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[#Nerd30Consiglia] Jin-Roh, Uomini e lupi

Torna la rubrica mensile dedicata all’animazione di nicchia, questa volta con un film targato Production I.G., con soggetto e sceneggiatura del genio Mamoru Oshii e regia di Hiroyuki Okiura, distribuito in Italia da Yamato Video.

Stiamo parlando di Jin-Roh: Uomini e lupi, film del 1999, considerato “l’ultimo grande anime del millennio” dalla stessa Production I.G. La pellicola fa parte della cosiddetta Kerberos Saga, creata dallo stesso Oshii, che comprende anche film in live-action e fumetti.

LA TRAMA

La storia è ambientata in Giappone negli anni sessanta di un universo storico alternativo ed è centrata attorno a Kazuki Fuse, un membro dell’unità di polizia anti-terrorismo di élite dei Kerberos Panzer Cops, dotata di armamento protettivo pesante, detta protect gear, stahlhelme equipaggiato con una maschera per l’ossigeno e la visione notturna, e di mitragliatrici tedesche MG 42. Addestrato a comportarsi come facesse parte di un branco di cani, da cui il nome Kerberos, Fuse è messo di fronte alla propria umanità quando manca di sparare contro una giovane terrorista: la ragazza si uccide facendo esplodere una bomba dinanzi a Fuse. In seguito Fuse inizia una relazione destinata alla tragedia con Kai, che incontra mentre si reca sulla tomba della terrorista suicida. (fonte Wikipedia)

IL COMMENTO

Jin-Roh può essere considerato senza alcun dubbio come uno dei capolavori dell’animazione giapponese, uno di quei film che trascendono il mezzo per diventare cinema puro e semplice. Prendendo come base la favola di Cappuccetto Rosso (nella sua versione originale, quindi senza lieto fine), si dipana una storia fortemente cinica e pessimista, quindi totalmente avversa a facili soluzioni per garbare al pubblico medio, da sempre più propenso a visioni positive, ma lontane dalla realtà in cui viviamo. La vera forza di Jin-Roh sta proprio in questo, nel buttare in faccia allo spettatore quella che è la cruda realtà, di fargli capire che è veramente difficile, se non impossibile, sfuggire al proprio destino e il solo provarci può portare ad un destino ancora peggiore.

Una trama che scorre lenta, inesorabile, con dei picchi da pelle d’oca, e vive dello sguardo asettico dei personaggi, verso i quali è impossibile empatizzare, che vivono nel sottile confine tra l’essere preda o predatore.

 

“Le fiabe in cui gli animali si mischiano agli esseri umani di solito finiscono piuttosto male. È meglio che le bestie si limitino alle loro storie.”

 

Il film passa attraverso scene oniriche di rara e cupa bellezza, con intermezzi narrati attraverso le parole di Kai, che racconta la favola di Cappuccetto Rosso con tono solenne, dando un’ulteriore pennellata di grigio alla vicenda. Il finale è amaro e quando partono i titoli di coda non si può fare altro che lasciarsi andare a lacrime di sconforto, accompagnate dalla malinconica “Grace Omega”, forse la colonna sonora più bella mai composta da Hajime Mizoguchi.

La sceneggiatura di Oshii è straordinaria come sempre, perché riesce a porre una sua visione precisa, lasciando comunque spazio allo spettatore. Questo è un film che ad ogni visione si rinnova, tirando fuori delle sfumature che magari erano sfuggite nelle visioni precedenti, quindi è impossibile non considerarlo un vero capolavoro.

“E poi alla fine il lupo divorò Cappuccetto Rosso.”

COMPARTO TECNICO

Sul piano tecnico abbiamo un lavoro veramente incredibile. Production I.G. ha fatto la scommessa su questo progetto, dedicandogli quasi 3 anni senza l’utilizzo di effetti digitali. La regia di Okiura è in perfetto stile Oshii, quindi abbiamo delle lunghe inquadrature e dei primi piani di forte impatto, con dei colori estremamente desaturati, quasi monocromatici, che fanno capire subito la cupezza della pellicola. Il character design dello stesso Okiura e di Tetsuya Nishio riesce a dare un grande realismo ai volti dei personaggi, oltre ad una forte espressività.

Le animazioni sono di una fluidità allucinante, probabilmente grazie ad un ampio uso del rotoscopio, che fornisce ai personaggi delle movenze estremamente realistiche. Altro capolavoro, come già anticipato, è la colonna sonora di Mizoguchi, una delle migliori mai realizzate per un’opera d’animazione, al pari di quella di Kenji Kawai per Ghost in the shell e di Yoko Kanno per Cowboy Bebop. Un plauso a Yamato per l’ottima edizione italiana.

IN CONCLUSIONE

Jin-Roh è uno dei pochi film d’animazione a meritare a pieno il voto 10/10. Una delle opere migliori partorite dalla mente di Mamoru Oshii, che ha avuto solo una minima parte del successo che meriterebbe.

Antonio Vaccaro

[#CiNerd] Dunkirk, la recensione

Uscito il 31 agosto, Dunkirk è l’ultima fatica del prolifico regista Christopher Nolan, conosciuto soprattutto per aver diretto il reboot della trilogia di Batman, Memento, Inception e il recente Interstellar .

Per la prima volta si è trovato alle prese con un film basato su fatti storici e all’apparenza sembra non aver disatteso le aspettative.

LA TRAMA

Francia, 1940: nonostante gli sforzi bellici a opera delle truppe inglesi e francesi, l’esercito tedesco della Wehrmacht riesce ad avere la meglio, costringendo gli alleati a una furiosa ritirata sulle coste della Manica. Oltre 400.000 soldati si ritrovano così ad attendere la salvezza in prossimità della cittadina di Dunkerque (Dunkirk è la traduzione in inglese) da cui verranno evacuati solo una settimana dopo, grazie anche all’aiuto dei civili accorsi con le proprie imbarcazioni per tentare di portare in salvo il più alto numero possibile di uomini. Tutto questo avviene a spese dell’equipaggiamento, delle armi e dei mezzi che, nella fretta di mettersi in salvo, vengono abbandonati in territorio nemico, compromettendo anche il futuro della guerra.

