, sarà quello che coinvolgerà Susie Putnam, che non riesce a riconoscersi nel mondo femminile e deciderà di diventare Theo. Una storia che ha un inizio travagliato, fatto da un inizio discriminatorio all’interno della scuola, che trova confortante e giusto epilogo nell’accettazione e le scuse da parte di chi la perseguitava. 

Il ritmo delle puntate è travolgente, i colpi di scena si susseguono con velocità, lasciandoci alcune volte frastornati, ma comunque attaccati allo schermo. Le nuove capacità di Sabrina portano un dislivello ai limiti del blasfemo, in alcuni casi, nella narrazione della storia. Ma stiamo parlando comunque di una serie rivolta ad adolescenti, quindi stemperata in alcuni casi con trovate ironiche anche abbastanza ridicole. Sto parlando delle sfide poste dal Signore Oscuro alla giovane strega, che spesso e volentieri non verranno accomodate per incomprensibilità e leggerezza.

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I risvolti creepy non mancano, soprattutto quelli che la coinvolgeranno sia Lilith che la stessa protagonista, ma ne sentivamo anche il bisogno. Il sangue scorrerà a fiumi, la morte è un elemento che comunque non può scostarsi da una serie che punta al mondo horror, ma non tutto è irreversibile.

Il punto di debolezza

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Il punto di debolezza per eccellenza della serie è, a mio avviso, il Signore Oscuro. Una figura che si mostra in fin dei conti debole nella sua manifestazione finale. Avevamo aspettative alte: Lucifero è stato venerato per secoli, nella sua chiesa, eppure è il più umano di tutti, tanto da farsi prendere sotto scacco dagli altri personaggi della serie.

Comparto tecnico

Per quanto riguarda gli effetti speciali adoperati nella serie, abbiamo un’impennata di qualità eclatante: l’accrescimento di poteri ha richiesto una forza di effetti incredibile, che è stata degna delle aspettative. Le musiche ci mantengono in quel mood cupo, con uso di bassi e archi che creano la giusta tensione nello spettatore.

In conclusione

Sabrina è un’opera godibile, che intrattiene lo spettatore adolescente tanto quanto il nostalgico degli anni ’90. Le donne sono la forza che spingono la trama a una risoluzione, toccherà alle Spellman ricostruire la chiesa della notte e a Lilith l’inferno stesso. Alcuni buchi di trama ci lasciano spaesati, ma nulla di rilevante a tal punto da non farci apprezzare la serie. La terza stagione vedrà l’inizio delle riprese questo 29 aprile, intanto è certa la conferma anche di una quarta stagione.

Gli episodi della prima e seconda parte della serie sono disponibili su Netflix.

 

Miriam Caruso 

[#Netflix] Lucifer, in arrivo una quarta stagione più dark e sexy

Appena uscita la terza stagione di Lucifer su Netflix, l’attesa dei fan della serie per la quarta si fa sempre più incontrollabile.

DI cosa stiamo parlando? Di una SerieTv che raccoglie sempre più spettatori affamati di puntate e casi irrisolti.

LA TRAMA

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Il Diavolo, Lucifer Morningstar (Tom Ellis), scappa dall’inferno per arrivare a Los Angeles (e dove altrimenti?!) assieme a Mazikeen (Lesley-Ann Brandt), un demone a lui fedele. Consideratosi ormai in “pensione” e in netta contrapposizione con il volere del “Padre”, fa recidere le proprie ali da Maze e inizia la sua nuova vita come gestore di un Night, il LUX. Una serie di eventi porteranno all’omicidio di una famosa cantante a cui Lucifer ha concesso un favore, facendo sì che il protagonista faccia la conoscenza di Chloe Decker (Lauren German), una detective stranamente immune al fascino del diavolo. Lucifer è incuriosito dalla donna, tanto da mettere in dubbio le sue emozioni, che andranno a scontrarsi con quelle umane.

La serie, che unisce il genere poliziesco al fantasy e che ha conquistato un pubblico vastissimo, porta dietro di sé tantissime domande sul proseguo della storia. Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo assieme i gradini che hanno portato Mr. Lucifer Morningstar sulla piattaforma streaming del momento, raccogliendo le idee su cosa sappiamo degli episodi in arrivo.

Circa un anno fa, lo scorso 10 maggio, la fortunata serie di Tom Ellis ha ricevuto la cancellazione da parte della Fox, poco prima che finisse la stagione in corso, motivando il gesto con i dati del pubblico che stavano andando col tempo a restringersi. Non prendendo più un audience ampio, i vertici hanno deciso di dare un freno alla serie senza preavviso, lasciando i fan spaesati e con un finale di stagione sospeso.