IL COMMENTO

Grazie all’abilità di Nolan, la drammatica vicenda viene ripercorsa attraverso tre punti di vista e tre momenti temporali che continuamente si intrecciano, si sovrappongono e si completano. Guarderemo il mare con gli occhi del soldato inglese Tommy (Fionn Whitehead) che, nel corso di una settimana e l’ausilio dei suoi commilitoni, cercherà ogni stratagemma per fuggire, per poi impersonare Mr Dawson (Mark Rylance) che, in una giornata, parte dalle coste inglesi e giunge a portare soccorso ai soldati con la propria piccola imbarcazione. Infine, solcheremo i cieli con il pilota Ferrier(Tom Hardy) il quale, in una sola ora, concentrerà tutte le proprie capacità per abbattere i bombardieri tedeschi. Il tempo è scandito dalla magistrale colonna sonora di Hans Zimmer che ha creato un vero e proprio orologio emozionale, un ticchettio inesorabile che instilla ancor di più quel senso di attesa e di angoscia che si respira per tutto il film. D’altronde l’intento è proprio quello di restituire una visione più complessa e organica di quella che è stata una delle vicende più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale, non proponendo la figura del soldato-eroe, senza macchia e senza paura, a cui ci ha abituati Hollywood, ma al contrario dando voce al terrore, alla codardia, alle emozioni umane di fronte alla paura di morire e di non farcela.

Perché Dunkirk non è un film di guerra, è un film sulla guerra, un film in cui si dà spazio all’uomo e non alle operazioni militari e ai generali delle stanze dei bottoni, in cui il senso di sconfitta e di fallimento pesano come una condanna. E tutto questo viene raggiunto nonostante la quasi assenza di dialoghi, quasi a voler lasciare lo spettatore solo con la frustrazione dei soldati.

Da un punto di vista prettamente storico, il film è abbastanza aderente ai fatti, con qualche aggiustamento qua e là per rendere la pellicola più godibile.

Ad esempio, il muso degli aerei tedeschi storicamente in quell’epoca non era dipinto di giallo, ma era più simile allo Spitfire degli alleati. Tuttavia Nolan ha deciso comunque di utilizzare la livrea gialla, in modo che fosse più riconoscibile agli occhi dello spettatore così da non generare confusione fra nemico e amico.

Non sono comunque mancate le polemiche.

Ad esempio riguardo la troppa visibilità degli inglesi a scapito dei francesi, ma del resto, a modesto parere di chi scrive, non è condannabile un regista che assuma il punto di vista della propria nazione soprattutto se, come in questo caso, rimane obiettivo e non dipinge il proprio popolo come perfetto e privo di aspetti negativi, tant’è che incontriamo il gruppo di soldati inglesi che preferisce imbarcare i propri connazionali respingendo i francesi, fino a poco prima considerati come alleati. Oppure il mancato appuntamento con una vera e propria esaltazione delle Little Ships, le piccole imbarcazioni inglesi che aiutarono, e non poco, nel corso dell’evacuazione. In effetti Nolan ne fa vedere poco più di una trentina mentre quelle accorse furono circa 700, tuttavia è riuscito comunque a restituire quel senso di patriottismo e di vero eroismo che ha contraddistinto i protagonisti della vicenda.

COMPARTO TECNICO

Sorretto, come già detto, da una colonna sonora di grande effetto, la pellicola dà sfoggio anche di una realistica e quanto mai rocambolesca rappresentazione dei tentativi di fuga e dei conseguenti attacchi dei tedeschi. Lo stesso Nolan ha dichiarato di non aver voluto usare gli effetti speciali, per cui le navi che affondano lo fanno sul serio, così come gli aerei che si schiantano sull’acqua non sono affatto dei modellini, mentre le bombe che il nemico sgancia sui pontili, fanno quasi venire voglia di tapparsi le orecchie e cercare il primo riparo disponibile. Il tutto per dare ancor di più quel senso di aderenza alla realtà che con la CGI sarebbe venuta a mancare.

CONCLUSIONE

Dunirk è un film da vedere, profondo e coinvolgente, ma probabilmente non piacerà a chi è abituato ad azione e dialoghi oppure a chi non ama i “giochetti” che Nolan fa con il tempo e con le prospettive.

Noemi Antonini

 

[#SerieTv] Atypical (Netflix), la recensione

“Sono strano, è quello che dicono tutti. A volte non capisco di cosa parlano le persone e questo mi fa sentire solo, anche se c’è altra gente intorno a me. E allora me ne resto seduto e inizio a gingillarmi, è il mio tipico comportamento autostimolatorio.”

Così inizia Atypical, nuovissima serie targata Netflix, vera e diretta come un pugno in faccia. Passata piuttosto inosservata fra le ultime uscite. La serie è arrivata sulla piattaforma streaming più in voga del momento l’11 Agosto, da un’idea di Robia Rashid e diretta da Seth Gordon.

LA TRAMA

La storia racconta le vicende di Sam Gardner, un diciottenne affetto da autismo che decide di cercare una fidanzata. Ovviamente la sua decisione si rivela molto più difficile del previsto e la sua voglia di autonomia gli farà affrontare le più svariate situazioni, che coinvolgeranno anche l’intera famiglia del ragazzo.

IL COMMENTO
In cosa consiste la forza di questo nuovo telefilm?

Cosa la rende una serie di forte impatto? Quella trattata non è una tematica semplice e inserirla in un contesto ilare è ancora più complicato. Il format del prodotto è infatti la commedia, con qualche sprazzo di drama, ma la genialità degli autori è stata quella di non banalizzare mai la condizione di Sam, ma semplicemente far passare la tragicità della sua realtà sotto un sottilissimo strato di ironia, quasi impercettibile. La serie è un concentrato perfetto di risate e forti momenti dal grande carattere psicologico.
La maggior parte delle persone non ha idea di cosa sia realmente l’autismo, non ne conosce i meccanismi e non saprebbe nemmeno come definirlo. Effettivamente questa è una condizione molto particolare e davvero difficile, sia da capire che da spiegare, perché ogni soggetto reagisce in un determinato modo. Solo chi vive a contatto con questa realtà può conoscere esattamente il significato del termine. Atypical forse lo rende un po’ più chiaro a tutti. Nella serie è Sam il centro di gravità permanente di ogni cosa, di ogni evento e di ogni azione, non potrebbe essere diversamente. C’è da dire, inoltre, che niente è stato strutturato per suscitare la compassione nello spettatore e questo lo si può notare già dal character design: Sam è un adolescente normale e vuole quella autonomia che alla sua età ogni ragazzo rivendica; nonostante la sua condizione e la continua protezione della famiglia, anche lui sente di voler diventare grande e lotta per ottenere questa indipendenza.

A tale proposito, è proprio la famiglia Gardner l’organo più complicato dell’intera opera: ogni membro, infatti, è a proprio modo proiettato tutto verso il protagonista, quasi come se egli fagocitasse ogni personaggio nella sua realtà. La madre troppo apprensiva, che si sente chiusa nella difficile monotonia della sua vita; il padre affettuoso ma che cerca di evitare il problema; la sorella minore cresciuta più in fretta del previsto. Questo modo di spiegare la gravità della situazione è anche molto realistico, infatti chi ha avuto modo di vivere realtà del genere o simili sa benissimo che determinate condizioni assorbono completamente qualsiasi persona intorno al soggetto che si ritiene bisognoso di maggiori attenzioni.

Questo non rende i personaggi stereotipati, tutt’altro, li rende semplicemente normali, li rende persone vere.

Non solo la famiglia di Sam, ma anche quei pochi amici e le semplici comparse, vengono tutti condizionati dal suo modo di essere e dal suo stile di vita. Nonostante questo, la forza del telefilm è che il protagonista non è sempre al centro degli episodi, ma è come un fantasma dietro ogni personaggio, costantemente presente. Vedremo infatti le vicende di ogni singolo protagonista anche al di fuori del contesto “Sam”, li vedremo gestire le loro vite e andare avanti con esse, ma tutto ritornerà sempre al punto di partenza in qualche modo.


Proprio per questo Atypical può essere considerato più un drama mascherato da commedia, bisogna saper leggere il dolore dietro le risate.

A questo ci pensa il cast, composto da attori di grandissimo livello fra cui spiccano Keir Gilchrist (Sam Gardner), perfetto nell’interpretazione di un ragazzo affetto da autismo, e Jennifer Jason Leigh (Elsa Gardner, madre di Sam), che riesce a trasmettere con chiarezza la lotta interiore del personaggio per sopravvivere ancora a questa difficile situazione.

IN CONCLUSIONE


Sicuramente Atypical è una delle rivelazioni di questo 2017, fresco, veloce, dinamico, non banale. Perfetta anche l’idea della durata di ogni episodio, di soli trenta minuti, perché questa è una serie che richiede velocità per non risultare noiosa e stancante. Con Atypical si comprende un po’ di più cosa significa avere a che fare con questo genere di situazioni realmente complicate. Di certo il messaggio della serie evidenzia la bellezza della vita e di quanto valga la pena viverla in qualsiasi condizione, ma prima di arrivare a questa consapevolezza bisogna lottare con tutta la forza che si ha.


Attendendo una possibile seconda stagione, non possiamo che consigliare assolutamente Atypical.
Buona visione!

Paolo Gabriele De Luca

[#NerdBook] Felicittà, il romanzo fantascientifico di Chris Red in Italia grazie ad una calabrese

Letteratura fantascientifica, la Francia e i talenti calabresi. Oggi parliamo di un romanzo che approda in Italia grazie a una giovane traduttrice della nostra terra: Felicittà.

Felicittà è un romanzo fantascientifico di Chris Red, pseudonimo di Christophe Demarcq, nato in Francia nel 1985. Appassionato di letteratura fin dall’infanzia, decide di fare lo scrittore una volta tornato da un viaggio Erasmus a Newcastle. Da questa decisione nascono diversi romanzi come Les Quatre Éléments – Tome 1 : Une Ère Nouvelle (2014), Les Quatre Éléments – Tome 2 : Félicité (2014), Voyage hors du temps (2014), Les Quatre Éléments – Tome 3 : Voyage à Shamballa (2015), Le secret de Karmenyta (2015).

chris red
Chris Red

Felicittà, è questo il primo dei suoi romanzi ad essere tradotto in italiano da Valentina Cuzzocrea, 27 anni, francofila, laureata in Lingue e Letterature straniere all’Università della Calabria, con una tesi in Letteratura francese dal titolo “Personaggi alla deriva nella letteratura francese del XX secolo: Lafcadio, Roquentin, Meursault”.

È il secondo tomo della saga “I Quattro Elementi”, dove quattro umani sono alla ricerca di Salina, rapita da Kharkov per diventare la moglie del Principe Cyrillus.

Ognuno dei quattro protagonisti è collegato a un elemento della natura che ne rispecchia il carattere: Natan è il messaggero del fuoco, Jérémy della terra, Kerian dell’aria ed Edwin dell’acqua.