#SAVELUCIFER

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E’ così partita un’enorme campagna social dall’hashtag #SaveLucifer, che ha coinvolto gli utenti di tutto il mondo, convincendo la piattaforma streaming Netflix ad accettare la sfida e salvare la serie dall’oblio. Le riprese sono ricominciate per la quarta stagione, nell’esultanza di tutto il cast e degli spettatori al seguito, in attesa di carpire più informazioni possibili da tweet e post su instagram.

Ma cosa sappiamo di questa 4 stagione in arrivo?

Ancora ben poco, tutte le informazioni sono criptiche e rilasciate col contagocce, ma qualche certezza l’abbiamo raccolta:

Le puntate saranno 10 in tutto, contrariamente alle 22 a cui siamo abituati.

Le esigenze della piattaforma streaming hanno cambiato le carte in tavola, ma i produttori ne sono contenti: la storia ne guadagnerà in intensità, non avendo l’esigenza di episodi intermedi di approfondimento che spesso non portano nulla alla trama, anche se divertenti. Si è giocato molto sui finali sospesi, come quello che inizierà dalla puntata 2 e che non avrà risoluzione fino all’ottava.

Lo spirito dello show non cambierà, ma avrà risvolti più “dark e sexy”.

Come rivelato dagli stessi produttori in un’intervista al magazine online SpoilerTv, la natura di Lucifer resterà quella che adorano i fan, solo si spingerà un po’ più al limite rispetto a quanto permesso dalla tv.

“So the dark parts got just a tad darker, and the sexy bits… just a tad sexier.”

Così le parti dark della serie saranno un po’ più oscure e quelle sexy, solo un po’ più sexy!

Ci saranno due nuovi personaggi.

Graham_McTavish_Inbar_Lavi_Lucifer

Inbar Lavi e Graham McTavish sono entrati ufficialmente nel cast nei panni rispettivamente di Eva, la peccatrice originale, e padre Kinley. Novità che i produttori assicurano verranno amate dai fan, date le capacità attoriali di alto livello. Metteranno in difficoltà, in alcuni casi, Lucifer e la sua crew, ma saranno un valore aggiunto alla serie.

Infine, quando si avranno novità sulla serie?

Ancora non ci è dato saperlo, possiamo solo aspettare ancora un po’ prima di avere news certe su uscita, trama e trailer. Il rilascio della terza stagione per il rewatch ci fa sperare in tempi brevi. Ma tranquilli, vedremo queste nuove 10 puntate entro il 2019!

 

Miriam Caruso

[#NerdReview] Love, Death & Robots – Recensione

Love, Death & Robots è la nuova serie antologica animata sbarcata su Netflix questo mese.

Si tratta di episodi autoconclusivi di breve durata dal sapore fantascientifico e distopico, destinati a un pubblico adulto. Creatore dell’antologia Love, Death & Robots è Tim Miller, giè regista di Deadpool. Insieme a lui alla produzione David Fincher, la mente dietro Fight Club, House of Cards e Mindhunter.

Diciotto sono gli episodi di cui si compone la serie, arrivata su Netflix il 15 marzo. Ciascuno di questi, narrando una storia a sé stante, è di durata variabile, compresa tra i 6 e i 17 minuti. Per la sua stessa natura, Love, Death & Robots si presta a una sana sessione di bingewatching, che oserei definire compulsivo. Sì, perchè questo prodotto è così accattivante che si lascia divorare in breve tempo, saltando da un episodio all’altro senza soluzione di continuità.

E proprio riguardo la successione degli episodi, Netflix è stata sommersa dalle polemiche. Gli utenti, infatti, si sono trovati di fronte a quattro ordini differenti, tanto che la piattaforma è stata accusata di favorire una pratica discriminatoria, servendosi di informazioni personali degli utenti… che di fatto Netflix non può conoscere. Invece, la successione degli episodi è personalizzata, in base alla compatibilità con le preferenze degli utenti che la piattaforma streaming acquisisce con i dati delle visioni. Un test, insomma, per rendere più soddisfacente e personale l’esperienza.

L’ANIMAZIONE

Love, Death & Robots, come il titolo suggerisce, è una raccolta di corti animati di genere fantascientifico che hanno in comune tre tematiche: amore, morte, robots, sebbene questo trittico non sia sempre presente. Del resto, dovendo scegliere una parola per descrivere la serie, quella sarebbe: varietà. Una varietà che si dilata dal livello narrativo, sconfinando in quello grafico.