TRAMA

Il romanzo inizia con un prologo attraverso il quale il lettore viene introdotto nella storia. I quattro uomini si ritrovano ad Akator, dove alcuni esseri non ben definiti sembrano conferire loro una missione: salvare Felicittà da umani impostori. Felicittà era un pianeta abitato da amabili felidi che conducevano una vita serena fino all’arrivo del Principe Cyrillus. Quest’ultimo finge di essere il messaggero di una profezia e approfitta della fiducia degli abitanti del posto per poter dare sfogo alla sua sete di potere, riuscendo a mettere i felidi gli uni contro gli altri. I quattro protagonisti giungono a Felicittà attraverso la porta delle stelle e il loro primo incontro è Amaru, un felide che ormai viveva come eremita in una zona fuori mano poiché attendeva i veri messaggeri che avrebbero salvato la situazione del suo pianeta. È lui che spiega gli ultimi avvenimenti accaduti nel suo pianeta ai nuovi arrivati e, come un moderno Virgilio, li accompagna lungo il percorso. In questo pianeta, Natan, Edwin, Kerian e Jérémy si troveranno a viaggiare un lungo e in largo in diversi continenti, incontrando felidi dalle diverse attitudini e con caratteri diversi, affronteranno sfide, dimostreranno il loro valore e il loro coraggio, si troveranno ad essere ancora più uniti e ad apprezzare maggiormente la propria vita. Andranno oltre le differenze, stringeranno nuove amicizie con i felidi, apprezzeranno diversi stili di vita e capiranno di avere, ognuno, un potere che lo aiuterà nel corso della storia.

IL COMMENTO

valentina cuzzocrea
Valentina Cuzzocrea

Dal punto di vista stilistico, Chris Red ha utilizzato un tipo di narrazione eterodiegetica, permettendo al lettore di avere una visione lucida e globale non solo degli avvenimenti, ma anche dei pensieri dei personaggi, questione fondamentale per poter comprendere a pieno i vari legami e intrecci. Una delle tematiche che fanno da base a Felicittà è proprio l’abbandono del materialismo sfrenato che caratterizza i nostri tempi e il ritorno a rapporti personali molto più sinceri, basati sulla comprensione dell’altro. Si troveranno anche altre tematiche, per citarne alcune a titolo di esempio: la coscienza cosmica con i registri Akashici, il vegetarianesimo o il conflitto tra bene e male. Quest’ultima tematica è amplificato dal fatto che questi concetti teorici vengono rappresentati da Natan e da suo fratello, il Principe Cyrillus. Una famiglia che dà vita a due persone che hanno valori radicalmente opposti.

È un romanzo scorrevole, dalla storia interessante, che permette al lettore diversi spunti interpretativi, d’altronde Chris Red stesso afferma

 «sono un autore che vuole fare divertire e che risponde a un desiderio di evasione trasmettendo un messaggio personale e generando delle riflessioni personali e collettive».

Potete acquistare l’ebook ai seguenti link: Kobo.com – barnesandnobles.comitunes 

Miriam Caruso

 

[#CiNerd] Death Note di Netflix, la recensione

Una delle produzioni originali Netflix più discusse e attese dell’anno è stata sicuramente la trasposizione live action di Death Note, famoso manga illustrato da Takeshi Obata e scritto da Tsugumi Ōba.

Il film in questione ha sollevato un vero e proprio polverone. Da un lato abbiamo l’accanimento dei fan dell’opera originale, che si sono visti stravolgere il loro manga e anime preferito, dall’altro una ristretta cerchia di persone che trovano senza senso l’idea di valutare il film confrontandolo con l’opera originale, trattandosi di una pellicola “ispirata” al mondo di Death Note. Lasciatemi dire che la verità si trova nel mezzo, per un semplice motivo: Netflix ha puntato al guadagno sfruttando il nome Death Note, facendo leva sull’affetto dei fan del manga e dell’anime. Quindi, se da un lato si dovrebbe giudicare il film come opera a parte, dall’altro è anche giusto che un fan che paga il suo abbonamento possa indignarsi. Del resto si poteva creare un soggetto originale invece di sfruttarne uno arcinoto, perché il confronto viene quasi naturale ed è sacrosanto. In ogni caso creare un film identico al manga o all’anime non avrebbe alcun senso, ma è giusto rispettare almeno il carattere dei personaggi o lo spirito originale.

In ogni caso lasciatemi dire che Death Note di Netflix sarebbe un brutto film, anche se il manga e l’anime non fossero mai esistiti.

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TRAMA

Light Turner è uno studente delle scuole superiori. Un giorno si imbatte in unquaderno dai poteri soprannaturali, il Death Note, che è stato lasciato sulla Terra dal dio della morte Ryuk. Il quaderno conferisce a Light il potere di uccidere chiunque scrivendoci il nome e avendone ben presente in testa il volto. Light inizia ad usare il Death Note per uccidere criminali e disonesti, così da creare un mondo dove non ci sia più il male. Le morti improvvise e misteriose però attirano l’attenzione di Elle, un investigatore privato chiamato a indagare sul caso. Light decide di usare il potere a fin di bene, ma perdendo sempre di più il controllo. (fonte Wikipedia)

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IL COMMENTO

Partiamo dicendo che il film su Death Note non riesce quasi mai a mantenere salda l’attenzione sul racconto, questo a causa di una gestione narrativa troppo frettolosa e spezzettata, con l’assenza di scene di raccordo che possano rendere più quadrata la psicologia dei personaggi e spiegare le loro motivazioni. Il protagonista non riesce quasi mai a mostrare carisma, sia per problemi di scrittura che recitativi. Nel primo incontro tra Light e Ryuk (interpretato da Willem Dafoe tramite motion capture) abbiamo un Nat Wolff quasi imbarazzante, che ha una reazione che sembra uscita da uno Scary Movie. In ogni caso l’attore non riesce mai ad attirare l’attenzione su di sé in modo positivo.

In generale si nota una direzione attoriale non proprio eccezionale, anche nel caso di L, interpretato da Keith Stanfield, che sicuramente avrebbe potuto dare qualcosa in più al personaggio. Le cose peggiorano se pensiamo al carisma del Light originale (qui totalmente assente) e alla pacatezza di L (che qui perde la calma in continuazione). Il personaggio che più si avvicina alla controparte originale è quello di Mia (Misa Misa nell’anime e nel manga), interpretata da Margaret Qualley, ma è il suo rapporto con Light ad essere stato stravolto a favore di una fastidiosa love story con elementi da classico teen movie.

Nel complesso il film non offre nessuno spunto interessante su cui riflettere, toccando velatamente la tematica sulla giustizia del manga originale. Inoltre abbiamo un finale che lascia solo un gigantesco:

“E QUINDI??”

 

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COMPARTO TECNICO

Anche sul lato tecnico non abbiamo un film eccezionale.

Non si potrebbe neanche definire “da mestierante” la regia di Wingard, che non offre nessuna trovata stilistica particolare, tranne qualche bella inquadratura a diaframma apertissimo (quindi con uno sfocato molto accentuato avanti e dietro al soggetto). Diciamo che il regista si limita a svolgere il suo compito, anche considerando una fotografia generalmente “normale” per tutto il film. Abbiamo inoltre qualche rallenty veramente troppo ostentato, soprattutto nel finale.

Sul lato musicale ci sono delle trovate veramente infelici, come l’inserimento di pezzi totalmente fuori contesto considerando il tono del film, come una “The Power Of Love” nel rallenty sopracitato (o altre canzoni simili). Effetti visivi non eccezionali, anche per lo stesso Ryuk, spesso posizionato in zone d’ombra per coprirne i difetti.

IN CONCLUSIONE

Death Note di Netflix può essere considerato come un fallimento quasi totale.

Speriamo che Netflix si concentri sulla creazione di storie originali, perché questo film è l’ennesima dimostrazione di quanto sia difficile americanizzare un’opera giapponese.

Antonio Vaccaro

[#CiNerd] Una spia Rock per Atomica Bionda

Capelli biondo platino, vestiario sexy al punto giusto, espressione del volto che vale più di mille parole…questo e altro ancora è Charlize Theron in Atomica bionda, adattamento cinematografico della graphic novel The Coldest City di Antony Johnston.

Siamo in Germania nel novembre del 1989, alle porte della caduta del muro di Berlino. Mentre il mondo si prepara al futuro cambiamento, forze organizzative muovono i loro pedoni.

Chi farà scacco matto?

A vestire i panni dell’agente Lorraine Broughton è Charlize Theron che, indossando elegantemente i tacchi della spia dura, risulta avere anche dei sentimenti e non si ferma davanti a nessun ostacolo. Inviata in missione a Berlino, incontra David Percival, interpretato degnamente da James McAvoy, già protagonista di Split (qua la recensione del nostro Antonio Vaccaro), che osserva il mondo con quegli occhi di ghiaccio che guardano e parlano allo spettatore più dei suoi dialoghi.

Atomic Blonde (2017)

Ovviamente non fila tutto liscio come l’olio e la biondissima Charlize, in numerose occasioni, si ritrova ad affrontare delle scene d’azione dove l’ingegno e la tenacia hanno la meglio. Proprio nei combattimenti compare la firma del regista David Leitch, direttore insieme a Chad Stahelski del film John Wick, che, con definiti movimenti di camera, seguono le azioni concitate degli attori e catapultano lo spettatore tra le strade della città o in claustrofobici ambienti chiusi.

Anche se la caduta del muro di Berlino è marginale rispetto all’intricata storia, è comunque sempre presente nelle varie scene con alcuni escamotage: una tv che passa le immagini della ribellione, dei manifestanti sparsi agli angoli delle strade o nei dialoghi delle comparse. Ciò serve a contestualizzare storicamente gli avvenimenti narrati in questo mondo parallelo. In supporto a questo vi sono elementi quali neon, oggettistica, arredamenti interni, specchi che, con lo stile punk dei giovani, caratterizzano l’ambientazione di fine anni ’80.

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Le azioni dei protagonisti sono scandite dai brani che costituiscono la colonna sonora del film: da David Bowie agli Healt, dai Clash ai Queen, dagli Eurythmics a Tyler Bates. La musica accompagna gli effetti speciali, individuati specialmente nelle scene di lotta e nel montaggio, rendendo la progressione delle scene dinamica ma naturale. Probabilmente il regista Leitch si sarà mantenuto in vista del suo prossimo lavoro, Deadpool 2? Chi lo sa…staremo a vedere!

Concludendo

Atomica bionda vale la pena di essere visto! Donne, armatevi dei vostri tacchi a spillo o degli stivaletti rasoterra e smascherate il marcio che vi è nel mondo!

Teresa Cupiraggi

[#Anime] Tsukigakirei, la recensione

L’amore per l’animazione è veramente un sentimento strano.

A volte capita di credere che l’animazione non possa più sorprenderci, che probabilmente le emozioni provate con un determinato anime non siano più replicabili in futuro. Lasciatemi dire che non c’è niente di più sbagliato. In un certo senso l’anime di cui parlerò ne è la prova, sia per le emozioni che riesce a trasmettere, sia perché è un’opera che parla di come l’amore vero non smetta mai di sorprenderci emotivamente, proprio come riesce a fare l’animazione stessa.

Tsukigakirei (As the moon, so beautiful) è un anime originale in 12 episodi prodotto da studio Feel, con regia di Seiji Kishi, andato in onda tra il 6 aprile e il 29 giugno 2017 e disponibile su Crunchyroll.

Personalmente nutro sempre grosse aspettative nei confronti degli anime originali, ma non avrei mai creduto che l’opera in questione fosse una così gradita sorpresa.

 

LA TRAMA

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Akane Mizuno e Kotarō Azumi sono due quindicenni compagni di classe del terzo anno delle medie, il primo con la passione per la scrittura e le opere di Osamu Dazai, la seconda per l’atletica leggera. Dopo essersi incontrati in alcune occasioni, tra i due inizierà a nascere un interesse reciproco, una sorta di simbiosi che li aiuterà a crescere e maturare, proprio mentre si avvicina la fine delle medie.

 

IL COMMENTO

Tsukigakirei è un anime che parla della purezza del primo amore, un sentimento forte, semplice e non corrotto dalle delusioni che ci colpiscono nell’arco della vita. L’anime cerca di soffermarsi sulla forza che scaturisce dalla complicità, che riesce ad essere il motore del miglioramento personale dei nostri due protagonisti.