Infatti, il lavoro grafico della serie è, senza esagerare, eccellente e la rende un capolavoro dal punto di vista visivo. Ogni episodio è costruito con una tecnica differente: si passa dall’animazione giapponese vecchio stile a una di tipo occidentale contemporaneo, dallo stile animato sporco ammirato in Spider-Man: Into the Spider-Verse alla grafica videoludica, passando per un sapiente mix di attori in carne e ossa e mirabile cgi. Spesso, guardando gli episodi, il dubbio aleggia nella mente: ma saranno attori reali? E se un dubbio simile si palesa, la cgi non può che essere ottima. In alcuni casi, il realismo dell’animazione è notevole e l’alternanza con la tecnica del cartoon o la giustappozione tra i due mezzi non può che esprimersi in una piccola gioia per gli occhi.

FANTASCIENZA E CONTAMINAZIONI

I diciotto corti che compongono Love, Death & Robots esplorano l’universo distopico, proponendo in alcuni casi esiti in apparenza surreali che sembrano perfino sfociare nella risata spontanea. La fantascienza è qui mescolata con l’history drama, con il black humour, il soft porn e il fantasy, senza dimenticare la dimensione horror e splatter. In realtà, un sottile filo di umorismo, ora latente, ora esplicito, impregna gli episodi. Sta allo spettatore decidere se accogliere quell’amara ma sottile riflessione. Perchè, oltre la bellezza delle animazioni, oltre lo sviluppo delle storie, un velo di leggera angoscia cade sullo spettatore attento. Si gode della bellezza visiva dell’episodio e subito se ne ingurgita un altro, perchè la brevità spinge a volerne di più. E, così, quasi non si avverte la sensazione di disagio che ogni corto lascia, perchè “tanto non succederà, il futuro è ancora lontano”.

Quindi, io vi chiedo: “E se il futuro fosse oggi?”.

Le buone potenzialità che possano fare di Love, Death & Robots un piccolo capolavoro del genere fantascientifico ci sono tutte, ma è un dovere ammettere che il lavoro di animazione raggiunge risultati migliori rispetto allo storytelling. I corti sono quasi tutti adattamenti da racconti brevi di narratori contemporanei (Joe Lansdale, Alastair Reynolds e John Scalzi), ma quello che propongono assume il sapore del già visto. Bastino tre esempi di antecedenti. Innanzitutto, Black Mirror, di cui l’antologia sembra essere una sorta di controparte animata e breve. Poi, Ai confini della realtà che assume qui un gusto futuristico e cyberpunk. Infine Animatrix, lungometraggio del lontano 2003, che raccoglie nove corti animati ispirati a Matrix, in cui ciascun episodio è realizzato con una diversa tecnica d’animazione, dalla grafica computerizzata fino al cartoon tradizionale.

LA SCELTA DEL CORTO

Ciò che distingue Love, Death & Robots da altri prodotti del genere è la scelta del formato corto. La realizzazione dei cortometraggi non è semplice: bisogna concentrare la storia in un minutaggio minimo. E per storia s’intende una vera storia, che abbia un inizio, una fine, uno sviluppo e che soprattutto funzioni. Inoltre, è necessario costruire dei personaggi che in pochi minuti sappiano afferrare le corde dell’empatia nel pubblico, che si immedesimi oppure li condanni.

E, in tal senso, proprio la scelta del corto rappresenta per l’antologia Netflix un pregio ma anche un limite. Il pregio è l’aver avvicinato il pubblico a un tipo di pellicola che, perlopiù, è fruita da un pubblico di appassionati del genere. Pellicola che si colloca nel genere dell’animazione, sdoganando lo stereotipo che la vuole destinata ai soli bambini (un percorso che Netflix affronta già volentieri). Del resto, pur convenzionali, le storie che i corti raccontano sono godibili, fanno del loro meglio per attivare il meccanismo della riflessione umoristica. D’altra parte, optare per il corto ha fatto di Love, Death & Robots una preda ideale del bingewatching, alimentando quella fame chimica che stimola l’abbuffata, trangugiando gli episodi in un solo, lungo boccone.

I CORTI

I diciotti corti animati sono uniti da un filo conduttore: amore, morte e robots, anche se, come già detto, il trittico non è sempre presente. Molti di questi episodi sono adattamenti da racconti brevi di narratori contemporanei, per questa ragione non è l’originalità ciò che emerge dalla visione. Per quanto si tratti di racconti sconosciuti ai più, le soluzioni narrative messe in atto rispondono al criterio del già visto, a vantaggio della varietà di racconto e del lavoro grafico. Non mancano i plot twist inaspettati e, in alcuni casi, per quanto abbiano parvenza di definitezza, gli stessi finali lasciano uno spiraglio all’interpretazione.

Scene di nudo e sesso, combattimenti robotici, sequenze realisticamente crude,  sangue, violenza, scenari apocalittici, metafore, umorismo nero, sprazzi di riflessione filosofica: ecco cosa vediamo. In un mondo sfasciato, in città alla Blade Runner, nello spazio infinito, su pianeti lontani, razze e specie diverse, etnie differenti, robot senzienti convivono, s’incontrano e si scontrano e, sullo sfondo, aleggiano le domande che l’uomo da sempre si è posto su se stesso, sulla vita, sul suo posto nel mondo.