Grazie all’utilizzo di situazioni tipicamente adolescenziali, come la prima cotta o gli amori non corrisposti, lo sceneggiatore Yuuko Kakihara riesce a dipanare uno slice of life semplice ma dal forte impatto emotivo. Si potrebbe dire che l’opera non ha nulla di originale, ma il concetto di originalità è relativo all’obbiettivo di una serie. In questo caso abbiamo una serie che punta a far emozionare lo spettatore, riuscendoci in diverse occasioni. Si potrebbe quasi parlare di “originalità emotiva”.

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Durante la visione succede di immedesimarsi nelle varie situazioni proposte, che capitano a tutti nell’arco della vita e sono talmente forti da segnarci per sempre.

I rapporti tra i personaggi sono gestiti in modo sublime ed estremamente realistico, con i tipici dubbi di chi affronta l’amore per la prima volta, come il sentirsi imbarazzati tanto da non sapere come comportarsi. Il primo amore spinge la persona a dare tutto se stesso, senza preoccuparsi delle conseguenze o di rimanere delusi.

La vita insegna che il vero rimpianto è non averci provato.

I personaggi sono tutti caratterizzati molto bene, sia i protagonisti che i comprimari più importanti.

L’ultimo episodio della serie è un concentrato di emozioni. Personalmente non mi era mai successo di commuovermi dopo i titoli di coda, che in questo caso sono talmente belli da far sciogliere anche un cuore di pietra.

 

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COMPARTO TECNICO

Sul lato tecnico abbiamo qualche nota leggermente dolente, ma niente che possa inficiare la visione dell’anime. La regia è abbastanza buona, soprattutto nelle scene di dialogo tra i due protagonisti, sia nei campi stretti che in quelli lunghi, in cui la composizione della scena è molto ben curata e riesce ad esaltare emotivamente il tutto, grazie anche ad una buona cura nei fondali, in alcuni casi realizzati probabilmente partendo da vere e proprie fotografie post-prodotte. Animazioni non eccezionali, tranne per alcune scene di danza del nostro Kotarō, realizzate con la tecnica del rotoscopio, che consiste nel realizzare l’animazione riprendendo un attore in carne ed ossa e ricalcando la scena. I modelli umani in computer grafica sono veramente di bassissima qualità, cosa che si nota parecchio avvicinandosi allo schermo, nonostante vengano utilizzati solo per animare le persone per strada. Le musiche sono molto interessanti ma poco varie, nonostante diano una grossa mano per esaltare la scena.

IN CONCLUSIONE

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Tsuki Ga Kirei è un anime che ogni amante del genere romance dovrebbe vedere, ma che può garbare anche a chi non ama particolarmente questo tipo di serie.

Un’opera che dimostra ancora una volta come un anime originale, non legato ad un’opera esistente e quindi completamente libero, possa raggiungere dei livelli altissimi.

 

Antonio Vaccaro

[#Anime] Berserk 2017, la recensione

La stagione primaverile degli anime sta per giungere al termine e anche quest’anno si torna a parlare di Berserk, con la seconda stagione dell’adattamento anime prodotto da LIDENFILMS, con regia di Shin Itagaki.

Trovate la recensione della prima stagione qui!

LA TRAMA

Continua il viaggio di Gatsu, questa volta con l’intento di fermare Griffith e vendicarsi dello sterminio avvenuto durante l’eclissi proprio a causa del suo vecchio amico. Nel frattempo Griffith sta raccogliendo membri per formare una nuova Squadra dei Falchi, con l’intento di conquistare Midland. Nel suo viaggio Gatsu e i suoi amici incontreranno la strega Flora e la sua apprendista Shilke e nel frattempo dovranno combattere contro gli apostoli di Griffith.

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Stava aspettando un bella trasposizione anime di Berserk…

IL COMMENTO

La nostra vecchia recensione si concludeva con la speranza in una seconda serie più curata sul lato tecnico. Lasciatemi dire che dopo pochi episodi la sensazione che si respira è quella di stare osservando una seconda stagione ancor più scabrosa della prima. Ovviamente stiamo comunque parlando di Berserk, una serie con una grandissima forza narrativa, ma in questo anime il lato estetico è talmente di basso livello da sotterrare completamente il lato narrativo, rendendo la visione dell’anime un qualcosa di paragonabile alla contemplazione del muro del pianto. Un vero peccato, perché l’arco narrativo in questione è molto godibile nel manga, con Miura che non finisce mai di stupire per le sue grandissime doti di illustratore, accompagnate da una buona narrazione. Oltretutto in questo arco viene introdotto uno degli oggetti più importanti dell’intero manga e viene ulteriormente ampliato il fascino del Cavaliere del Teschio, personaggio che meriterebbe un manga spin-off per far conoscere meglio la sua storia. La trama è abbastanza godibile, con un buon sviluppo anche sul lato caratterizzazioni, in particolare per il personaggio di Shilke.

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No dai ragazzi, non lo voglio guardare quest’anime, me ne vado!

APPARATO TECNICO

Come abbiamo accennato, sul lato tecnico l’anime riesce a sprofondare ancora più in basso rispetto alla prima stagione. Viene quasi da pensare che lo staff di produzione si sia impegnato per rendere l’anime il più brutto possibile, facendo affezionare i propri spettatori alla sensazione di “vediamo che hanno combinato in questa puntata”. Registicamente il “buon” Itagaki si conferma un compositore stonato e fuori tempo, con alcune inquadrature che sembrano composte letteralmente ad occhi chiusi, come viene viene. Paragonando l’anime ad un live action non si potrebbe neanche parlare di scene girate, perché l’unico ad essere girato sarebbe lo spettatore, proprio per non vedere uno scempio simile.

 

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In questa scena muoiono in due, un personaggio e l’animazione

Di tanto in tanto la camera inquadra letteralmente il nulla o dettagli insignificanti ai fini della comprensione della scena, rendendo confuse le parti d’azione. A volte sembra di star guardando l’anime attraverso il foro di un barile che rotola giù da una montagna. Nessuno studio sulla profondità di campo, che rende i personaggi ancor più legnosi e realizzati in malo modo. Oltretutto in questa seconda stagione si notano dei modelli in CGI ancor meno dettagliati.