AMORE, MORTE, ROBOT… E POI?

Molteplici i temi toccati che, in un modo o nell’altro si riallacciano a quanto il titolo promette. Tre robot lancia, ammantata di comicità, una critica all’egoismo del genere umano, proiettato alla distruzione. Il dominio dello Yogurt avverte e ammonisce sulla tendenza umana all’annullamento e alla pigrizia. Buona caccia, gioiello steampunk, riflette su quanto la tecnologia soffochi l’essenza autentica dell’umanità. La notte dei pesci, corto dalla fotografia e dai colori sublimi, riflette con taglio onirico sullo smarrimento dell’individuo e sull’idea di morte.  Dolci tredici anni abbozza e lascia in stato embrionale il tema dell’umanità delle macchine. Abbonda la dimensione guerresca e militicare in questa fantascienza animata, a voler richiamare l’immaginario di Alien.

Alternative storiche, il corto più divertente, risponde al “cosa sarebbe successo se” proponendo morti bizzarre e surreali di Hitler. Oltre Aquila, la storia di una navicella finita fuori rotta, diviene una riflessione sulla speranza e sulle apparenze salvate a fin di bene. Su tutti, spicca Zima Blue, il corto più poetico e filosoficamente alto. Riflette sulla vita e sull’arte, sull’insoddisfazione di sè e sulla ricerca di una identità propria.

Nulla di innovativo, nei contenuti, ma l’impatto visivo e i messaggi che alcuni corti trasudano valgono la visione e fanno di Love, Death & Robots un prodotto di qualità.

P.S. A giudicare dalla quantità di mici presenti negli episodi, gli autori della serie devono amarli moltissimo… chissà, forse un giorno i gatti conquisteranno il mondo!

Francesca Belsito

[#NerdReview] Carmen Sandiego, il reboot di un mito

Molti della mia generazione, quella degli anni ‘80 per capirci, hanno avuto una fitta al cuore quando hanno sentito del reboot della serie di Carmen Sandiego.

Questo perché la moda della nostalgia ha già mietuto moltissime vittime sullo schermo e avevamo paura che questo poteva riproporsi con la femme rouge.

Ma… c’è stato un tradimento?

Prima di addentrarci nel mondo dei ladri, c’è da fare una premessa evidente: nella serie originale il punto di vista non era di Carmen. Il giocatore (un uomo nel mondo reale) doveva cercare questa fantomatica Carmen attraverso due degli agenti della ACME, Zack e Ivy, che le davano la caccia. Qui uno dei punti di grande differenza: questo reboot parla di lei, delle sue emozioni e di come, da bambina, è diventata la ladra più famosa del mondo. Tutto è più allineato, relativamente ha più senso e di sicuro non ha l’orribile stacco da mondo reale a mondo animato che tanto andava di moda negli anni ‘90.

COSA CAMBIA NEL REBOOT

Ritornano i personaggi della vecchia serie come “Player”, doppiato in questa versione da Finn Wolfhard (il giovane Mike in Stranger Things, in Italia doppiato da Luca De Ambrosis) insieme a Zack e Ivy. Questi, però, subiscono un mutamento dettato dalla rinnovata storia, più fresca e coinvolgente, ma senza perdere i topic educativi delle vecchie stagioni.

La serie “Dov’è finita Carmen Sandiego?” del 1994 nasce infatti da una serie di giochi educativi e Netflix nel suo reboot vuole rispettare questa connotazione ambientando ogni episodio in un luogo diverso così da spiegarne storia e avvenimenti importanti. Certo è che il focus è di sicuro sull’intrattenimento rispetto all’educazione, quindi troveremo personaggi con grande spessore emotivo e psicologico e soprattutto una Carmen più “umana” e meno fantomatica.

Gina Rodriguez ha interpretato bene la voce della protagonista (in Italia è doppiata da Lavinia Paladino, Yumeko in “Kakegurui“), ma qui ci sarebbe da fare un appunto sul doppiaggio: seppure i dialoghi siano fluidi e ben caratterizzati, molti dei giochi di parole e citazioni fatte nella lingua originale non passano attraverso la versione italiana. Vi consiglio quindi una successiva visione in lingua originale se masticate bene l’inglese.

COMPARTO GRAFICO

La rivoluzione, oltre che nella storia e nei personaggi, è avvenuta nel comparto grafico. Se la serie animata originale aveva lo stile tipico che ritroviamo nell’animazione americana del tempo, questa riproposizione Netflix utilizza tinte piatte e sfumature di colore dando al tutto un aspetto più leggero e minimale. Un occhio più attento noterà però nello studio fotografico dei fondali molto ben sviluppati e ricchi di sfumature di colore e dettagli.