 

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No, non è una scena scriptata di un gioco della PS1, è proprio l’anime di Berserk

Di tanto in tanto compare qualche bel cut in animazione tradizionale, ma senza il minimo senso logico. Tra l’altro si nota un sync di bassissimo livello nel doppiaggio (problema che il doppiaggio giapponese degli anime ha sempre avuto, amplificato in questo caso), soprattutto in queste scene animate tradizionalmente, in cui i personaggi continuano a muovere la bocca anche dopo alcuni secondi di silenzio.

Per il resto l’anime mantiene tutti i problemi elencati nella recensione della prima serie, aggiungendoci alcune musiche fuori luogo in alcune scene.

L’unica nota di merito per l’opening della serie, veramente splendida.

IN CONCLUSIONE

Berserk 2017 è l’ennesimo fallimento di trasporre in animazione l’opera di Miura. Se avete conosciuto Berserk tramite questa serie non posso che consigliarvi di leggere il manga, che definire di un altro pianeta sarebbe riduttivo, renderei giustizia solo dicendo che appartiene a un altro universo.

Antonio Vaccaro

 

[#CiNerd] Wonder Woman, la recensione

Uscito da pochi giorni nelle sale, Wonder Woman è il nuovo film di casa Warner, diretto dalla regista Patty Jenkins, distintasi 14 anni fa per Monster.

Nata nel 1941 dalle idee di William Moultom Marston e della moglie Elizabeth, Wonder Woman fu creata per donare alle donne un simbolo di indipendenza e di forza, nonché di emancipazione dall’universo maschile. Molte furono le polemiche che accompagnarono questo controverso personaggio, un po’ per i vestiti troppo succinti, un po’ per la personalità decisamente spregiudicata nonché per la sessualità ambigua, tutte tematiche molto difficili e osteggiate nel momento storico della sua creazione.

 

« Il miglior rimedio per rivalorizzare le qualità delle donne è creare un personaggio femminile con tutta la forza di Superman ed in più il fascino di una donna brava e bella. »
(William Moultom Marston)

LA TRAMA

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Nata in una comunità di Amazzoni nell’isola di Themyscira, la piccola Diana si trova a crescere in un luogo paradisiaco fatto di cascate e giornate di sole, senza l’ombra di conflitti o guerre. Tuttavia, nonostante la fiera opposizione della madre, la regina Hippolyta (Connie Nielsen), Diana sente in sé il germe dell’avventura e, con l’aiuto della zia Antiope (Robin Wright), intraprende un percorso di addestramento per imparare l’arte della guerra. È proprio durante questi duri allenamenti che una giovane Diana (Gal Gadot) scopre, per puro caso, di possedere poteri straordinari, di essere ancora più forte delle già potenti donne guerriere che popolano l’isola e, ancor di più, percepisce dentro di sé la necessità di utilizzare queste doti straordinarie per un obiettivo più grande. Le sue richieste vengono esaudite quando il pilota americano Steve Trevor (Chris Pine) atterra sulle coste dell’isola per fuggire dai soldati tedeschi. Nel salvarlo da morte sicura, Diana scopre che nel mondo fuori da Themyscira si sta combattendo una delle guerre più sanguinose della storia: la Prima Guerra Mondiale. Diana non ha dubbi: è stato Ares, dio della guerra, ad aver scatenato tanta violenza nel genere umano, perciò decide di partire insieme a Steve per cercarlo e distruggerlo.

IL COMMENTO

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Molto atteso dal pubblico, Wonder è sicuramente un cinecomic godibile, ricco di effetti speciali e di momenti di sana comicità. Dal punto di vista narrativo, il film rispetta in modo ottimo la storia originale, apportando qua e là delle modifiche, ma mantenendo salda la struttura base, così da non far storcere troppo il naso ai puristi del fumetto.

Tuttavia la sfida raccolta da Patty Jenkins era forse troppo difficile. La Diana non ancora Wonder Woman non convince appieno: troppo ingenua, troppo retorica e bandiera dell’ormai inflazionato “Amor Vincit Omnia” e non sempre supportata da Gal Gadot che, seppur bellissima, pecca spesso di poca espressività. La nostra eroina è ancora nella fase iniziale della scoperta di sé, ma sembra comunque troppo sprovveduta, se non nei momenti di guerra vera e propria in cui, invece, sfodera uno spirito combattivo e aggressivo.

Troppe anche le domande rimaste senza risposta: come mai l’isola di Themyscira è protetta da una cupola, ma Steve non ha nessuna difficoltà a oltrepassarla? Perché Diana possiede dei poteri così speciali? Una piccola risposta arriva nel finale ma, a parere di chi scrive, non ha avuto i giusti approfondimenti. Anche la comunità di Amazzoni non è stata in alcun modo analizzata e presentata al grande pubblico nei suoi aspetti essenziali quali la gerarchia, le attività di sussistenza e soprattutto la sessualità, lati che valeva la pena rappresentare soprattutto in un panorama cinematografico dove scarseggiano le storie tutte al femminile.

Ma la vera occasione mancata sta nell’aver caratterizzato molto poco i villains. Nel percorso verso la distruzione di Ares, Diana incontrerà sul proprio cammino il perfido Generale Ludendorff (Danny Huston) e la geniale quanto folle Doctor Poison (Elena Anaya): chi sono questi personaggi? Qual è il loro personale background? Quali i fantasmi o gli aspetti della propria vita a tormentarli? Tutti interrogativi aperti che, speriamo, vengano svelati nei successivi film incentrati sull’eroina DC.

COMPARTO TECNICO

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Dal punto di vista tecnico, il film si mostra in linea con il classico cinecomic con effetti speciali davvero notevoli e con un ottimo lavoro sulla profondità di campo. Ottima anche la resa della Guerra Mondiale, con una giusta rappresentazione delle trincee e del campo di battaglia, ricreando l’atmosfera angosciosa e di paura tipica di quel periodo storico. Peccato per l’uso eccessivo dell’effetto rallenty nelle sequenze di combattimento, che appesantiscono in modo notevole i movimenti e la fluidità delle inquadrature.

CONCLUSIONE

Wonder è un film da vedere, coinvolgente e divertente. L’intrattenimento offerto è anche sopra la media rispetto ai cinecomics che abbiamo già visto, ma c’è ancora molto da attendere prima di vedere la vera Wonder Woman in azione, così come noi attendiamo il seguito in modo da poter dare un giudizio più completo ed obiettivo.

Noemi Antonini

[#CiNerd] Alien: Covenant, la recensione

L’attesa è finalmente terminata. Alien: Covenant è uscito lo scorso 11 maggio nelle sale italiane.

Grandi le aspettative da parte dei fan storici della saga che, dopo i vari crossover con la saga di Predator,  che attendevano con trepidazione un nuovo film che portasse ufficialmente avanti il nome di Alien. Finalmente le speranze sono state soddisfatte.
Alien: Covenant va a collocarsi cronologicamente tra il precedente Prometheus (2012) e il primo film della saga (1979), quindi è il secondo prequel del capolavoro di Ridley Scott.

LA TRAMA

In un flashback si assiste ad un profondo dialogo sulla creazione tra Peter Weyland (Guy Pierce) e il sintetico David (Michael Fassbender), l’androide che prenderà parte alla spedizione Prometheus. Nel 2104 l’astronave Covenant è in viaggio per una missione di colonizzazione verso il pianeta Origae-6, con a bordo 2000 coloni in stato di ipersonno, ma una tempesta di neutrini danneggia l’astronave, provocando la morte di 47 coloni e del capitano Branson (James Franco). L’androide Walter (Fassbender) è costretto a risvegliare il resto dell’equipaggio dall’ipersonno. Dopo aver ricevuto una trasmissione radio proveniente da un pianeta vicino, l’equipaggio della Covenant decide di recarsi in esplorazione su quel mondo. Una volta atterrati si accorgono che il pianeta non ha forme di vita animali, nonostante le condizioni atmosferiche favorevoli.

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IL COMMENTO

Partiamo subito dicendo che Alien: Covenant ha molto più il sapore di un sequel di Prometheus che quello di un prequel di Alien, nonostante nei titoli di testa venga presentato il titolo con la stessa trovata grafica del primo film, con le scritte che si compongono poco alla volta. Purtroppo la scelta di utilizzare il nome “Alien” porta ad un necessario raffronto con le pellicole dello stesso franchise, quindi si cercherà di valutare il film sia come opera a se stante, sia come ulteriore tassello di una saga storica. L’inizio del film fa ben sperare, con lo splendido dialogo tra Weyland e David, che colpisce fin da subito per la profondità dei temi trattati. Una scena molto “alla 2001: Odissea nello spazio”, con Pierce e Fassbender che fanno letteralmente a gara di bravura.

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Purtroppo, dopo un inizio veramente adulto, il film tende a sprofondare verso binari più leggeri e action. Questo potrebbe anche non essere considerato un difetto, del resto anche i precedenti film della saga puntavano principalmente all’intrattenimento (in particolare Aliens di James Cameron), ma lo facevano con una certa coerenza e originalità. In questo film abbiamo soluzioni narrative a volte troppo forzate, con i personaggi che fanno delle scelte veramente assurde e stereotipate in alcuni frangenti. Gli stessi personaggi hanno delle caratterizzazioni quasi inesistenti, soprattutto se paragonate allo splendido equipaggio della Nostromo del primo film di Scott o ai vari marines coloniali del secondo film di Cameron. Il film è sorretto quasi interamente dalla prova di Fassbender, che fa letteralmente un lavoro doppio in questo film. Il personaggio di Danielss (Katherine Waterston) voleva probabilmente essere un omaggio a quello iconico di Ellen Ripley, ma non riesce neanche lontanamente a raggiungere il carisma dello storico personaggio interpretato da Sigourney Weaver.
Per il resto la pellicola va avanti in modo abbastanza “goffo”, riprendendosi nell’ottima parte finale, forse l’unica veramente “alla Alien” del film. Nel complesso si tratta di un buon film d’intrattenimento, con delle idee interessanti ma che vengono lasciate molto in sottotesto.

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APPARATO TECNICO

Si parla di un film di Ridley Scott, quindi sul lato visivo abbiamo un film veramente notevole.

Splendida la scena del dialogo tra David e Walter, con la camera che si sposta tra i due personaggi senza stacchi, con Fassbender che parla e si risponde in maniera credibilissima. Spettacolari le scene nello spazio, in particolare l’ingresso nell’atmosfera del pianeta, che riesce a stupire per la sua bellezza estetica. Buone le scene d’azione, nonostante non siano chiarissime in alcuni frangenti. Gli effetti visivi del film sono di ottimo livello, ma personalmente avrei optato per qualche animatronic o per qualche costume in più, anche per omaggiare i vecchi film. Le varie creature sono realizzate interamente in computer grafica e in alcuni momenti non riescono a dare l’impatto che potevano dare gli xenomorfi o la regina in Aliens, realizzati tramite attori in costume e animatronic.

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Alien: Covenant

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Aliens

La fotografia è abbastanza cupa, in particolare all’arrivo sul pianeta, dando la sensazione dell’ostilità che attende l’equipaggio. Il sonoro è veramente ispirato, sia sul lato musicale, sia sugli effetti.

CONCLUDENDO

Alien: Covenant è un film che riesce a soddisfare il suo pubblico sia sul lato tecnico che sull’intrattenimento, nonostante le soluzioni di sceneggiatura poco ispirate. Probabilmente i fan storici della saga non lo troveranno così eccezionale, ma riesce comunque a rispondere ad alcune domande sulla creazione degli xenomorfi, nonostante ne faccia porre molte altre.

Attendiamo il successivo film, sperando che sia più curato anche sul lato sceneggiatura.

Antonio Vaccaro