COMMENTO

In definitiva, Carmen Sandiego è una serie che intrattiene e si lascia guardare piacevolmente nei suoi 9 episodi. Il finale aperto lascia l’aspettativa di una nuova stagione che non è stata, tuttavia, ancora confermata. Non la vedremo sicuramente quindi per la stagione primaverile ma possiamo sperare in quella estiva o autunnale.

Dal vostro Mr.Ink è tutto, commentate su facebook per dire la vostra riguardo la serie e seguite la nostra pagina per ulteriori novità!

 

Daniele “Ink” Ferullo

[#NerdAnime] Cavalieri dello Zodiaco, perchè Andromeda sarà donna nel remake

La serie animata de I Cavalieri dello Zodiaco sta per tornare.

La piattaforma di streaming Netflix ha pubblicato online il primo trailer del remake ufficiale di Saint Seiya realizzato dallo studio di animazione MEIRS.

La serie, intitolata Knights of the Zodiac – Saint Seiya, avrà una prima stagione di dodici episodi. Le vicende esploreranno la saga già nota fino alla comparsa dei Cavalieri d’Argento. Yoshiharu Ashino si occuperà della regia, mentre la sceneggiatura è stata affidata a Benjamin Townsend, Shannon Eric Denton, Thomas F. Zahler, Joelle Sellner, Travis Donnelly, Thomas Pugsley, Saundra Hall, Shaene Siders e Patrick Rieger. Il character design sarà di Terumi Nishi, mentre il design delle armature sarà di Takashi Okazaki.

LE POLEMICHE

Tuttavia, alla visione del trailer molti fan hanno storto il naso. Il motivo è semplice: il cambiamento drastico apportato al personaggio di Shun, il Bronze Saint di Andromeda. Infatti, la versione del personaggio proposta dal remake made in Netflix del lavoro del maestro Masami Kurumada non avrà solo una voce più femminile, ma sarà una donna, in tutto e per tutto.

A commentare la decisione è stata per prima la designer Terumi Nishi, che ha spiegato che la decisione di rendere Shun di Andromeda una donna sia stata presa prima che lei stessa accettasse l’incarico.  In ogni caso, l’artista si è detta certa che “la nuova Andromeda farà del suo meglio come Sacro Guerriero”.

LA RISPOSTA DELLO SCENEGGIATORE

A porre fine alla controversia legata al personaggio è stato Eugene Son, creatore della serie d’animazione Saint Seiya targata Netflix. Son, attraverso una lunga serie di tweet, ha risposte alle critiche dei fan, motivando la scelta di rendere femminile il personaggio.

«‘Perché cambiare Andromeda?’ Me ne assumo la responsabilità. Quando abbiamo cominciato a sviluppare questo remake della serie, volevamo cambiare il meno possibile. I concetti chiave di Saint Seiya, che ne fanno un prodotto così amato, sono fortissimi. La maggior parte di questi funziona anche a trent’anni di distanza [dalla nascita dell’opera]. L’unica cosa che mi preoccupava erano i Cavalieri di Bronzo: tutti uomini. La serie ha sempre avuto dei fantastici, forti e dinamici personaggi femminili, e questo si riflette nell’enorme numero di donne appassionate del manga e dell’anime di Seiya. Ma trent’anni fa, un gruppo di ragazzi in lotta per salvare il mondo senza neanche una ragazza nel team non erano un grosso problema. Era lo standard di allora. E forse trent’anni fa vedere delle donne prendersi a calci e pugni non era importante. Ma oggi? Non è la stessa cosa».

ANIME E DONNE

Dunque, cosa fare perchè la presenza di un gruppo di combattenti completamente al maschile non diventi una dichiarazione d’intenti?

«Ci abbiamo pensato parecchio. L’anime e il manga sono colmi di personaggi femminili. Marin e Shana sono entrambe incredibili. Ma sono dei personaggi già molto potenti – e nessuno vorrebbe vederle trasformate in Cavalieri di Bronzo. Prendiamo un personaggio esistente come Sienna (che prima era chiamata Saori), Shunrei o Miho, le diamo dei poteri e la trasformiamo nella nostra versione di Apri O’Neil? O creiamo o un nuovo personaggio femminile e lo facciamo entrare in squadra? Ma noi non volevamo creare un nuovo personaggio femminile che di certo avrebbe dato nell’occhio e sarebbe stato scontato. Poi abbiamo parlato di Andromeda. Eravamo tutti d’accordo sul fatto che fosse un personaggio fantastico. Così abbiamo considerato l’idea di reinterpretare “Andromeda Shun” come la nostra “Andromeda Shaun”. Più ne parlavamo, e più ne vedevamo il potenziale. Un gran personaggio con un grande look.

ANDROMEDA SARÀ DIVERSA?

«Le caratteristiche chiave di Andromeda non sono cambiate – ha continuato a spiegare Eugene Son -. Usa le sue catene per difendere sé stessa e i suoi amici – come le ha insegnato il suo protettivo fratello. I fan più intransigenti di Saint Seiya sanno cosa succede ad Andromeda durante la storia. Come sarebbe se Andromeda fosse una donna? Ho ritenuto che sarebbe stato interessante scoprirlo. Ma sapevo che sarebbe stato controverso. Non la vedo come un’alterazione del personaggio. L’Andromeda originale è ancora un gran personaggio. Ma questa è una nuova interpretazione. Una versione diversa [del personaggio]. Se pensate che sia una cosa strana e non vi piace, lo capisco. Anche all’interno di Toei c’erano un sacco di persone che mi hanno chiesto se ne ero sicuro. Un sacco di fan di Shun amano il personaggio. Ma io spero che sarete disposti a conoscerla quando [la serie] uscirà e a valutarla di conseguenza».

Pertanto, non resta che aspettare l’estate del 2019, quando Saint Seiya debutterà ufficialmente su Netflix.

 

 

[#NerdNews] Strage Netflix in casa Marvel, cancellata Luke Cage

NETFLIX CONTINUA LA STRAGE DI SERIE TV TARGATE MARVEL.

Ad appena 24 ore di distanza dal rilascio dell’attesissima terza stagione di DAREDEVIL, che pare stia riscuotendo un certo consenso da pubblico e critica, dal colosso americano di streaming Netflix arriva l’ennesima, pessima notizia per un altro dei membri della squadra dei DEFENDERS.

Stavolta vittima della strage é LUKE CAGE, il cui protagonista è interpretato da Mike Colter. Attraverso un comunicato ufficiale, Marvel e Netflix hanno annunciato la cancellazione della serie tv sull’ex detenuto con poteri sovrumani. E ricordiamo che la seconda stagione era stata rilasciata appena lo scorso 22 giugno.

“Sfortunatamente, Marvel’s Luke Cage non tornerà per una terza stagione. Tutti noi alla Marvel Television e Netflix siamo grati allo showrunner, agli scrittori, al cast e alla troupe che hanno dato vita all’eroe di Harlem nelle ultime due stagioni. E a tutti i fan che hanno supportato la serie.”

Luke Cage segue quindi lo stesso funesto destino toccato ad IRON FIST, altra serie Marvel sviluppata per Netflix, cancellata poco più di otto giorni fa. Riguardo le sorti di Danny Rand, l’esperto di arti marziali e detentore del mistico Pugno d’acciaio, interpretato da Finn Jones, Marvel e la piattaforma di streaming avevano annunciato la fine della produzione tramite una dichiarazione rilasciata a Deadline.com, aggiungendo che

La serie su Netflix è finita ma l’immortale Iron Fist continuerà a vivere!”.

Parole, queste, che lasciavano intuire un possibile team up con lo stesso Luke Cage.  Adesso che anche la serie dedicata a Luke Cage è stata cancellata, cosa ne sarà dei due supereroi di New York?  Vedremo i due ritornare in una possibile seconda stagione della miniserie The Defenders, insieme a Matt Murdock e Jessica Jones?

AL MOMENTO, NON ESISTONO CERTEZZE: NON RESTA CHE ASPETTARE E DEDICARSI ALLA VISIONE DEI NUOVI EPISODI DI DAREDEVIL.

 

 

 

[#Anime] Devilman Crybaby, la Recensione

L’attesissimo Devilman Crybaby è finalmente giunto su Netflix. La serie ONA (Original Net Anime) è un nuovo adattamento del capolavoro di Go Nagai “Devilman”, probabilmente uno dei fumetti shonen più importanti di tutti i tempi, fonte d’ispirazione per decine di opere, non solo fumettistiche.

L’anime conta 10 episodi ed è stato prodotto da studio Science SARU, con regia di quel genio che è Masaaki Yuasa, autore che si è sempre distinto per il suo stile grafico particolare e fuori dagli schemi, dirigendo anime straordinari come The Tatami Galaxy, Ping Pong: The Animation e Kaiba, oltre a splendidi lungometraggi come Mind Game e il recentissimo The Night Is Short, Walk On Girl. La serie vede anche Ichiro Okochi (Code Geass) alla sceneggiatura.

LA TRAMA

 Akira Fudo viene informato dal suo migliore amico, Ryo Asuka, che un’antica razza di demoni è tornata per riprendersi il mondo dagli umani. Credendo che l’unico modo per sconfiggere i demoni sia quello di incorporare i loro poteri, Ryo suggerisce ad Akira di unirsi a un demone. Akira si trasforma così in Devilman, possedendo i poteri di un demone, ma mantenendo l’animo di un umano. (Fonte Wikipedia)

IL COMMENTO

Chi sono i veri demoni?

Questa è la principale domanda a cui tenta di rispondere questo straordinario anime. Sin dai primi episodi ci rendiamo conto che quel pazzo di Yuasa è riuscito a mantenere lo spirito dell’opera originale, fondendolo alla perfezione con il suo stile unico e inconfondibile. Notiamo fin da subito che l’opera di Go Nagai è stata contestualizzata ai giorni nostri, con la presenza di cellulari, internet e social network, e sarà proprio questa la principale differenza con il manga.

Yuasa riesce, tramite una narrazione estremamente godibile e ritmata, a toccare quegli argomenti che hanno reso celebre il manga, primo tra tutti l’oscurità che si cela nell’animo umano. Nel corso dell’anime notiamo come la presenza dei demoni non sia altro che un pretesto per parlare del vero demone, l’uomo. Meschino, crudele, invidioso e sempre pronto a puntare il dito verso gli altri. All’interno della società le brave persone sono una minoranza, basta una situazione insostenibile per far uscire l’oscurità nel cuore dell’uomo, anche da quelle persone che credono di essere buone. Notiamo, inoltre, come la trasformazione in demone non sia altro che un mezzo per alimentare la vera essenza di quella persona, un potere di cui quell’essere dovrà servirsi per dare libero sfogo alla sua anima. Esistono quindi i Devilman, uomini che hanno ottenuto il potere di un demone ma, avendo di base un buon cuore, sono riusciti a mantenere la loro umanità.


A volte è il mondo stesso a chiederci di diventare cattivi, ma se lo diventiamo vuol dire che non siamo mai stati buoni.

Riflessioni a parte, abbiamo un anime estremamente crudo e violento, forse non ai livelli degli OAV di fine anni ’80 (consigliatissimi), ma comunque splatteroso ed esplicito al punto giusto, con Yuasa che dimostra di avere un certo talento nel confezionare anche le scene erotiche.


Il regista dimostra che metterci la propria inventiva in un adattamento può portare a risultati eccezionali.

I personaggi sono caratterizzati in modo fantastico, partendo da Akira, emblema dell’antieroe, passando per la dolce Miki, personaggio che non si può non amare. Il resto del cast è composto da personaggi estremamente interessanti e sfaccettati.
La trama scorre che è una meraviglia, fino a giungere ad un finale che trasuda poesia da tutti i pori. In generale gli ultimi due episodi sono di quelli che resteranno piantati nel mio cervello per sempre.

COMPARTO TECNICO

Se c’è una critica che si sente spesso muovere a Yuasa è che “i disegni sono brutti”.

Senza offesa, ma gli unici ad essere brutti sono determinati commenti, che rientrano in un altro messaggio che vuole mandare l’anime, ovvero di non giudicare mostruoso un qualcosa solo perché ha l’aspetto di un mostro.
Gli anime di questo regista hanno talmente tanti spunti interessanti da affossare il 99,9% degli anime esistenti, giudicarli solo per questi presunti disegni brutti non ha il minimo senso. Il design tipico del regista non sarà sicuramente l’emblema del realismo e del dettaglio, ma la dinamicità di questi disegni è eccezionale, oltre ad accentuare notevolmente l’espressività dei personaggi. In questo caso specifico, parlando di un manga dei primi anni ’70, abbiamo anche una certa coerenza con lo stile abbastanza “retrò” di Yuasa.

La regia è ottima come al solito, anche se notiamo uno Yuasa più trattenuto rispetto ad altre sue opere, probabilmente per rendere l’anime apprezzabile su più livelli di pubblico. Animazioni fluide e movimenti scomposti rendono Devilman Crybaby un’esperienza incredibilmente movimentata. Musiche molto belle, che si fanno sentire soprattutto nella parte finale. Molto buono l’adattamento e il doppiaggio italiano, non si lesina sul linguaggio scurrile, inoltre le voci sono tutte azzeccatissime.

IN CONCLUSIONE

Devilman Crybaby è l’ennesima perla di un regista sottovalutato solo per i suoi “disegni brutti”. Se cercate anime che diano qualcosa anche al cervello, andate a recuperarvi le sue opere, non ve ne pentirete.

Antonio Vaccaro

[#SerieTv] Atypical (Netflix), la recensione

“Sono strano, è quello che dicono tutti. A volte non capisco di cosa parlano le persone e questo mi fa sentire solo, anche se c’è altra gente intorno a me. E allora me ne resto seduto e inizio a gingillarmi, è il mio tipico comportamento autostimolatorio.”

Così inizia Atypical, nuovissima serie targata Netflix, vera e diretta come un pugno in faccia. Passata piuttosto inosservata fra le ultime uscite. La serie è arrivata sulla piattaforma streaming più in voga del momento l’11 Agosto, da un’idea di Robia Rashid e diretta da Seth Gordon.

LA TRAMA

La storia racconta le vicende di Sam Gardner, un diciottenne affetto da autismo che decide di cercare una fidanzata. Ovviamente la sua decisione si rivela molto più difficile del previsto e la sua voglia di autonomia gli farà affrontare le più svariate situazioni, che coinvolgeranno anche l’intera famiglia del ragazzo.

IL COMMENTO
In cosa consiste la forza di questo nuovo telefilm?

Cosa la rende una serie di forte impatto? Quella trattata non è una tematica semplice e inserirla in un contesto ilare è ancora più complicato. Il format del prodotto è infatti la commedia, con qualche sprazzo di drama, ma la genialità degli autori è stata quella di non banalizzare mai la condizione di Sam, ma semplicemente far passare la tragicità della sua realtà sotto un sottilissimo strato di ironia, quasi impercettibile. La serie è un concentrato perfetto di risate e forti momenti dal grande carattere psicologico.
La maggior parte delle persone non ha idea di cosa sia realmente l’autismo, non ne conosce i meccanismi e non saprebbe nemmeno come definirlo. Effettivamente questa è una condizione molto particolare e davvero difficile, sia da capire che da spiegare, perché ogni soggetto reagisce in un determinato modo. Solo chi vive a contatto con questa realtà può conoscere esattamente il significato del termine. Atypical forse lo rende un po’ più chiaro a tutti. Nella serie è Sam il centro di gravità permanente di ogni cosa, di ogni evento e di ogni azione, non potrebbe essere diversamente. C’è da dire, inoltre, che niente è stato strutturato per suscitare la compassione nello spettatore e questo lo si può notare già dal character design: Sam è un adolescente normale e vuole quella autonomia che alla sua età ogni ragazzo rivendica; nonostante la sua condizione e la continua protezione della famiglia, anche lui sente di voler diventare grande e lotta per ottenere questa indipendenza.

A tale proposito, è proprio la famiglia Gardner l’organo più complicato dell’intera opera: ogni membro, infatti, è a proprio modo proiettato tutto verso il protagonista, quasi come se egli fagocitasse ogni personaggio nella sua realtà. La madre troppo apprensiva, che si sente chiusa nella difficile monotonia della sua vita; il padre affettuoso ma che cerca di evitare il problema; la sorella minore cresciuta più in fretta del previsto. Questo modo di spiegare la gravità della situazione è anche molto realistico, infatti chi ha avuto modo di vivere realtà del genere o simili sa benissimo che determinate condizioni assorbono completamente qualsiasi persona intorno al soggetto che si ritiene bisognoso di maggiori attenzioni.

Questo non rende i personaggi stereotipati, tutt’altro, li rende semplicemente normali, li rende persone vere.

Non solo la famiglia di Sam, ma anche quei pochi amici e le semplici comparse, vengono tutti condizionati dal suo modo di essere e dal suo stile di vita. Nonostante questo, la forza del telefilm è che il protagonista non è sempre al centro degli episodi, ma è come un fantasma dietro ogni personaggio, costantemente presente. Vedremo infatti le vicende di ogni singolo protagonista anche al di fuori del contesto “Sam”, li vedremo gestire le loro vite e andare avanti con esse, ma tutto ritornerà sempre al punto di partenza in qualche modo.


Proprio per questo Atypical può essere considerato più un drama mascherato da commedia, bisogna saper leggere il dolore dietro le risate.

A questo ci pensa il cast, composto da attori di grandissimo livello fra cui spiccano Keir Gilchrist (Sam Gardner), perfetto nell’interpretazione di un ragazzo affetto da autismo, e Jennifer Jason Leigh (Elsa Gardner, madre di Sam), che riesce a trasmettere con chiarezza la lotta interiore del personaggio per sopravvivere ancora a questa difficile situazione.

IN CONCLUSIONE


Sicuramente Atypical è una delle rivelazioni di questo 2017, fresco, veloce, dinamico, non banale. Perfetta anche l’idea della durata di ogni episodio, di soli trenta minuti, perché questa è una serie che richiede velocità per non risultare noiosa e stancante. Con Atypical si comprende un po’ di più cosa significa avere a che fare con questo genere di situazioni realmente complicate. Di certo il messaggio della serie evidenzia la bellezza della vita e di quanto valga la pena viverla in qualsiasi condizione, ma prima di arrivare a questa consapevolezza bisogna lottare con tutta la forza che si ha.


Attendendo una possibile seconda stagione, non possiamo che consigliare assolutamente Atypical.
Buona visione!

Paolo Gabriele De Luca